mercoledì, maggio 31, 2006

The "Da Messina" Code

Sive: VOS ET IPSAM PICTURAM BENEDICIMUS



Negli stessi anni e nello stesso quartiere di Messina in cui viveva e dipingeva Antonello viveva un altro personaggio della storia della città dello Stretto: Santa Eustochia, al secolo Smeralda Calafato.
Rampolla di una assai ricca famiglia di Messina, volle abbracciara la vita claustrale nel secondo ordine francescano. Una volta diventata clarissa si impegnò in una dura polemica con il ramo maschile dell'ordine per chiedere il rispetto dell'austerità, della povertà e della semplicità che aveva ispitato la vita del poverello d'Assisi. Riuscì a smuovere addirittura il papa dell'epoca, Callisto III Borgia, che le diede facoltà di abbandonare il monastero dove vigeva la "regola mitigata" per fondare il monastero di Montevergine dove poter vivere più radicalmente lo spirito francescano.

"...Antonello ed Eustochia dovevano essere più o meno coetanei, ma non c’è nessun documento che testimoni un rapporto tra di loro. Il testamento dell’artista, però, è rivelatore quanto meno di una condivisione di sensibilità: Antonello chiede infatti di essere sepolto con il saio di frate e chiede la precisa esclusione dal rito di ogni altro esponente del clero, a iniziare dai Francescani conventuali. Il tutto nella chiesa da cui dipendeva il santuario di Montevergine.
Le affinità tra Antonello e santa Eustochia non finiscono qui: alla clarissa infatti è attribuito un Libro della Passione, pubblicato a Messina in quei decenni, in cui sono contenute due raccomandazioni che Antonello sembra aver raccolto alla lettera. La prima riguarda la rappresentazione di Gerusalemme che deve esser fatta imitando luoghi noti in modo da rendere credibile all’occhio del fedele il fatto rappresentato: discende da qui la scelta di Antonello di riprodurre la sua Messina sullo sfondo di tante scene sacre? La seconda invece è un riferimento a un passo, molto trascurato dalla tradizione iconografica, del Vangelo di Giovanni. «Data la sententia viene menato il nostro Salvatore Jesu, legato con le corde al collo», scrive il Libro della Passione.
Il particolare delle corde è ricordato solo nel Vangelo dell’apostolo prediletto e diventa un leitmotiv di uno dei soggetti più celebri e più richiesti di Antonello: l’Ecce Homo. In quasi tutte le versioni (cioè in quelle conservate a New York, a Piacenza e a Parigi) l’artista rappresenta il volto del Signore con la corda legata al collo, come emblema della Passione (infatti il nodo rievoca la flagellazione). Una corda che legherrebbe ancor di più il destino di Antonello con quello di santa Eustochia."

lunedì, maggio 29, 2006

L'aringa rosa /3

Ovvero: The Civil Code versus the Da Vinci Code.



( fidanzata chiede risarcimento)

Il "Codice da Vinci" comincia a mietere le sue prime "vittime". E' avvenuto a Trento, dove un docente universitario ha annullato le nozze dopo aver letto il famoso libro di Dan Brown. L'uomo, infatti, ha subito perso fiducia nella Chiesa e ha deciso di non sposare più la sua fidanzata, una cattolica convinta. Il risultato? Lei gli ha fatto causa per il mancato matrimonio e chiede un risarcimento di 170mila euro.

Protagonisti dell'insolita vicenda sono un professore universitario americano e una ricercatrice trentina di 32 anni. I due, dopo un lungo fidanzamento, avevano deciso di sposarsi. Solo che, quando tutto era ormai definito e pronto - il ristorante in una splendida località delle Dolomiti prenotato da tempo, con tanto di caparra versata, l'appartamento, arredato con i mobili di design che aveva voluto lui, la luna di miele già prenotata - lui ha cambiato idea.

Il matrimonio avrebbe dovuto essere celebrato la prima domenica di giugno. Ma il professore ha letto il "Codice da Vinci" di Dan Brown e ha spiegato alla mancata promessa sposa di aver scoperto attraverso quel libro di non voler nessun contatto con la Chiesa cattolica. Le pagine del libro gli avrebbero, infatti, aperto un mondo di cui non conosceva l'esistenza. Una constatazione, questa, che contrasta nettamente con le convinzioni della promessa sposa, cattolica convinta.

Da quanto si è appreso, l'uomo si è anche lamentato del rifiuto che la sua promessa opponeva da anni alle sue richieste di rapporti sessuali. Rifiuto che la donna giustificava con la necessità di obbedire ai precetti della Chiesa, secondo la quale i rapporti sessuali sono consentiti solo dopo il matrimonio.

Di fronte al rifiuto dell'uomo di sposarsi, però, la giovane donna ha subito contattato un legale trentino e ha richiesto un risarcimento di 170mila euro. Il codice civile prevede, infatti, che chi rompe la promessa di matrimonio è tenuto al risarcimento dei danni, ossia le spese sostenute a causa della promessa. Nel caso specifico si tratta di circa 70mila euro per il ristorante, il viaggio di nozze, il vestito da sposa, gli inviti già spediti, le bomboniere, il gruppo jazz già prenotato su specifica richiesta del mancato sposo e la cucina di gran marca già montata nell'appartamento che doveva ospitare i due a Trento per il resto della loro vita.

Inoltre, la donna pretende anche un consistente risarcimento per i danni morali. Ha dato mandato al legale di chiedere 100mila euro per i patimenti subiti e per il danno all'immagine subito nel giro di amicizie. Inoltre il mancato sposo è tenuto a restituire i regali che ha ricevuto dalla giovane ricercatrice trentina. In particolare, la donna chiede indietro un orologio che le è costato più di uno stipendio, sulla cassa del quale aveva fatto incidere la dedica: "Per sempre".

domenica, maggio 28, 2006

In die Ascensionis Domini 2006




"Prendere la parola in questo luogo di orrore, di accumulo di crimini contro Dio e contro l'uomo che non ha confronti nella storia, è quasi impossibile – ed è particolarmente difficile e opprimente per un cristiano, per un Papa che proviene dalla Germania..."

sabato, maggio 27, 2006

L'aringa rosa /2

Ovvero: Dan Brown e il Calice di Fuoco.


Il misterioso "Graal" "appareve" (è proprio il caso di dirlo) nell'ultimo romanzo di Chretien de Troyes, morto nel 1190.
Il "Romain de Perceval", è un romanzo cavalleresco, non finito a causa della morte del suo autore, che narra le imprese favolose di "Perceval": giovane e casto cavaliere di re Artù (e che in Italia ci è meglio noto come "Parsifal").
Le avventure favolistiche portano il cavaliere della Tavola Rotonda al castello del Re Pescatore dove vede una sconosciuta dama tenere fra le mani un misterioso oggetto che brilla di luce propria: "d'oro puro con pietre preziose di mille specie, le più ricche e le più preziose che ci siano in terra e in mare". Questo "Graal" viene succesivamente descritto come una specie di scodella larga e profonda quanto basta ad accogliervi agevolmente un pesce miracoloso che contiene al suo interno l'ostia che giornalmente serve di nutrimento al misterioso Re Pescatore.

Quindi "graal" è il celtico nome di un antico recipiente imparentato con la grolla valdostana. L'unica differenza è che mentre la grolla è un oggetto ad alto contenuto alcolico il graal della fiaba medievale è un lussuoso recipiente ad altissimo contenuto magico. Ma a differenza del post-moderno 'Harry Potter e il Calice di Fuoco', La storia di Parsifal e del Graal è ambientata nel medioevo cristiano (ed in epoca di crociate per giunta!), per cui fu facile per la nordica fantasia popolare, identificare la magica coppa del mitico cavaliere della Tavola Rotonda con qualche taumaturgica reliquia di Gesù Cristo a cui nell'assolato medio oriente davano la caccia i pii crociati anglosassoni.
Cosa debba essere esattamente il "graal" è però un mistero pari a quello della sua presunta esistenza.
Si tratta forse del calice che Cristo usò nell'ultima cena? O è forse il contenitore usatato dalla Madonna, dalla Maddalena o da qualcun'altra delle pie donne, o da Giuseppe d'Arimateo, o forse da Nicodemo, per raccogliere il sangue che colava a terra dalla croce di Cristo? Forse entrambe le cose?
Quel che è certo è che il (a questo punto "santo") "Graal" è un 'topos' della letteratura medievale inglese, al pari della "Spada nella roccia" ( ma a nessuno è mai saltato in mente di identidicarla con la "santa" spada che servì a decapitare San Paolo o magari San Giovanni Battista).



Si può ben capire, perciò, come il solo sentire nominare il favoloso ogetto provochi un atavico solletico alle orecchie dei popoli di cultura anglosassone mentre scarso intersse è stato sempre dimostrato verso il Graal dai popoli latini che della cavalleria medievale, più che alle epiche battaglie contro i draghi, erano interessati alla figura del cavalier servente, cioè all'amor cortese per la donna angelicata che "tanto gentile e tanto onesta pare".

Ma ciò che dovrebbe attrarre la riflessione è il perchè i popoli anglosassoni, permeati dalla cultura sviluppatasi dalla Riforma protestante, continuino a sentire il fascino di una (e una sola) -presunta- reliquia, dato che è universalmente noto il disprezzo e l'istintiva avversione del Protestantesimo per il culto delle reliquie che tanto invece contraddistingue quei papisti che nei secoli si sono sollazzati e gloriati del farne collezione?

D'altro canto non si può non evidenziare che i cattoli romani ben poco hanno subito il fascino dei presunti calici di Cristo sparsi per le chiesa d'Europa.

Probabilmente perchè il culto cattolico ha sempre privilegiato l'ostia consacrata rispetto al calice del vino. La dottrina della Transustanziazione ammonisce il fedele che nel pane consacrato c'è il corpo di Cristo e tutto il corpo di Cristo compreso quindi il sangue, l'anima e la divinità. Allo stesso modo nel vino consacrato non c'è solo il sangue ma il sangue di un Gesù vivo e quindi con tutto il suo corpo anima e divinità. Ragion per cui il culto eucaristico del vino non è mai sviluppato essendo sempre stato visto come un superfluo corollario del culto dell'ostia.
L'ostia consacrata dall'alto degli ostensori dorati splende come un sole al centro della devozione privata del cattolico la cui affettività e fantasia è stimolata dal ricordo dei tanti e mirabili miracoli eucaristici. Ostie spezzate da preti increduli che sprizzano sangue; asini lasciati per giorni a digiuno e che invece di dirigersi verso la paglia vanno mansueti ad inginocchiarsi davanti all'ostia; ostie che volano in alto per sfuggire alla mano dei profanatori oppure particole consacrate rubate dai tabernacoli delle chiese e poi abbandonate e che non marciscono!Insomma, c'è poco spazio nella mente del fedele cattolico, e ancor di più scarsa devozione, verso il calice della messa anche perchè, anche dopo la riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II, bere al calice continua ad essere prerogativa del clero cattolico; al massimo il sacerdote da ai fedeli l'ostia inzuppata nel vino.
Invece, la prima cosa che fece Martin Lutero con la sua "Riforma" fu quella di dare da bere dal calice anche ai fedeli. La coppa del vino ha perciò nel culto protestante una centralità molto maggiore che il calice della messa cattolica.



L'idea fissa di Lutero, e di tutti gli altri riformatori protestanti, era quella di tornare alla semplicità del cristianesimo delle origini eliminando le sovrastrutture papiste, ritenute non conformi con lo spirito e la lettera dell'Evangelo. La riforma "evangelica" della "Messa" fu ritenuta, perciò, la cartina di Tornasole del "sola Fide" e del "sola Scriptura" del dogma protestante.
Il culto domenicale dei protestanti, in effetti, ha ben poco a che fare con una messa cattolica. L'eucarestia dagli evangelici è chiamata "la santa cena", cioè il ricordo dell'ultima cena di Gesù, che va commemorata nella massima sobrietà ed attenendosi scrupolosamente alle parole e ai gesti dei racconti dei Vangeli, eliminando,pertanto, i paramenti, gli inchini, le incensazioni e tutti quei giri di valzer dei preti cattolici intorno all'altare che all'occhio di Lutero e compari erano equiparati a rituali pagani. La tesi , infatti, secondo cui il Cattolicesimo altro non sarebbe che un paganesimo greco-romano camuffato è posizione antica quanto il Protestantesimo stesso, e un tale pregiudizio viene ricevuto da ogni protestane insieme col latte materno.

Il protestante che la domenica si rechi al "Culto" non trova un altare ma un tavolo (non un altare di pietra ma un tavolo di legno!)su cui si trova una grande forma di pane ed una ampia coppa di vino. Seguendo la lettera della scrittura il pastore (o la pastora) spezza il pane e lo da ai fedeli perchè se lo dividano a loro volta. Poi similmente, beve dalla coppa e poi la passa finche tutti non ne abbiano bevuto. Se la comunità che partecipa al culto è molto ampia la forma di pane sarà tendenzialmente più grande ed anche la coppa sarà una specie di zuppiera da cui attingere per riempire tanti piccoli bicchierini di plastica (che i cattolici sono invece avvezi usare per bere il caffè espresso dai distibutori automatici)e che, posti su vassoi, vengono fatti passari tra i banchi della chiesa. Ciò vuol dire che il protestante medio è assolutamente convinto che l'eucarestia sia il perpetuarsi dell'ultima cena di Gesù e che, in altro verso, egli immagini che l'ultima cena di Gesù si svolse come un culto protestante. E' proprio questo il substrato culturale su cui ha potuto fondarsi tutta la trama del "Codice da Vinci"!

Quando il professor Teabling chiede a Sophie di chiudere gli occhi e di dire cosa ci sia sul tavolo del Cenacolo leonardesco di Santa Maria delle Grazie a Milano, la risposta di Sophie per la quale il Cenacolo di Leonardo -come qualunque altra rappresentazione plastica dell'Ultima Cena- debba "per forza" raffigurare tredici uomini attorno ad un tavolo al cui centro spicchi un grosso pane e una grande coppa, è una vulgata ingenua del pietismo protestante!
Un protestante, molto prima e molto più di un cattolico, di fronte alla raffigurazione di un'Ultima Cena dove non ci sia una grande coppa, o almeno Gesù non abbia una coppa più grande degli altri commensali; mentre invece tutti e tredici hanno il loro bravo bicchiere di vetro, i loro bei piatti di ceramica; troverà subito la cosa strana, manchevole, non conforme alla sua personale ricostruzione (immaginaria) dell'Ultima Cena.



Ma il "difetto" di non raffigurare la grande coppa del vino sul tavolo dell'Ultima Cena è consuetudine di moltissimi pittori, e non solo di Leonardo da Vinci.
Il triller danbrauniano funziona perchè sottintende che solo ed unico quel genio di Leonardo si permise di dipingere quella stranezza al fine di far intuire l'oscuro segreto.

Il perchè nè Leonardo nè tanti altri pittori hanno raffigurato il calice sul tavolo dell'Ultima Cena è semplicemente perchè erano pittori cattolici che dipingevano su committenza di ecclesiastici cattolici e (come nel caso di "Mr Da Vinci") decenni prima della riforma protestante! E, per la teologia cattolica la Santa Messa non è la memoria dell'Ultima Cena a differenza del Culto dei protestanti!

La "Messa" è il "memoriale" della passione, morte e risurrezione del Signore Gesù Cristo. "Memoriale" vuol dire ricordare al fine di rendere presente, riattualizzare l'avvenimento che si commemora. Ma oggetto della riattualizzazione nel presente non è l'Ultima Cena (altrimenti il giorno festivo dei cristiani sarebbe il giovedì!) ma il "mistero pasquale" cioè l'offerta espiatoria del Figlio di Dio sulla croce per i peccati degli uomini che culmina nella risurrezione che della vittoria di Cristo sul peccato (e sulle sue conseguenze) ne è la prova.
Il rito della messa cattolica non si svolge su di un tavolo ma su un altare di pietra. E come in tutte le religioni l'altare è il luogo su cui viene uccisa cruentemente la vittima sacrificale per propiziarsi le divinità. Per la teologia cattolica tutti gli antichi sacrifici espiatori erano figura e simbolo dell perfetto sacrificio di Gesù Cristo che per la santità della vittima assume un valore eterno, per mezzo del quale tutti gli uomini possono ricevere il perdono delle proprie colpe. Nella messa, perciò, in modo incruento, mistico, ma altrettanto reale si riattualizza e si rende presente Gesù Cristo e la sua offerta a Dio Padre.

La messa, perciò, non fa memoria dell'Ultima Cena ma riattualizza il sacrificio della croce, ragion per cui il Cattolicesimo ha sempre ben distinto, all'interno della cena pasquale ebraica mangiata da Gesù e dagli apostoli prima della Passione, l'aspetto dell'istituzione dell'eucarestia (pane e vino)dall'aspetto del banchetto (agnello allo spiedo con verdure). Per cui non è necessario rappresentata l'Ultima Cena come se fosse un rito sacro.

L'aspetto di banchetto conviviale e mondanamente solenne viene soprattutto amplificato quando l'Ultima Cena è dipinta per il refettorio di un convento o monastero. Mentre se L'Ultima Cena è commissionata quale pala d'altare di qualche chiesa allora si avrà la raffigurazione di Cristo che, in atteggiamento sacerdotale, "consacra" le specie del pane e del vino mentre i discepoli assistono al miracolo della transustanziazione con un contegno pio, contrito e devoto. E qualche volta si vede persino Gesù "dare la comunione" agli apostoli che la ricevono in ginocchio, come prevedeva il rituale cattolico dell'epoca.
Si badi bene: il centro dell'attenzione è sempre riservata non al calice del vino ma al pane che ha la sembianza inconfondibile dell'ostia della messa cattolica.

venerdì, maggio 26, 2006

Il cappellone degli spagnoli 3



"Caro Josè Luis..."
"Ti ringrazio per il simpatico rapporto che abbiamo istautato"
"auguro a Te e al Tuo governo ogni successo"
"Ti ricordo che in Italia hai un amico che ti vuol bene!"

"un forte abbraccio
Silvio"

mercoledì, maggio 24, 2006

L'aringa rosa

Ovvero: "Dan Brown, ti farò pescatore di uomini"


(Propongo la traduzione di Daniela Maggioni di un articolo del filosofo ebreo ed agnostico Bernard-Henri Lévy sul Corriere della Sera di mercoledì 24 maggio 2006)

«Il Codice da Vinci... È qualcosa di più, e di peggio, della truffa intellettuale denunciata qui e là da giornalisti che si sono presi la briga di sbrogliare, nel guazzabuglio di quelli che ci sono presentati come «i fatti», la parte di documento e quella di fantasia. È un film che, puntando senza dirlo su alcuni fra i temi più ambigui dell'immaginario politico contemporaneo, flirta anche con il peggio.

Tre libri molto utili sono usciti di recente in Francia, scritti da Pierre-André Taguieff, Philippe Muray e René Rémond.


Quello di Pierre-André Taguieff, La foire aux illuminés, consente di capire come questo sfoggio di falsa scienza e semplicemente di falsità, l'accozzaglia di credenze in una congiura mondiale fomentata all'alba della Storia contemporanea e rimasta impenetrabile fino al nostri giorni, l'illusione di accedere, attraverso il libro e adesso il film, al mistero dei misteri, all'enigma assoluto, attingano a una vena complottistica che fu quella di tutti i totalitarismi.

Quello di Philippe Muray, Dix-neuvième siècle à travers les âges, naturalmente non parla del Codice da Vinci ma stabilisce la genealogia di un «occultismo politico» che ci porta ai grandi illuminati che forgiarono il corpo dottrinario dei fascismi.

E poi Le nouvel antichristianisme di René Rémond, che raccomando a tutti coloro che, cristiani o no, subodorano il cattivo profumo di regresso e di oscurantismo — massì, di oscurantismo! —, di odio del pensiero e della vera scienza che aleggia sui processi istruiti, questi ultimi tempi, contro una Chiesa che, da Pio XII a Benedetto XVI, è ritenuta colpevole di tutti i mali.
Si comincia a sapere che il famoso Priorato di Sion, che nel film occupa un posto essenziale e ci è presentato come un Ordine occulto, fondato mille anni fa da Goffredo di Buglione e votato a preservare quel Santo Graal che sarebbe stato il segreto del matrimonio di Gesù e Maria Maddalena, è un'associazione creata dopo la Seconda guerra mondiale da una banda di scansafatiche nostalgici di Vichy. Mentre si sa meno come il patronimico del personaggio di Dan Brown — il Radcliffe di Angeli e demoni — plagia quello di John Readcliff, presunto autore di un Discorso del rabbino degli anni 1860 e considerato uno dei testi precursori dei Protocolli dei Saggi di Sion.

Quel che si sa appena un po' meglio è che l'idea paranoica di una verità nascosta fin dalla notte dei tempi da potenti stirpi di congiurati, il credo scientifico alternativo in un governo mondiale con codici che spetterebbe decifrare ad alcuni iniziati rientrarono in tutte le elucubrazioni degli emuli francesi del III Reich: la lotta, non delle classi, ma delle società segrete, vero motore della Storia? Ma sì! Era la convinzione, prima di Dan Brown, del saggista Henry Coston il quale, denunciato negli anni Trenta il «pericolo ebraico», finì la sua vita, sessant'anni più tardi, ossessionato dalle sinarchie, dai governi ombra, dalle trilaterali e da altre internazionali massoniche e neomassoniche.

Quello che per ora non si vuole sapere è che spesso basterebbe sostituire, nella prosa e nelle immagini di Brown, l'Opus Dei con la Compagnia di Gesù, il personaggio di Silas con quello di Loyola, o la «guardia bianca » del Papa con gli «uomini in nero» della Compagnia di Gesù, per ritrovare il tono delle diatribe antigesuitiche che infiammarono il XIX e poi il XX secolo e culminarono con l'invio sul fronte dell'Est o a Dachau di deportati con il marchio «nzv», letteralmente «non affidabili, come gli ebrei». Il loro crimine era di essersi mostrati successivamente complici del giacobinismo, del bolscevismo, dell'internazionale ebraica e infine — ma qui era vero — di una resistenza tedesca antinazista alla quale, per esempio a Kreisau, aderirono da eroi.

Non sto difendendo l'Opus Dei, naturalmente. Ma ricordiamoci che le parole hanno una storia e che, dietro a queste parole, cioè dietro al fantasma di una confraternita di monaci mafiosi e assassini che non avevano altro obiettivo se non di sfruttare sistematicamente l'universo, c'è un peso di delirio e di crimine che evoca ricordi paurosi e contro il quale non è inutile mettere in guardia il pubblico.

Che i primi interessati non lo facciano, è una cosa. E in questo, fra parentesi, c'è un esempio di sangue freddo su cui potrebbero meditare gli altri offesi che, confrontati poco tempo fa a certe «caricature» che avevano una carica simbolica e una risonanza dieci volte minori del Codice da Vinci, reagirono con l'esagerazione che sappiamo. Ma questo non significhi, per altri, l'obbligo di tacere anch'essi! Questo non impedisca, qui, ad un agnostico ed ebreo, di dire il disgusto che gli ispira ciò che chiamerà, con Freud, la marea nera del nuovo anticattolicesimo.»

venerdì, maggio 19, 2006

PAX TIBI, O INFAUSTE, EVANGELISTA MEUS!

giovedì, maggio 18, 2006

Il Codice "Da Montefeltro" /3

Ovvero: come avvenne che Silvia Ronchey spiegasse in un libro il perché la Flagellazione di Piero della Francesca è il ritratto del dolore per Bisanzio perduta (da un articolo di Nicoletta Tiliacos sul Foglio di sabato 13 mggio 2006).



«La ricostruzione della storia della Flagellazione è, per Silvia Ronchey, l’occasione per raccontare in modo brillante e appassionato un mondo fatto “di grandi pensatori. Come Nicola Cusano, come Giovanni Torquemada, zio del celebre inquisitore e riformatore della disciplina dei monasteri, come Giorgio Gemisto Pletone, il filosofo che riporta inauge il platonismo dopo dieci secoli di dominio aristotelico, ed è un personaggio-chiave del Rinascimento. Grandi intellettuali affiancati da grandi capi di stato, come Ludovico Gonzaga, Niccolò d’Este, Sigismondo Malatesta, Francesco Sforza”. Rappresentanti, cioè, delle grandi famiglie italiane che, a diverso titolo e con diversi gradi di coinvolgimento, sono legate alla stirpe dei Paleologhi.
Non a caso, il libro di Silvia Ronchey prende le mosse dall’arrivo a Costantinopoli, nell’estate del 1420, delle due spose occidentali promesse da Papa Martino V a due figli dell’allora imperatore Manuele II Paleologo. Le due giovanissime Sofia di Monferrato, destinata al futuro Giovanni VIII, e Cleopa Malatesta, abbagliante, per sapienza e bellezza, promessa di Teodoro II, despota della Morea e predecessore del fratello Tommaso. E’ proprio Cleopa, dice Silvia Ronchey, “la vera eroina della storia. Tutto parte dal suo matrimonio, diretta conseguenza del Concilio di Costanza (1414-1418) e della risoluzione dello scisma d’occidente. Martino V diventa l’unico Papa, al prezzo della promessa, fatta a Bisanzio, di risolvere anche lo scisma d’oriente e il problema dell’unione delle chiese...



...Nell’“Enigma di Piero” ci sono, magnificamente raccontate, le storie intrecciate di Cleopa, di Bessarione, di Enea Silvio Piccolomini, di Tommaso Paleologo e di molti altri giganti dell’epoca.
Ma c’è, soprattutto, la storia della riconquista mancata di Bisanzio, della crociata fallita prima ancora di partire.
Secondo Silvia Ronchey, “la rimozione che ha reso così incomprensibile la Flagellazione nasce da lì, da quel fallimento causato dall’incapacità, dalla non volontà, da parte dei principi della cristianità occidentale, di dar concretezza al sogno di Enea Silvio Piccolomini e di Bessarione”. Da qui nasce anche la radice del singolare magnetismo del quadro di Piero, “perché sentiamo che racconta qualcosa che ci coinvolge, ma non sappiamo esattamente che cosa. Interpella ciò che siamo diventati. Ci fa sentire in modo segreto, a noi smaliziati contemporanei abituati alle catastrofi globalizzate dalla televisione, il peso dolente, insopportabile, di una catastrofe avvenuta più di cinque secoli fa”.
La caduta di Costantinopoli, seppure preceduta da conflitti con l’occidente e da uno scisma mai sanato, secondo Silvia Ronchey “è stata come un 11 settembre elevato all’ennesima potenza. Non è per vetero-storicismo, ma quando un quadro comunica qualcosa di così forte,questo non può che essere legato alla realtà, alla storia e alla politica del tempo in cui quell’opera è stata concepita”.



Se la Flagellazione emoziona anche lo spettatore ignaro di ogni spiegazione è per “la sua perfetta, ancorché misteriosa, incarnazione di un’idea forte. Ha a che fare con il sangue, con la perdita, con la sconfitta. Con un’amputazione, uno scollamento che il nostro mondo paga, in un certo senso, ancora oggi”.

La rimozione di Bisanzio, si diceva, “è soprattutto una rimozione ideologica. Non c’entra la chiesa cattolica, come si potrebbe essere portati a credere. E’ un Papa, Pio II, una delle menti appassionate che lavorano per non ‘dimenticare Bisanzio’, per la sua rivincita”.
E allora?
E allora c’è una specie di grande imbarazzo, che nasce dal fallimento di cui parlavamo prima. Il fallimento di qualcosa, una crociata vittoriosa, che avrebbe risolto una gran quantità di problemi. La polemica attorno alla famosa donazione di Costantino, per esempio, perché Cesare e Pietro sarebbero stati di nuovo riuniti, il potere dei Papi e quello dell’imperatore avrebbero trovato una nuova radice comune”. La posta in gioco è talmente alta, che, nel momento in cui si capisce che l’operazione è irrimediabilmente fallita, Bessarione sarà indotto a non puntare più sui principati italiani, ma sul nuovo principato russo, attraverso le nozze da lui combinate tra Zoe (poi detta Sofia) Paleologhina, figlia di Tommaso, e il Gran Principe di tutta la Russia, che di conseguenza potrà rivendicare la successione giuridica, l’eredità e il ruolo geopolitico di Bisanzio.

L’autore della Flagellazione respira quell’atmosfera intellettuale e politica: Piero è depositario non solo di una tecnica artistica, ma è personaggio dialogante con l’intero mondo, politico e storico e umano che lo circonda. Anche lui è un iniziato platonico, e sa usare la prospettiva in modo impressionate ... Il coinvolgimento intellettuale e morale aveva un suo corrispondente visivo che a sua volta era frutto di uno studio a 360 gradi sulla prospettiva. E c’era insieme un messaggio morale forte che dice: chi non è coinvolto, chi non entra, chi non si fa catturare, è come il turco”.


Piero della Francesca, Benozzo Gozzoli, Pisanello, Jacopo Bellini, Andrea Mantegna, lo stesso Carpaccio, sono tutti parte “del clan filobizantino. Sono parte, cioè, di un piano politico di salvataggio di Bisanzio, sponsorizzato dalle massime famiglie, dai massimi intelletti politici dell’epoca, italiani e non solo. Quei grandi pittori sono tutti legati mani e piedi a questi stessi committenti.
E c’è un personaggio, in Francia, che probabilmente è il vero committente della Flagellazione: il cardinale Guillame d’Estouteville, artefice della riabilitazione di Giovanna d’Arco, parente del re di Francia e candidato al soglio pontificio nella stessa elezione che incoronò Enea Silvio Piccolomini come Pio II. C’era, insomma, un grande movimento d’opinione, tra i committenti e tra i pittori che si sceglievano reciprocamente”.
Ma quello che rende straordinaria la Flagellazione di Piero e che invece non c’è, a mio avviso, in opere come il Corteo dei Magi di Benozzo, che pure fa riferimento a sua volta ai legami con Bisanzio, è il rispecchiamento della paralisi della politica. Della luttuosità e del pessimismo di fondo, dello scacco dell’agire politico.

La Flagellazione ci prende perché è avvolta in un’aura di emozione, di senso di colpa, ma il dramma è sublimato nell’arte.
La politica è, comunque, un lago di sangue. Una serie di precedenti verbali della Flagellazione, come i discorsi di Papa Eugenio IV, mi convincono poi che forse i flagellatori non sono nemmeno turchi. Possono essere i pirati, i predatori, coloro che approfittano comunque della sofferenza altrui”.
La Flagellazione è dunque il ritratto di un senso di colpa, “che nasce da una sorta di peccato originale dell’occidente. Una colpa dell’infanzia dell’età moderna, la colpa verso il mondo orientale, l’abbandono di Costantinopoli. Di qualcosa, cioè, che a un certo punto è diventato lontano ed esotico ma che fa ancora parte delle nostre radici”

martedì, maggio 16, 2006

"OPUS PROCLAMA" [2]

(solo in lingua spagnola, ovviamente)

Il Codice "Da Montefeltro" /2


«Non è che un piccolo dipinto, a lungo ignorato e riscoperto, all’inizio dall’Ottocento, nella sacrestia del duomo di Urbino, da un tedesco, Johann David Passavant, pittore senza genio ma viaggiatore che sapeva usare gli occhi.
Una tavola su legno di 58,4 per 81,5 centimetri, che mostra sullo sfondo un Cristo flagellato davanti a un impassibile Pilato e tre gentiluomini in primo piano. Una composizione malinconica e inusuale, nella quale sir Charles Lock Eastlake, un altro viaggiatore eccellente a caccia di capolavori italiani, a metà dell’Ottocento ravvisò “qualcosa di africano”.
Non ritenne però di doverla acquistare, sebbene gli fosse stata offerta a un prezzo vantaggioso. Poi, in capo a mezzo secolo, la Flagellazione di Piero della Francesca, oggi gemma della Galleria delle Marche di Urbino, sarebbe stata accolta nel pantheon dei capolavori assoluti dell’arte rinascimentale e di tutti i tempi, anche grazie alla lettura innamorata che ne fece, nel 1911, il critico Adolfo Venturi.

Da allora, è stata e continua a essere la protagonista di una delle più lunghe e accanite dispute tra studiosi, su un terreno di combattimento che sta a metà tra la storia e la storia dell’arte. Una diatriba spesso accorata, degna dell’emozione che quella tavola provoca in chi la osserva, e degna della densità e della complessità dei significati che in essa trovano espressione. E che appaiono come un rompicapo, un mosaico nel quale manca sempre il modo di sistemare l’ultima tessera.
Di quella disputa, ma soprattutto del mondo e del secolo nel quale la tavola di Piero della Francesca fu commissionata e composta, racconta, dando la propria personale ma assai credibile soluzione del mistero, la bizantinista Silvia Ronchey. Autrice di un libro importante e ricchissimo, frutto di otto anni di ricerche, comparazioni e studi serrati, intitolato L’enigma di Piero. L’ultimo bizantino e la crociata fantasma nella rivelazione di un grande quadro” (Rizzoli, 540 pagine, 21 euro).

..."il quadro di Piero è un quadro luttuoso.
L’impressione che comunica è di paralisi, d’impossibilità di agire sul reale. E’ il lutto dell’intellettuale che sa che non riuscirà a modificare la realtà, a incidere davvero nella politica, ma nello stesso tempo non rinuncia ad agire”.
Il lutto di cui parla la Ronchey è quello per la perdita di Bisanzio, caduta in mano turca il 29 maggio del 1453 (la tavola di Piero è del 1459-60), mentre l’azione vagheggiata è l’avvio di una crociata che doveva riportare sul trono di Costantinopoli l’ultimo dei Paleologhi: Tommaso, l’ultimo porfirogenito, “nato nella porpora” che è simbolo del potere dei discendenti di Costantino.

Tommaso, despota della Morea, arrivò esule in Italia nel 1460, in cerca d’aiuto contro il sultano. Ad accoglierlo, e ad accogliere con lui la preziosissima reliquia del cranio di sant’Andrea (patrono della chiesa d’oriente così come Pietro e Paolo lo sono di quella d’occidente), c’era Papa Pio II, al secolo il nobile Enea Silvio Piccolomini. E c’era il cardinal Bessarione, aristocratico bizantino nato a Trebisonda, antico dignitario dei Paleologhi poi convertito al cattolicesimo, si dice, per poter meglio sostenere la causa del riscatto dell’impero costantinopolitano.
Bessarione, dice Silvia Ronchey, è “un uomo in lutto per il suo secolo”. Non abbandonerà mai l’abito nero da ex monaco basiliano, e sarà il grande tessitore di alleanze diplomatiche e di matrimoni politici. E’ anche un umanista eccellente, cresciuto all’Accademia di Mistrà, la fratrìa neopagana e umanista che il filosofo Giorgio Gemisto Pletone aveva fondato nel Peloponneso, presso l’ultima e più brillante tra le corti bizantine: quella della Morea, appunto, di cui era signore Tommaso Paleologo. L’uomo “alto, biondo e di grande aspetto” e “afflitto da costante malinconia”, che mai sarebbe guarito dal dolore per l’impero perduto e che sarebbe morto senza veder realizzata la crociata voluta da Pio II e da Bessarione.
Di quella “crociata fantasma”, promossa a Mantova nel 1459 ma mai partita, la Flagellazione è il manifesto politico. Per noi occulto, incomprensibile, offuscato dai secoli ma soprattutto, dice Silvia Ronchey, “dalla grande rimozione ideologica di Bisanzio da parte dell’occidente”. Quella rimozione ha reso a lungo indecifrabile, quando non ha dato luogo a interpretazioni astratte, banalizzanti e localistiche, una simbologia che l’“Enigma di Piero” spiega in un modo avvincente e stringente, tanto da renderla del tutto trasparente.
Se altri illustri esegeti avevano già compreso e afferrato il filo che legava la Flagellazione all’umore filobizantino radicato nell’intellettualità e nelle corti italiane del Quattrocento (tra tutti, basterà citare Carlo Ginzburg e il suo “Indagini su Piero”, Einaudi), Silvia Ronchey riesce però a fare l’ultimo passo. A incastrare l’ultima tessera nel mosaico, senza nessuna concessione alla fiction e sempre nell’ambito della più rigorosa verifica filologica.

Vediamolo da vicino, allora, l’enigma svelato.

Sullo sfondo, il Cristo flagellato rappresenta Bisanzio, la cristianità d’oriente sotto attacco, l’impero conquistato dai turchi. L’uomo impassibile con i calzari rossi e l’atteggiamento inerte è Giovanni VIII Paleologo, penultimo imperatore di Bisanzio (nonché fratello di Tommaso e dell’ultimo imperatore, l’eroico Costantino XI, morto in combattimento durante la disperata difesa della città). Fu Giovanni VIII a guidare la delegazione orientale al concilio di Ferrara-Firenze che si tenne nel 1438-39, quando già su Bisanzio incombeva la prossima fine, e che doveva discutere la riunificazione delle chiese.
L’uomo di spalle, abbigliato alla turca ma a piedi scalzi (ancora privo, cioè dei calzari purpurei, simbolo della regalità bizantina) è il sultano, in procinto di violare la Grande Città.

I tre uomini in primo piano sono invece Bessarione, l’uomo con la barba, l’unico con la bocca socchiusa, che parla per convincere e rassicurare i suoi interlocutori. Accanto a lui, la figura di giovane biondo è quella, idealizzata, di Tommaso Paleologo, vestito di porpora ma a piedi scalzi (in attesa di riavere i calzari della sovranità bizantina e l’aiuto occidentale).

All’estrema destra della tavola, infine, l’uomo dal prezioso vestito di broccato è Niccolò III d’Este, che accolse a Ferrara il concilio del 1438-39.
Agli occhi del tempo, ogni figura doveva apparire inequivocabile: “Un giovane dall’aspetto bello e nobile, vestito di porpora e con i piedi scalzi non poteva che essere un erede al trono bizantino”, spiega Silvia Ronchey, soddisfatta...


La tavola di Piero doveva dunque rappresentare un incitamento ad ascoltare il grido di dolore che arrivava da Bisanzio e dall’ultimo erede al suo trono. Rievocava il concilio di Ferrara, al quale Bessarione aveva partecipato come esponente della delegazione orientale, e così ammoniva chiunque contemplasse la scena: guai a ripetere l’errore di Ferrara, Bisanzio non doveva essere nuovamente lasciata al proprio triste destino.
Era la grande idea di Bessarione, alla quale quell’uomo geniale, ieratico e coltissimo (di lui si diceva ; “Avete mai visto Bessarione senza un libro in mano?”) lavorò tutta la vita.»

Da un articolo di Nicoletta Tiliacos sul Foglio di sabato 13 maggio 2006

domenica, maggio 14, 2006

Il Codice "Da Montefeltro"

Ovvero: Un purgato ed emendato estratto dell'articolo dell'orrido Camillo Langone apparso sul Foglio di sabato 6 maggio 2006 in cui si narra la sua peregrinazione urbinate sui luoghi di "Via Volta della Morte", romanzo di Aurelio Picca.



"...Piero della Francesca, l’unica attrazione urbinate che tira. Perché Raffaello, l’altro grande inquilino della Galleria Nazionale, è ancora più fuori moda dell’università. Il libraio di via Vittorio Veneto dice che di libri su Raffaello non se ne vendono più, che adesso tutti vogliono Piero. Non c’entrano le mostre, l’importanza dei quadri esposti, dev’essere un mutare di sensibilità. Raffaello appare naturale (che poi lo sia davvero è un altro discorso) quanto Piero sembra artificiale e quindi ideale fornitore di icone per il post-umano prossimo venturo.
Esoterico, matematico, su di lui è appena uscito “L’enigma di Piero” di Silvia Ronchey (sempre Rizzoli), avvicente librone anch’esso presente in ogni vetrina urbinate che si rispetti. L’autrice, dotta e scaltra come una vecchia basilissa, ha avuto l’accortezza di suddividere in tanti minicapitoli di pochissime pagine ciascuno il suo lungo lavorio attorno alla Flagellazione di Cristo, quadro cervellotico su cui si sono spaccati la testa decine di storici dell’arte e di storici tout court.
Come spesso accade, meglio il catalogo che la visione live.
A pagina 129 del Classico dell’Arte Rizzoli-Skira dedicato a Piero (soli 9,90 euri) la Flagellazione sembra chissà che quadro, nel salone della Galleria Nazionale ecco una tavoletta di legno imbarcata e tarlata, con figure microscopiche destinate a rimanere tali siccome per vederle bene bisogna avvicinare il naso alla protezione
trasparente, con inevitabile scatto dell’allarme e occhiatacce del personale.



... Nel saggio di Silvia è tutto chiaro, il colpevole è il Maomettano, allora come oggi.
Cristo alla colonna rappresenta la cristianità orientale flagellata dai turchi e i signori in primo piano sono cristiani occidentali che stanno discutendo di una crociata per salvare Bisanzio. Non lo sa quasi nessuno (non certo le scolaresche qui intorno) ma in quei pochi centimetri quadri è racchiuso l’estremo tentativo papale di respingere l’alieno di là dal Bosforo.
Col senno di poi la Flagellazione è un fallimento politico e nonostante questo o forse proprio grazie a questo un grande successo artistico. Ancora siamo qui a parlarne e a Dio piacendo le scolaresche vi transiteranno davanti ancora per molti secoli."

venerdì, maggio 12, 2006

Nel nome di Allah, Clemente [Mastella] e Misericordioso

Ovvero: Della regolata divozione de' cristiani



La mattina dell'8 maggio, prima che iniziassero le votazioni per l'elezione del nuovo Presidente della Repubblica, Clemente Mastella ha ricevuto la telefonata del vescovo Rino Fisichella, non si sa se nei panni di dotto teologo Rettore della Pontificia Università Lateranense o nella veste di guida spirituale, essendo monsignor Fisichella "cappellano di Montecitorio".
Il leader dell'Udeur ha poi raccontato ai dirigenti del suo partito contenuti e tenore della conversazione con il monsignore: «Mi ha chiesto perché appoggiavo D'Alema, e come mai non puntavo su un cattolico. Io non ci ho visto più, e gli ho risposto che doveva chiamare Casini, dato che alle elezioni avevano fatto votare per lui. Ha insistito, ha detto pure che D'Alema non è battezzato. È sempre in tempo per farsi battezzare, ho chiuso io».


E' grande fonte di consolazione spirituale vedersi rinnovato così pregnantemente il detto di Gesù: "Ti ringrazio, Padre, perchè hai voluto manifestare queste cose ai piccoli e ai semplici e le hai tenute nascoste ai dotti"!
«È sempre in tempo per farsi battezzare».
Il laico, e teologicamente poco acculturato, senatore Mastella ha avuto la capacità di confessare una fede della capacità d'azione dello Spirito Santo, e nella potenza nel'opera della Divina Grazia, non riscontrabile nella mente e nel cuore del dotto teologo di santa romana Chiesa.

Per gli anticlericali questo siparietto, degno dei Fioretti di San Francesco, potrebbe esser indicato quale la prova provata della "intollerabile" interferenza della Chiesa cattolica nelle vicende politiche dello Stato laico, ma un tal ragionare sarebbe come guardare al dito di chi t'indica la luna!

Quel che è avvenuto è la manifestazione eloquente della indipendenza dell'italico politico cattolico dai vaneggiamenti dei prelati. Il Clemente (e pio) Mastella ha mostrato d'aver la naturale intelligenza, l'acume e in quanto battezzato d'esser dotato di ciò che il teologo Fisichella definirebbe "sensum Ecclesiae": una particolare assistenza dello Spirito Santo che aiuta il fedele a discernere ciò che è conforme alla propria fede ed alla morale e ciò non lo è, pur venendo dalla bocca d'un vescovo (che ci si augurerebbe di trovare più sapida).

La "querelle" sulla caratura istituzionale dei post-comunisti è attività che impegna solo -e qui ci vuole- il teatrino della politica italiana. Oltre Tevere si gode di orizzonti assai più vasti dell'orticello di Montecitorio.
Monsignor Rino Fisichella (che è il cappellano di quell'orticello) parrebbe invece essere rimasto al di quà del guado a recitare la parte del don Camillo anti D'Alema-Peppone, mentre "don" Camillo Ruini della mancanza di acqua lustrale sulla capoccia di Massimo D'Alema se n'è sempre fatto, per così dire, un baffo.

Anni or sono, Petruccioli pensando al moschettiere elegante e cinico "battezzo" Massimo D'Alema 'Aramis', ma forse ciò non basta per monsignor Fisichella.

Per le gerarchie cattoliche il fatto che D'Alema non sia battezzato, è irrilevante. Il suo nome non era gradito per motivazioni assai laicamente condivise da ogni schieramento politico. Dovendo il Presidente della Repubblica italiana essere il supremo rappresentate, e garante, di tutti gli italiani non può essere al contempo il vero leader militante della coalizione che ha vinto, di stretta misura, le elezioni politiche. Tant'è che l'Osservatore Romano ha tessuto le lodi della "statura istituzionale" di Giorgio Napolitano, politico di antica ed indubbia fede comunista ( e sulla cui autenticità del suo atto di battesimo non farei molto affidamento).

Se io fossi "Clemente" -ma non lo sono per ninte- avrei ricordato al vescovo Fisichella che in Italia un non battezzato al potere c'è già stato: proprio Massimo D'Alema. Poichè essendo l'Italia un regime non presidenzialista ma parlamentare, il "potere" è esercitato dal Presidente del Consiglio.
Perciò l'infedele Massimo d'Alema: ateo, agnostico (ed un pò ossequioso verso l'Opus Dei, il che non guasta), è stato già ampiamente "battezzato" nelle acque quirinali dal democristiano Presidente della Repubblica Scalfaro (che sempre si gloriò durante il proprio settennato nel portare sul bavero della giacca la spilletta d'aderente all'Azione Cattolica), essenso "padrino" di quell'operazione politica l' altro democristiano Francesco Cossiga che quand'era Presidente della Repubblica amava invitare a "colazione" il cardinale Ratzinger per disquisire di teologia.
Ed il Presidente (del Consiglio) D'Alema poco dopo,nel gennaio del 1999, ricevette anche la "confermazione" da Giovanni Paolo II, il quale essenso abituato a dare udienza a cani e porci fu ben lieto di ricevere la famigliola D'Alema.
Giovanni Paolo II lodò che l'infedele Primo Ministro D'Alema avesse chiamato il proprio figlio: Francesco. "Nome italianissimo" commentò il santo pontefice.

Mi chiedo: dov'era all'epoca monsignor Fisichella?
Non certo a scrivere un trattato sulla Predestinazione.

giovedì, maggio 11, 2006

Sacra Conversazione /5

I vaticanisti hanno raccontato l'incontro di Benedetto XVI con un gruppo di teologi per discutere di Islam a Castelgandolfo, il 2 e 3 settembre 2005, come d'un incontro segreto e secretato. Il tema non era come è stato detto "Islam e democrazia" ma un tema molto più teologico, ovvero: la concezione di Dio nella teologia islamica.

Come racconta il "divinus" Magister, si è trattato dell’ultimo di una serie di incontri del "professor" Ratzinger con suoi ex allievi, uno l’anno sin da quando Ratzinger era professore di teologia a Ratisbona.
Divenuto arcivescovo di Monaco, lo pregarono di continuare ed egli accettò. Lo stesso avvenne quando si trasferì a Roma come prefetto della congregazione per la dottrina della fede. Gli incontri durano un fine settimana e avvenivano di solito in un monastero. Al termine dell’incontro del 2004 i partecipanti si lasciarono con già fissato il tema dell’anno seguente: l’islam, o più precisamente, "il concetto islamico di Dio". Già fissati erano anche i due esperti che avrebbero introdotto la discussione: il padre gesuita egiziano Samir Khalil Samir e un altro gesuita islamologo, Christian Troll, tedesco.

Quando il cardinal Ratzinger fu eletto papa, i suoi ex allievi pensarono che la cosa sarebbe finita. Ma Benedetto XVI disse loro che ci teneva moltissimo a continuare. Per l’incontro del 2006 il tema sarà il rapporto tra Cristianesimo e scienza.

Il gesuita egiziano Samir Khalil Samir ha riflettuto sugli interventi fatti in quella occasione da Benedetto XVI scrivendoci sopra un saggio (qui pubblicato integralmente dal divinus Magister) che di papa Ratzinger ne analizza e ne spiega la politica religiosa:
"Benedetto XVI è forse fra le poche personalità ad aver capito profondamente l’ambiguità in cui si dibatte l’islam contemporaneo e la sua fatica nel trovare un posto nella società moderna. Nello stesso tempo egli sta proponendo all’islam una via per costruire la convivenza mondiale e con le religioni basata non sul dialogo religioso, ma culturale e di civiltà, basata sulla razionalità e su una visione dell’uomo e della natura umana che viene prima di qualunque ideologia o religione."



"...I buoni criticheranno questo approccio, perché ritengono che il dialogo interreligioso sia una cosa splendida. I cattivi esulteranno, perché Ratzinger impone "loro" le "nostre" condizioni.

Ma non è così semplice.

Sono quattro decenni che una cerchia di uomini anziani, molto simili tra di loro nonostante alcuni siano vescovi, altri rabbini, altri imam e altri ancora patriarchi, volano in aereo per trovarsi in enormi ville o sale congressi, e ribadire l'ovvio - cioè che i tre monoteismi parlano di Abramo, che nei testi dei tre monoteismi ci sono riferimenti alla pace e all'amore. Si fa il possibile per evitare gli scogli, che però sono tali da affondare qualunque nave.

I cattolici non hanno intenzione di rinunciare alla divinità di Gesù, gli ebrei al proprio ruolo di unico popolo eletto da Dio, i musulmani all'idea di essere la religione ultima e migliore, gli ortodossi non intendono accettare ordini dal Papa. Si potrebbe certo proporre come soluzione quella esoterica, che suggerisce una verità comune, superiore alle parole che dividono: ma se qualcosa unisce i praticanti dell'ecumenismo, è il rigetto dello "gnosticismo" e quindi dell'idea dell'esistenza di una verità al di sopra della teologia (o dei teologi).

Dire che gli scogli esistono - come fa Ratzinger - suscita spesso indignazione tra le persone di buona volontà. E questo avviene per un preciso motivo sociale.

La Chiesa cattolica è infatti concepita dagli italiani come la Grande Madre del Popolo, con due compiti fondamentali.

Il primo sarebbe quello universale di benedire matrimoni di poco credenti e peggio comportanti, offrire spunti per pettegole feste di battesimo e aiutarci a piangere insieme davanti al televisore per i carabinieri morti a Nassiriya.

Il secondo sarebbe quello particolare di provvedere alla tutela delle vedove, degli sfortunati, dei lebbrosi e dei moribondi, nella misura (crescente) in cui non ci pensa la collettività.

In entrambi i casi, "cristiano" è sinonimo di assenza di rigore o di limiti: il prete deve portare cibo all'anziana prostituta, così come deve parlare dell'infinita bontà di Dio alle nozze dell'usuraio.

Questo ruolo di bonaria moglie dello stato è molto antico, ma è diventato l'unico socialmente ammesso per la Chiesa dopo il fuoco fatuo del Concilio Vaticano II, con le sue confuse aspirazioni evangelizzatrici; ed è quello che giustifica l'otto per mille
."
Così commenta sagacemente Kelebek, le cui successive conclusioni non le ritengo condivisibili.

Non è vero che la collaborazione dei cattolici con tutti gli "uomini di buona volontà" interessi poco a Benedetto XVI.
E' vero il contrario ma gli preme far capire chiaramente ai cattolici (e soprattutto ai non cattolici!) che la mutua comprensione e collaborazione nulla ha a che fare con il sincretismo o il proselitismo religioso.
Una volta giustificato dal punto di vista teologico che è possibile per un cattolico operare fattivamente per uno scopo considerato buono e giusto anche da un non cattolico di "buona volontà" (il quale intimamente si faccia beffe dell'incarnazione e della transustanziazione) e che ciò in nulla è di nocumento alla professione di fede cattolica, il compito della teologia si estingue. Ecco che a quel punto il rapporto tra la persona cattolica e quella non cattolica si è spostato sul piano della morale, dell'etica, di ciò che la Chiesa chiama "dottrina sociale", per cui non si vede che cosa centrino le disquisizioni teologiche e le riunioni di preghiera.

Quella del papa non è una difesa ad oltranza di tutto ciò che è occidentale, ma di tutto ciò che nell'occidente c'è di cristiano o di "naturaliter christianus":
"Mentre il papa chiede all’islam un dialogo basato sulla cultura, sui diritti umani, sul rifiuto della violenza, nello stesso tempo egli chiede all’Occidente di ritornare a una visione della natura umana e della razionalità in cui non si escluda la dimensione religiosa. In questo modo – e forse soltanto così – si potrà evitare un conflitto delle civiltà, trasformandolo invece in un dialogo fra le civiltà..."

lunedì, maggio 08, 2006

May day! May day!


«Perchè è stato scelto il mese di maggio per esercitare una devozione particolare verso la Vergine Maria?
La prima ragione è che in questo mese la terra esplode con tutte le sue figlie novelle e il verde delle sue erbe, dopo il crudo gelo e la neve dell'inverno, dopo la rigida atmosfera e il vento selvaggio e le piogge dell'incipiente primavera. Maggio, perchè gli alberi sono in boccio e i giardini si vestono di fiori. Maggio, perchè le sue giornate si fanno più lunghe, il sole sorge prima e tramonta più tardi. Tuttaquesta felicità e gaiezza della natura al di fuori di noi accompagna convenientemente la nostra devozione verso colei che è la Rosa Mystica e la Domus Aurea.

Si potrebbe obbiettare : "Tutto vero, però qui da noi [in Inghilterra, n.d.r]in questa stagione può anche accadere di avere talvolta un maggio tetro e inclemente". giusto; resta però il fatto che maggio è un mese di promessa e di speranza. Quand'anche succedesse di avere un clima cattivo, maggio è sempre un mese che introduce e annuncia l'estate. Nonostante ciò che di spiacevole può succedere in questo mese, noi sappiamo che prima o poi arriverà il bel tempo. "Splendore e bellezza, come dice il profeta, appariranno alla fine e non mentiranno; se indugiano,aspetta, perchè arriveranno sicuramente e non tarderanno" (Ab 2,3).

Maggio perchè è, se non il mese della realizzazione, almeno il mese della promessa: e non è forse questo l'aspetto più giusto sotto il quale noi dobbiamo considerare la Santa Vergine Maria, alla quale questo mese è dedicato?
Il profeta dice: "Spunterà un virgulto dalla radice di Jesse, un fiore sboccerà dalla sua radice" (Is 11,1). Chi può essere questo "fiore" se non il nostro Salvatore? E chi sarà il "virgulto", il vago stelo, il tronco, la pianta da cui sboccia il "fiore" se non Maria, Madre del Signore, Madre di Dio?

La venuta del Signore sulla terra era stata annunciata dalle profezie. Quando i tempi furono compiuti, come fu annunciata questa venuta? Fu annunciata dall'angelo che venne a Maria: "Ti saluto, o piena di grazia", le disse Gabriele; "Il Signore è con te, tu sei benedeta fra le donne".
Maria era la sicura promessa della venuta del Salvatore: maggio è perciò a pieno titolo il suo mese.»



(John Henry Newman; Meditations and Devotions)

giovedì, maggio 04, 2006

Era il maggio odoroso


Ovvero: I maggi di Laura

Nel 1630 "... davanti alla porta di una ragazza di quattordici anni, Laura Fabbri, la mattina del primo maggio era stato trovato un bastone in cima al quale erano legati rami di rose canine, una piccola campana del genere di quelle che si attaccavano al collo degli asini, un paio di ciabatte, una bambola di stracci...: le ciabatte (...) alludevano al sesso femminile aperto e la "putta" di stacci voleva significare, come commentò la stessa Laura, l'epiteto "puttana" ("una putta fatta de stracci in una cuna [= culla] di carta, con quali cose chimi ha postodetto maggio,[chiariremo poi l'uso di questo termine] credo volesse inferire ch'io fussi una puttana, se ben son putta da bene"). Infine, le rose canine -dette dai testimoni anche "spini"- e le ortiche volevano indicare l'intento di "pungere" le due donne a cui erano destinate...

La madre di Laura -una vedova che viveva sola con la figlia- indicò sin dall'inizio il presunto colpevole in un certo Domenico del fu Nicolò Righi. Questi apparteneva al nucleo familiare apparentemente più dovizioso della sua piccola comunità, possedeva una casa e un mulino dati a fitto (...) e sapeva leggere e scrivere e possedeva qualche libro.
Già da tempo aveva fatto Laura oggetto di un rozzo corteggiamento di cui anche i vicini erano al corrente (...); più recentemente, durante il carnevale, aveva chiesto di sposare la ragazza ed era stato rifiutato. Per questo, offeso, aveva smesso di parlarle...
...gli oggetti posti davanti alla sua finestra dovevano costituire una vendetta ingiurioda:
Io credo che vostra signoria mi habbia fatta venir qua, perchè la notte venendo il primo di maggio, mi fu posto un maggio sotto la finestra di casa mia qui nella Villa d'Aiano in luogo detto il Pagliarolo, al qual maggio vi erano attaccate delle cose per ingiuriarmi et farmi vergogna; se bene io son putta vergine et da bene, che ho quattordici anni in circa, et sono figliola di buon padre et buona madre.
Laura interrogata, è ben consapevole dell'onorabilità sua e della sua famiglia, del pregio che essa riveste e quindi dell'insulto e del grave danno che le è stato fatto in faccia alla comunità

Quello di piantare il maggio era tradizione antica diffusa in tutta l'Europa: c'èra l'uso, la notte fra l'ultimo giorno di aprile e il primo di maggio, che i giovani della comunità piantassero rami, mazzi di fiori, giovani alberi nelle piazze dei villaggi e davanti alle case, e in particolare davanti alla porta o alla finestra della fanciulla alla quale si voleva rendere omaggio...
Era tradizione che si prestava certo a recepire in se comportamenti di segno opposto a quello di omaggio amoroso, e quindi per essere usata come per deridere od offendere donne e ragazze(...);ma possiamo immaginare che altri, più amabili omaggi, siano stati piantati a Pagliano......
Una coetanea e vicina di casa di Laura fu ben lieta del maggio di melo cotogno che le era stato messo davanti all'uscio, e la stessa Laura si era vantata ripetutamente nei giorni precedenti di un maggio di melograno che si aspettava di ricevere e che ai suoi occhi e delle sue amiche doveva apparire particolarmente prezioso.

La storia di Laura e del suo innamorato ci spiega come anche nelle aspre campagne dell'Appennino la durezza del lavoro quotidiano fosse interrotta da spazi di festa e di gioco. "Piantare il maggio" era una festa agraria di fecondità, un'occasione di corteggiamento per i giovani e di curiosità per tutti i membri delle piccole comunità, che potevano vedere esposte e pronte ad essere decifrate le reti degli affetti e dei contrasti intessute al loro interno. La mattina del primo giorno di maggio all'aprirsi delle finestre era un rincorrersi delle sorprese più o meno liete e di occasione di socialità...

C'era poi il piacere di decifrare il senso di quegli oggetti esposti, vere costruzioni di complicate metafore che diremmo di gusto barocco...

Proprio in questi anni, tuttavia, la festa del maggio -come tanti altri aspetti della vita associata- cominciava a conoscere una nuova disciplina.
In città (...) le gerarchie ecclesiastiche avevano già iniziato uno sforzo di trasformazione del rito, invitando a rivolgere alla Vergine Maria gli omaggi e le offerte floreali che i giovani avevano sino allora lasciato sotto le le finestre delle ragazze.
Fanciulle ornate di fiori erano state sino allora il simbolo della primavera e della rinascita della vita, ma ora è alla Madonna che gli angeli e gli uomini offrono fiori in segno di devozione: è questa l'origine dei culti mariani del mese di maggio che tuttora vengono praticati "


Parola di Ottavia NICCOLI, da "Storie di ogni giorno in una città del Seicento" (Ed. Laterza)

Fra le lenzuola



Su richiesta del Duca di Savoia Carlo II e di sua madre, Claude de Brosses di Bretagna, il papa Giulio II con una Bolla datata 25 aprile 1506, concedeva per tutto il ducato sabaudo l'Ufficio proprio (Officium) e la Messa Propria del "Santo Sudario" (Saint Suaire)di Chambery: quel lenzuolo che successivamente fu meglio noto come la Santa Sindone di Torino.
Giulio II ne permise il culto pubblico e la festa liturgica che fu fissata al 4 maggio , il giorno appresso la festa della Croce (che commemorava l'"Inventio Crucis" dell'anno 326 da parte dell'imperatrice Sant'Elena).

mercoledì, maggio 03, 2006

Esperanza y macarena

Ovvero: "Dite a Laura che l'amo"



Amo a Laura pero esperaré hasta el matrimonio” (Amo Laura, ma aspetterò fino al matrimonio).
Divertentissima pariodia della gioventù cattolica ideata da quei demonietti di MTV España che hanno creato un finto sito anti-MTV della fittizia associazione moralizzatrice Nuevo Renacer "per una gioventù senza macchia".

martedì, maggio 02, 2006

Ostende Nobis II


Domenica 30 aprile ha regalato a Roma un caldo e primaverile pomeriggio.
Gruppetti di giovani scamiciti si stendono al sole sulle vaste aiuole davanti a San Giovanni in Laterano ad ascoltare le prove del "concertone" del primo maggio mentre gruppi di per nulla abbronzati pellegrini -probabilmente polacchi- cercano di trovare un varco tra le transenne per riuscire a visitare la basilica.

Le strade sono poco trafficate, i romani sono ancora fuori per il "ponte" o staranno in casa, questo sole sembra invitare a prolungare la rituale pennichella.

Alle 16:00 per via Labicana di vivo trovi solo teutonici e canuti vecchietti che da ogni direzione calano verso la paleocristiana basilica di San Clemente per ammirarne cripte e mosaici, mentre io prendo deciso la salita che porta al "Piazzale della Sanità Militare".

L'ingresso dell'ospedale militare del Celio è piantonato da due file di militari dell'Esercito, che dalla parte verso l'ingresso è arricchito dalla presenza di qualche Carabiniere, mentre dalla parte opposta sono dislocati pochi sparuti giornalisti e cameramen, inviati di televisioni locali, mentre un pulmino della Rai parrebbe abbandonato. C'è poca gente, nessuna coda chilometrica di italico cordoglio, nessuna scalea traboccante di fiori come al Vittoriano nel novembre 2003 (come suol dirsi: "il tempo vola"); niente di patetico, dunque, che possa attrarre gli inviati di un Emilio Fede o d'un Michele Cucuzza.

Varco, così, per la prima volta il cancello dell'ospedale militare del Celio mentre un soldato "di terra" mi indica di imboccare il, corridoio di destra: la strada, leggermente in salita, è stata divisa con dei cordoni in tre di cui la mediana molto larga per il passaggio dei mezzi automobilistici. Dopo pochi passi il percorso torce verso destra dove si trova uno slargo che porta alla chiesa sede della camera ardente dei tre italiani caduti il 27 aprile a Nassiriya. Un cartello recita: "Piazzale della Basilica" e a me pare nomenclatura eccessiva per la linda chiesetta in stile neoromanico (lunga circa venti metri).

Non c'è pen niente coda e due arzille vecchiette a braccetto allungano il passo e mi passano avanti mentre mi soffermo a guardare verso il capannello di alti gerarchi dell'Arma dei Carabinieri che staziona al centro del piazzale e, lentamente, avanza verso i gradini della chiesa.
Mi accorgo che al centro delle loro attenzioni c'è il 'senatore a vita' Francesco Cossiga.
L'avvento dell'ex Presidente della Repubblica e del suo corteggio, seppur per pochi istanti blocca il veloce fluire, per l'unica porta della chiesa, degli altri visitatori alla camera ardente.
Mentre Cossiga ed i suoi accompagnatori avanzano per la navata centrale, in mezzo alle due file di banchi, la mia attezione è attratta dall'abside totalmente decorata con mosaici moderni nella ristrutturazione degli anni del post-concilio, e dall'iscrizione "Congregavit nos in unum".

La chiesa, primi Novecento, è tutta bianca, con soffitto a capriate, molto luminosa grazie alle monofore le cui vetrate moderne raffigurano santi.
La navata centrale s'innalza su otto pilastri su cui insistono degli archi a tutto sesto, cinque per lato, che aprono sulle navatelle laterali, formate perciò ogn'una da cinque campate copetre da volta a vela.
La struttura della chiesa è ciò che di più comune ognuno ha in mente quando pensa ad una chiesa.

Appena entrati, i comuni visitatori debbono girare a destra, nella navata laterale. Sul muro laterale della prima campata c'è una mensolina con una artistica moderna statuetta in bronzo, di circa cinquanta centimetri, raffigurante San Camillo "patrono della sanità militare" come si legge inciso sul basamento. Sul muro della terza campata è appeso un piccolo ma bel crocifisso ligneo.
Nella quarta campata sono stati spostati i banchi tolti dalla navata centrale (per far spazio alle bare) e disposti trasversalmente in direzione delle bare, su cui siedono i congiunti dei caduti. Infatti mi trovo ormai a mettà della chiesa e il percorso dovrebbe ormai sfilare verso la nave centrale davanti ai feretri disposti davanti i gradini dell'altare. Ma il fluire è stato momentameamente bloccato per la presenza dell'ex capo dello Stato che si è seduto nel secondo banco di destra e guarda silente verso le bare ed i congiunti che siedono su due file di sedia a destra e a sinistra di ogni feretro avvolto nel tricolore.
Così ho il tempo di soffermare il mio sguardo sulla parete di fondo della navatella, completamente ricoperta da un multicolore mosaico, e dove è si trova il tabernacolo.

Al fianco di Cossiga c'è tra gli altri,un sacerdote con le stellette che dopo essersi consultato col senatore a vita, ed ad un suo cenno di assenso, si alza e con voce squillante intona per due volte l'Eterno riposo e poi il Padre Nostro e l'Ave Maria.
I congiunti dei tre militari morti si sono prontamente alzati dalle loro sedie per recitare le preghiere in suffragio dei loro cari defunti, come se ormai avessero codificato che quei suffragi altro non erano che un cifrato annuncio dell'arrivo della personalità istituzionale di turno che veniva a porgere le condoglianze.

Il senatore Cossiga, sorretto per un braccio (essendo ancora convalescente per una caduta)si avvicina lentamente, e mestamente, davanti al feretro al centro, quello del capitano dell'esercito Nicola Ciardelli e stringe le manio ai congiunti. Poi si avvicina al feretro alla sua destra e poi a quello a sinistra, quelli dei marescialli dei Carabinieri Carlo De Trizio e Franco Lattanzio, ed esce lentamente, come lentamente era entrato.

Riprende, cosi, la processione di chi vuol significare con la sola presenza la propria vicinanza ai familiari di quei caduti andati in Iraq in "missione di pace" cioè con la benedizione delle Nazioni Unite per supportare "la ricostruzione " di un "dopo-guerra" di una guerra a Saddam Hussein che gli americani ci hanno raccontato di aver vinto.

Superando il granatiere di Sardegna in uniforme storica che, alla mia sinistra, stà ritto accanto al pilastro, mi fermo per un, lento, segno di croce davanti ai feretri.

Nonostante la vivacità dell'azzurro dei mosaici che coprono l'abside, e le tre luminose monofore che raffigurano la Risurrezione, l'atmosfera è quella di un venerdì santo in una piccola chiesetta della periferia di una cittadina di provincia.
Il crocifisso ligneo issato davanti all'altare spoglio, col capo chino, pare chiedere che si vada a baciarne le piaghe. Nell'insieme picca la dorata iscrizione latina che corre intorno al catino absidale: "Congregavit nos in unum Christi amor".
Da una parte del crocifisso c'è un leggio mobile girato verso gli astanti con una Bibbia aperta, dall'altro lato il cero pasquale acceso.
Dietro all'ambone marmoreo c'è la corona funebre del Presidente della Repubblica ed il picchetto dei Corazzieri, mentre dietro le rispettive bare il picchetto dei Parà e dei Carabinieri in alta uniforme.


Andando per uscire, di fronte a me, al centro della navata laterale c'è una statua della Madonna, alta circa un metro, in legno al naturale e dalle forme molto essenziali e contemporanee, in linea con lo stile decorativo di tutta la chiesa, del resto. Solo sopra la porta della sacrestia (sulla parete accanto) c'è una "devota" pittura della Madonna col Bambino.

Nell'ultima campata, verso l'uscita è appoggiato al muro un tavolo coperto da un drappo rosso su cui poter apporre la firma di circostanza. Al di sopra del tavolo, sul muro, su una mensola poggia un busto bronzeo di papa Paolo VI, e più in alto una lapide latina ricorda la visita di Papa Montini all'ospedale del Celio.
Mentre firmo, sento una vecchietta dire al marito: "Guarda, c'è Padre Pio".
Sulla parete di fondo, sotto una monofora (che raffigura S.Francesco d'Assisi)è appeso un quadretto dello stimmatizzato del Gargano. Un quadretto abbastanza costoso ma pacchiano, forse l'omaggio di graduato devoto.

Fuori, accanto mi soffermo a leggere il cartiglio sulla corona di fiori accanto alla porta "Presidente della Camera dei Deputati". Mi chiedo se sia stata inviata dal vecchio presidente o dal nuovo presidente Fausto Bertinotti e mi viene da sorridere rammentando la profonda verità racchiusa nell'iscrizione appena letta nell'abside della chiesa: "Congregavit nos in unum...".



PS:Mentre mi allontano a grandi passi non posso fare a meno di sorprendermi vedendo la grande voragine al centro del piazzale con i resti archeologici di quella che parrebbe una villa romana, delle terme, o forse, guardando meglio la struttura: una basilica pagana, come recita l'iscrizione che quindi non si riferiva alla chiesetta di Maria "Salus Infirmorum"