venerdì, gennaio 20, 2006

Benedictus benedicat


Un freddo mattino del gennaio 1922 si diffuse la, inattesa e per questo ancor più dolorosa, notizia della morte del sessantasettenne Papa Benedetto XV.

Il cardinale Mercier, primate del Belgio, dichiarò ad un giornalista:
"Benedetto XV è stato falciato prima di poter dare la sua messe. Leone XIII, morendo, poteva guardare al suo Pontificato come ad un'opera compiuta.
Pio X, salito al trono col proposito di istaurare tutto in Cristo, si può dire che l'abbia condotto a termine.Ma Benedetto XV è stato falciato prima del tempo.
Mi sembra che egli possa paragonarsi ad un artista rapito da morte mentre stava ancora intento all'opera sua.
Tutti hanno sentito questo e voi vi spiegate così come da ogni parte sono giunti a Roma telegrammi di cordoglio."

Tra gli indubbi meriti del papa meno famoso del XX secolo, c'è anche quello d'esser stato il talent scout dei suoi quattro successori.
Scelse Eugenio Pacelli per la Nunziatura di Monaco di Baviera e quale atto di personalissima stima lo volle personalmente consacrare vescovo nella Cappella Sistina, il 13 maggio 1917 (esattamente nell'ora in cui a Fatima la Madonna appariva a tre pastorelli; la qual coincidenza -è facile immaginarselo!- non potè non impressionare il futuro Pio XII). Monsignor Roncalli (futuro Giovanni XXIII) fu scelto per il delicato incarico di Nunzio Apostolico in Bulgaria, mentre l'immediato successore Achille Ratti (Pio XI) fu mandato quale Nunzio nella risorta Nazione polacca, portandosi dietro per segretario un giovanissimo "don Battista" Montini (futuro Paolo VI).
Proprio l'allora ventiquattrenne Giovanni Battista Montini, nelle lettere inviate ai familiari così racconta della morte del Papa:
"Carissimi,
questa mattina verso le nove la salma del S. Padre, dalla sala del Trono, che sta al secondo piano delle Logge, dove era stata trasportata ieri alle 15 […] su una portantina sorretta dai Sediari è stata portata in S. Pietro, accompagnata solo da dignitari della Curia e da alcuni prelati.
La sfilata che discendeva lenta e grave cantando il Miserere a verso a verso dev’essere stata solenne d’un misterioso cordoglio.
Poi in S. Pietro immenso fra canti d’infinita dolcezza, così mi dicono, il corteo ha deposto le spoglie del Papa nella Cappella del Santissimo.
I cancelli sono chiusi, e il popolo comincia a sfilare.
Piove, come piove a Roma, ma quest’oggi, alle due, tutti si va a S. Pietro. Non è manco possibile pensare a prendere un tram. La piazza è un esercito d’ombrelli, gregge nero accalcato, ammonticchiato contro i cordoni della truppa che divide in sezioni la Piazza perché la ressa sia meno disordinata.
Si è fermati alla gradinata e si sta sotto la pioggia che sembra singhiozzi da un cielo crucciato e implacabile. La folla curiosa, ciarliera, impaziente non cede.
C’è tra la gente qualche viso pacato di forestiero, qualche velo sdruscito di monaca; il resto è popolo, è Roma, popolo che sembra creato apposta per riflettere nel suo animo le emozioni di lutto oggi, di gioia domani che dal mondo confluiscono qua; popolo che nell’incalzante pressione verso le soglie del grande cenacolo dell’umanità, sembra alle spalle premuto da popoli lontani, oltre l’agro oltre le Alpi, oltre l’Oceano.
I soldati tengono a stento la fila anche nel tempio, che qualcuno desidererebbe fosse, per amor delle proprie costole, un pochino, solo un pochino più vasto. Poi finalmente si sfila; un’improvvisa impressione d’oltretomba passa sui visi, la curiosità si risolve in un indefinito senso di tristezza.
Il Papa, eccolo!


Dietro le sbarre chiuse della Cappella, sollevato all’altezza d’un uomo, in posizione obliqua, vestito cogli abiti pontificali rossi, e la mitra d’oro giace: un’unica maestà è rimasta, quella della morte.
La fisionomia, pallida, angolosa, smunta, conserva i suoi tratti caratteristici; i capelli nerissimi che appaiono sulle tempia dànno un risalto notevole al volto bianco, cereo.
E’ morto, e la mano, stanca di benedire, riposa sul petto augusto, inerte.
Si ha la percezione inconsapevole d’essere dinanzi a una morte simbolica. Perché il più grande enigma umano, la morte, viene finalmente a coprire anche Pietro che si dice vincitore della morte e padrone, testimonio dell’al di là.

Tutta questa folla che passa e contempla e non si sazia
pare voglia spiare attraverso le palpebre chiuse un qualche raggio nascosto dell’alba eterna; guarda e pensa lontano; e neppure prega, perché crede che la preghiera sia già consumata in un trionfo; e passa e non parla più, quasi per non
svegliare, il Dormente.
Pietro, perché dormi?
Ma donde mai questa certezza di saperlo vegliante e orante?
Eppure è morto anche Lui, ed era il Papa.
Già, qui sotto la cupola michelangiolesca anche S. Pietro è morto ed è sepolto, andiamo a pregare alla Confessione.
E finalmente colla fronte appoggiata sul marmo gelato si prega, e vien sulle labbra il Credo; il Credo, sulla tomba dell’Apostolo che piantò la Croce, il polo della umanità, dei secoli, della storia, qui dove egli morendo visse la verità della Fede.
O sublime dramma della vita e della morte qui avrai la catastrofe? […]
E lo si guarda ancora fra la penombra; con un ultimo slancio di tenerezza. Che tu sia Benedetto!

E poi si ritorna dall’ultima udienza; mentre piove; e si dominano collo sguardo le migliaia di persone che affluiscono ancora tra le braccia distese del colonnato, come per abbracciare il mondo.

Don Battista - Roma, 23 gennaio 1922"

(“Lettere ai familiari 1919-1943”.
A cura di Nello Vian.
Premessa di Carlo Manziana,
Brescia, Istituto Paolo VI, 1986)

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