giovedì, agosto 31, 2006

De bestiis ed aliis rebus

Sive: Vicit leo de tribu Iudae, fugite partes adverse!



Alle ore 9:45 del 27 agosto dell'anno Domini 2006 la principessa Lavinia Borromeo ha partorito il suo maschio primogenito; il peso dell'erede della dinastia Agnelli era di 3 kili e 300 grammi.

Il primogenito del trentenne John Elkann, vicepresidente della Fiat e nipote del fu "Avvocato" Agnelli, ha visto la luce nella città di Torino una domenica mattina, cioè molto opportunamente nel "giorno del Signore" e in un ospedale di quella metropoli cisalpina della quale la famiglia Agnelli, e quella Fiat di cui il piccolo Elkann è destinato ad essere un dirigente, ne hanno indirizzato i moderni destini.

Il novello genitore John Elkann detto "Jaki" ha imposto al figlio il nome "Leone".
Ha imposto al pargolo anche di tifare per la Juventus: "è nato uno juventino in più" ha infatti esclamato presentandosi al cospetto dei giornaliti, vestito con "nu ginze e na maglietta" così come si trovava per casa quando alle 8 del mattino Lavinia Borromeo è stata colta dalle doglie e il dirigente Fiat, alla guida di una Panda blù ha condotto la nobile consorte, giammai presso una lussuosa clinica privata ma, all'ospedale Sant'Anna. "HUMILITAS" è lo stemma dei Borromeo.

Del resto anche l'"Avvocato" per la propria estrema malattia aveva scelto il ricovero presso l'ospedale delle Molinette. Ed ecco che con tanti piccoli e costanti segni, la dinastia Agnelli si mostra compartecipe delle vicissitudini dei propri concittadini torinesi! Vanno in giro con una comune Panda(magari pure vecchio modello!) quando potrebbero fare tranquillamente sfoggio di una Ferrari, e scelgono sovranamente di affidare la nacita dell'erede "al soglio" ad un ospedale pubblico allo stesso modo dell'operaio della Fiat che non ha la possibilità economica per scegliere.
E' evidente che lo stile "Agnelli" produca nel comune torinese una iniezione di fiducia sullo stato di buon goveno della città della Mole che non sortirebbe nessuna campagna pubblicitaria sponsorizzata dell'amministrazione comunale; e questo i pubblici amministratori lo sanno bene e perciò si prostrano deferenti al bacio della sacra pantofola. Perciò tutti a cantare "Osanna" e "Gloria" intorno alla culla del giovane Leone!

La mattina del 27 agosto è sorto il pronosticato un nuovo astro della Fiat e tra i primi accorsi a vedere il Leone che tutti si augurano "rampante" ecco i parenti della madre, discendenti dei santi pastori ambrosiani unitamente agli Agnelli torinesi con in testa la matriarca Marella Caracciolo.

Tra il plauso generale rimane un certa perplessità sulla scelta del nome. Un nome per niente ricorrente nelle due genealogie familiari.
Probabilmente si è voluto proteggere il nuovo venuto dall'omonimia di avi troppo ingombranti.
Ma perchè proprio Leone?
Perchè il nome di una fiera selvaggia?
Se volevano ingraziarsi il Fato scegliendo per il piccolo un nome da dominatore, perchè non nomarlo: "Can Grande" Elkann o "Mastino" Elkann come celeberrimi condottieri medievali?
Perchè non "Lupo" oppure "Orso" (magari ingentilito legandolo al nome "Maria"?
Forse che affidare il futuro degli Agnelli ad un Lupo o ad un Orso è parso come voler sfidare il destino beffardo? E poi il solo pensiero dei titoli dei giornali il giorno che il pargolo divenuto "garzongello scherzoso" fosse andato ad una festa mondana, come ad una partita della Juve o ad una corsa automobilistica con lo zio paterno! Il duo "Lupo e Lapo" non si può proprio digerire!

Ma anche il Leone è bestia feroce che può far fare una brutta fine ad ogni specie di ovini.
Epperò -risponderebbe il Savio- il leone non è un animale al pari degli altri: esso ne è il re!

Tra le "virtù" che i bestiari medievali attribuiscono al leone vi è appunto l'indole della regalità. Il leone, infatti, si arrabbia solo se viene ferito, solitamente ha un'indole magnanime poichè attacca ed uccide solo se è molto affamato. Perciò "Gli uomini dotati di ragione debbono seguire questo esempio. Irritardi solo se vengono feriti, denza opprimere gli innocenti quando la legge cristiana dice loro di lasciarli liberi". Gli uomini potenti prendano nota.



Il Leone è anche il simbolo della tribù di Giuda, da cui discende Davide, re di Israele, ed è perc iò anche il simbolo messianico poichè il Messia atteso dal popolo ebraico è quel "Figlio di Davide" che viene nel mondo allo scopo di insaurare il regno della pace e della giustizia universale. Canta infatti il profeta Isaia:
"Il lupo dimorerà insieme con l'agnello,
la pantera si sdraierà accanto al capretto;
il vitello e il leoncello pascoleranno insieme
e un fanciullo li guiderà.

La vacca e l'orsa pascoleranno insieme;
si sdraieranno insieme i loro piccoli.
Il leone si ciberà di paglia, come il bue
" (Is 11,6-7)


Ed ecco perciò che per mezzo del sangue ebraico di Jaki e del sangue dei Borromeo, lo stesso sangue di un santo della Controriforma, fusi insieme nel frutto del loro amore - Dio è amore!- hanno realizzato la paradisiaca profezia di un "Leone" che pascola insieme agli "Agnelli"!

Il nome Leone è beneaugurante anche in quanto il leone è simbolo di Gesù Cristo, poichè i cristiani hanno riconosciuto proprio in Gesù di Nazaret il messia atteso. Scrive l'autore dell'Apocalisse: Uno dei vegliardi mi disse: "Non piangere più; ha vinto il leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, e aprirà il libro e i suoi sette sigilli".

Sapendo questo non costituisce meraviglia che Leone è nome spesso usato da imperatori bizantini così come da ben 13 sommi pontefici romani, il tredicesimo dei quali, pur avendo avuto un pontificato lungo e zeppo di benemerenze, è universalmente noto per l'enciclica "Rerum Novarum" con cui per la prima volta dopo la rivoluzione industriale, La Chiesa cattolica ha principiato a dichiararsi in favore delle masse operaie ed a tracciare una dottrina sociale che cercasse di incarnare i valori evangelici pur nei meccanismi della moderna economia industriale.

Tra i parenti attesi dai giornalisti che stanziavano fuori dall'ospedale Sant?Anna di Torino non vi era però Lapo Elkann, fratello minore di Jaki e zio del "Leoncello".
Jaki, sempre benevolo, ha confidato ai giornalisti in attesa che era inutile che si attardassero oltre: Lapo in quel momento si trovava dall'altra parte del globo terraqueo. E' infatti arcinota la brama di sempre nuove esperienze mondane di cui si diletta Lapo Elkann.
"Rerum novarum cupiditas" avrebbe sentenziato il tredicesimo Leone.

mercoledì, agosto 30, 2006

L'Invenzione della Vera Icona

Ovvero:Hezbollah manipola le immagini e i media occidentali se la bevono


Un articolo di David Frum (traduzione di Aldo Piccato); Il Figlio;mercoledì 30 agosto 2006.

«Probabilmente avete visto l’immagine sul giornale o alla televisione: membri di Hezbollah che distribuiscono mazzette di banconote da 100 dollari a libanesi rimasti senza casa in seguito alla guerra contro Israele. A quest’immagine mancava soltanto una cosa: la sottilissima striscia di metallo che attraversa dall’alto in basso le autentiche banconote da 100 dollari. Il denaro distribuito da Hezbollah era falso, come avrebbe dovuto risultare evidente a chiunque avesse esaminato con attenzione le fotografie.
L’attenzione era necessaria perché Hezbollah ha una ben nota storia di contraffazioni: già nel giugno del 2004 il dipartimento del Tesoro americano aveva citato Hezbollah come uno principali produttori di dollari falsi in tutto il mondo. Ma questo è stato completamente ignorato dalle agenzie di stampa che hanno fatto la coda per ottenere le foto della pseudo-filantropia di Hezbollah.

Forse è troppo aspettarsi che i giornalisti siano degli esperti di banconote false. Ma ci si aspetta che siano almeno in grado di individuare una fotografia ritoccata, soprattutto se il ritocco è fatto in modo grossolano.
Ciononostante, è stato un blogger americano, e non un direttore di giornale, che ha beccato la Reuters a distribuire fotografie false scattate dal suo ormai tristemente noto fotografo libanese, Adnan Hajj.

Hajj ha usato Photoshop per far sembrare gli incendi nelle città libanesi più grandi di quanto non fossero in realtà e per trasformare le foto dei traccianti israeliani in immagini di missili in volo. Per queste e altre fotografie false, la Reuters ha licenziato Hajj e ha eliminato dal proprio archivio migliaia di foto scattate dal fotografo libanese.

Ma lo scandalo dei servizi giornalistici sulla guerra in Libano inizia soltanto con Hajj e non finisce certo qui. A luglio, prestigiosi mezzi di informazione come AP, la BBC, il Time Magazine, ITN, il New York Times, il Los Angeles Times e molti altri hanno riportato la scioccante notizia che le forze israeliane avevano lanciato missili contro due ambulanze della Croce rossa, provocando un incendio nel quale le persone a bordo erano rimaste ferite. Alcune fotografie e un filmato fatto in seguito da un cameraman locale mostravano un’ambulanza quasi completamente distrutta con un buco al centro del tetto. Ma queste foto erano false, così come lo erano le altre pubblicate successivamente, che mostravano un attacco israeliano contro un veicolo della Reuters.

Nelle fotografie delle ambulanze e del veicolo della Reuters si vedeva un buco nel tetto, ma non era visibile praticamente nulla dell’interno e, cosa sorprendente, nessuna traccia di esplosione o incendio. L’autista dell’ambulanza, gravemente “ferito” che si vedeva nelle fotografie è riapparso in un filmato girato sei giorni dopo senza mostrare nemmeno un graffio.
Il buco nel tetto delle ambulanze non solo era perfettamente rotondo ma combaciava, per dimensioni e posizione, con quello della sirena mancante.

Non è vero ma ci credo

I reporter occidentali sono davvero così ingenui e creduloni?
Sfortunatamente, i servizi sul bombardamento del 30 luglio nel villaggio di Qana fanno supporre una spiegazione molto più inquietante. Secondo buona parte di questi servizi, le bombe israeliane hanno colpito un edificio di tre piani, intrappolando nelle macerie un gran numero di civili e di bambini. Le fotografie e i filmati di questa triste scena sono diventati le immagini simbolo di tutta la guerra libanese.
Tuttavia un esame attento di queste fotografie rivela, al di là di ogni possibile dubbio, che sono state realizzate ad arte, e con l’attiva complicità dei giornalisti occidentali presenti sul luogo.

Alcune scene sono state provate e riprovate; i cadaveri sono stati spostati da un punto all’altro. I portavoce di Hezbollah chiacchieravano allegramente al telefonino quando pensavano di non essere ripresi e poi scoppiavano in lacrime non appena si accorgevano di essere sotto l’occhio delle telecamere.

Il desiderio di immagini dal forte impatto e il pregiudizio antisraeliano hanno spinto buona parte della stampa occidentale a diventare propagandista di Hezbollah, pubblicando consapevolmente immagini false. E al fondo di ogni motivazione sta, in conclusione, la paura.
Non dimentichiamoci che Hezbollah è l’organizzazione terroristica che ha tenuto prigioniero per sei anni il reporter della AP Terry Anderson.»

sabato, agosto 26, 2006

Sacra Conversazione /9

Sive: Dixit Dominus Schönborn:
“Le parole devono dire ciò che dicono, dobbiamo ritrovare la corrispondenza fra parola e realtà”





“Dall’inizio della prima pagina della Bibbia la parola è stata lo strumento del creatore, Dio dice e le cose diventano.
Dunque c’è sempre la parola, ma anche l’abuso della parola, come spiega il terzo capitolo della Genesi. Il male non comincia con un fatto bruto, ma con una parola di menzogna. Il serpente parla e viene la menzogna. Il campo del combattimento resta sempre la parola.
Un saggio cinese, Lao Tze, ha detto che la prima cosa da riparare per riparare la politica è il linguaggio. Le parole devono dire ciò che dicono, dobbiamo ritrovare la corrispondenza fra parola e realtà”.

La parola uomo e donna, icona e significato. “Nella sessualità esiste l’influsso culturale, l’impregnazione sociale ed economica, ma non è costitutivo. Il problema è dimenticare che c’è una realtà dietro all’essere uomo e donna. Dio ha creato l’uomo a sua immagine, uomo e donna li ha creati. Non c’è terzo”.

Nell’islam solo la luce della moschea, il nikràb, evoca il divino. Una luce però così disumana che sembra non avere colore.
Non c’è nessuna porta d’ingresso sulla realtà.
Nel cristianesimo l’uomo è invece luogotenente di Dio nella sua creazione”.
Nell’islam è interessante vedere come non si possa parlare dell’uomo immagine di Dio, perché non c’è nessuna immagine di Dio, nessun essere creato può essere detto immagine e rappresentante di Dio.
Nella fede biblica tutto è segno del creatore, tutte le creature sono tracce e ci parlano del creatore. Solo l’uomo è più che una traccia, è immagine di Dio, chiamato a somigliare a Lui. Questo mostra un approccio alla realtà radicalmente diverso rispetto all’islam”.


[Tratto dall'articolo apparso sul Foglio del 25 agosto in cui Giulio Meotti riporta quel che ha colto dalle auguste labbra dell'Eminentissimo midleuropeo durante la conferenza stampa di giorno 23 agosto al Meating di Rimini]

venerdì, agosto 25, 2006

Sacra Conversazione /8



Sul Foglio di giovedì 24 agosto 2006, l'ateo devoto Ruggero Guarini discetta di Cristo e di Maometto.
Ovvero:"SULLA TESTIMONIANZA DELLA FEDE, L’ALDILÀ E L’IRONIA LE DUE RELIGIONI HANNO CONCEZIONI ASSOLUTAMENTE INCONCILIABILI".

«Sulla differenza che passa fra Cristo e Maometto [...] qualche timida glossa su tre temi che giudico essenziali ai fini di qualsiasi riflessione sulla differenza evocata.
I tre temi a cui mi riferisco sono il martirio, la morte e il riso. Incominciamo dal primo, che è anche quello che a ogni cristiano credente dovrebbe sembrare decisivo. Ma che tale sembra anche a me, che appartengo alla specie dei cristiani non credenti.
A proposito dunque del martirio: è da un pezzo che mi chiedo perché mai né questo Papa né il suo predecessore hanno avvertito il bisogno di emanare su questo argomento un’enciclica all’altezza della straordinaria gravità che il tema ha assunto oggi.
All’alba di un secolo ormai sfregiato per sempre dalle imprese del terrorismo islamista ci sono forse compiti più urgenti, per la chiesa, della lotta contro l’empia concezione del “martirio” che glorifica e fomenta lo stragismo suicidario? Certo la chiesa, su questo argomento, ha già detto tutto fin dai tempi in cui l’autore dell’Apocalisse, definendo Cristo “il testimone fedele”, decretò implicitamente che “martirio” vuol dire affrontare la propria morte (non quella altrui) per “testimoniare la fede”. Ora però che va molto di moda, fra i nostri cuginetti maomettani, quell’orribile idea di “martirio” che consiste nel votarsi simultaneamente al suicidio e al massacro, non sarà forse il caso di proclamare alto e forte (non in una comune omelia ma in uno di quei documenti del “magistero ordinario” che sono appunto le encicliche) che non si tratta di martiri bensì di indemoniati?
Si dice che la chiesa esita a farlo per evitare che la collera di Allah si abbatta sui suoi figli, specialmente su quelli sparsi nel mondo islamico. Ma esitare a condannare apertamente come diabolica una così aberrante concezione del “martirio” non comporta la tacita rinuncia a testimoniare la propria?
Mai come in questo caso sarebbe comunque opportuno che la chiesa tornasse a parlare del Diavolo. Potrebbe farlo del tutto legittimamente, visto che non ne ha ancora mai negato l’esistenza. Anzi negli ultimi tempi ne ha spesso evocato il potere per segnalare insidie molto meno manifestamente demoniache del “martirio” in salsa maomettana. O si preferisce pensare che quella pratica ributtante che è la produzione in serie di angioletti-bomba programmati fin dall’infanzia per volarsene al più presto nel paradiso di Allah facendosi saltare in aria con un bel grappolo di infedeli non sia abbastanza infernale per meritare un’enciclica che vi riconosca
l’opera del demonio?

Non meno abissale della differenza fra la loro idea di martirio e il martirio cristiano è quella fra il loro sentimento della morte e il nostro. Del coraggio con cui i terroristi islamici affrontano la morte si dice sempre che nasce dalla certezza di meritarsi il cielo col martirio. Già: ma che genere di cielo?
Un cielo di eterna pace o un cielo di eterna guerra?
Nell’aldilà musulmano c’è spazio sia per l’uno che per l’altro.

L’immagine canonica del primo è il paradiso descritto nella sura 52 del Corano: un giardino in cui tutti i maschietti di provata fedeltà ad Allah se la spassano dalla mattina alla sera con sciami di bellissime fanciulle dette “huri”, liete dispensatrici di incessanti voluttà.
L’immagine più classica del secondo è quella del giudizio universale. Che anche nell’islam, come in tutte le religioni, spacca la massa dei morti nei due gruppi dei beati e dei dannati. Assumendovi, però, un aspetto bellicoso che nelle altre religioni è assai meno accentuato.
Qui i due gruppi contrapposti sono infatti presentati come due schiere votate a una perpetua battaglia. Il loro destino, per sempre diviso, è cioè quello di combattersi a vicenda per tutta l’eternità. La guerra santa, insomma, continua anche nell’aldilà.
Quale di questi due cieli (quello di eterna pace promesso dalle huri o quello di eterna guerra annunciato dalla tromba del giudizio) alletta maggiormente il terrorista islamico?
La parola agli esperti del ramo Psiche & Fede.

Che prima di rispondere al quesito dovrebbero comunque esaminarlo alla luce del famoso predicozzo che Maometto, dopo la battaglia di Bedr, prima sua grande vittoria sui suoi rivali della Mecca, tenne ai nemici morti. Ai quali si rivolse, tuttavia, solo dopo averli fatti gettare in una cisterna. Perché questa precauzione? Il Profeta temeva forse che quei defunti, durante il suo sermoncino, potessero tornare a contraddirlo? O pensava che quegli infami, che quando erano vivi avevano sempre respinto la sua parola, adesso che erano morti si sarebbero invece decisi ad apprezzarla, e che l’avrebbero ascoltata meglio se invece di restare sparpagliati sulla sabbia, si fossero ammucchiati tutti insieme in fondo a una cisterna?
La parola agli esperti del ramo Profeti & Cadaveri.

Ma ecco come Ibn Ishak, il primo biografo di Maometto, riferisce l’episodio: “Dopo la battaglia, Maometto fece gettare in una cisterna i nemici uccisi.
Solo uno di essi fu sepolto sotto terra e pietre poiché era tanto gonfiato che non gli si poteva facilmente levare la corazza. Così rimase solo e lo si lasciò a giacere. Appena gli altri furono gettati nella cisterna, Maometto vi si pose dinanzi e gridò: ‘O voi, uomini della cisterna! Si è compiuta la promessa del vostro Signore? Io ho trovato vera la promessa del mio!’ I suoi compagni allora dissero: ‘Oh, inviato di Dio, ma sono cadaveri!’cadaveri!’ Maometto, rispose: ‘Essi sanno lo stesso che la promessa del Signore si è compiuta’”.

A questo edificante episodio Elias Canetti, in una pagina di “Masse e potere”, dedica queste sobrie osservazioni: “Così egli ha radunato coloro che prima non volevano ascoltare le sue parole. Nella cisterna essi sono ben sistemati e stretti gli uni agli altri.
Non conosco alcun esempio più impressionante di questo resto di vita e di questo carattere di masse attribuiti al gruppo dei nemici morti. Essi non minacciano più, ma possono ancora essere minacciati. Ogni infamia verso di loro rimane impunita. Ne abbiano o meno la percezione, si suppone che essi effettivamente se ne accorgano, perché così si può meglio innalzare il proprio trionfo”. Lo stesso Canetti, in un altro suo libro (“La provincia dell’Uomo”) scrisse che “nell’islam il comando di Allah ha in sé molto di una condanna a morte”. Dal che ognuno può dedurre che il cielo che hanno in testa i terroristi islamici, sia esso un cielo di eterna pace o un cielo di eterna guerra, è innanzitutto un cielo di eterna morte.

Per scorgere infine l’abisso che separa Cristo da Maometto anche nell’attitudine al riso basta tornare a chiedersi quando, dove e perché esplose la prima guerra fra musulmani ed ebrei. Sospetto tuttavia che la vicenda sia nota soltanto a pochi esperti del ramo Maometto & Cº.
Io stesso, del resto, l’ho appreso soltanto di recente, leggendo l’eccellente saggio su Maometto di Maxime Rodinson (“Maometto”. Einaudi 1995, pp. 348, euro 8,50). Eppure l’episodio (che Rodinson riferisce riassumendo il racconto riportato nella prima biografia ufficiale del Profeta: quella redatta nell’ottavo secolo dallo storico arabo Ibn Ishak) è fragorosamente gravido di senso.

Correva l’anno 622. Il primo, cioè, dell’Egira.
L’anno dunque del trasferimento di Maometto e dei suoi primi seguaci dalla Mecca, dove erano stati a lungo osteggiati e derisi, nella città-oasi di al-Madinah (la Medina), dove furono accolti garbatamente dai diversi gruppi religiosi (ebrei, cristiani, pagani) che da un pezzo vi convivevano in santa pace. I primi due anni passarono senza incidenti.
La predicazione del Profeta, il suo inflessibile monoteismo, la sua implacabile lotta contro le tre dee femminili allora venerate da tutti gli arabi insieme ad Allah, non suscitarono alcuna protesta.
I medinesi, insomma, si rivelarono assai tolleranti.

Ma a rovinare tutto provvide un bel giorno un semplice pezzo di stoffa: quel velo che Maometto (il quale aveva in orrore, com’è noto, le audacie vestimentarie delle infedeli) aveva subito imposto alle donne convertite alla sua fede.
L’incidente avvenne nel suk, presso la botteguccia di un orafo ebreo. Arriva una donna beduina, naturalmente velata, e alcuni ragazzi ebrei, prendendola un po’ in giro, la invitano a togliersi il velo. La donna protesta. I ragazzi insistono. L’orefice, inoltre, le fa lo scherzo barbino di fissarle a terra, di soppiatto, un lembo della veste. Sicché, quando lei fa per andarsene, la sottana si strappa lasciandola col didietro scoperto. La donna si mette a urlare invocando vendetta.

Un maomettano accorre e ammazza l’artigiano. Arrivano altri ebrei e ammazzano il maomettano. Mentre la zuffa si allarga altri arabi corrono ad avvertire il Profeta. Questi s’infuria, minaccia di far massacrare tutti gli ebrei dell’oasi e provoca in tal modo lo scoppio della prima guerra araboebraica.
Che dopo una serie abbastanza convulsa di scontri, agguati, battaglie e massacri, si concluderà con l’espulsione di tutti gli ebrei e il trionfo dei maomettani. I quali diventarono così i nuovi padroni della Medina, ossia della stessa città che soltanto tre anni prima li aveva accolti benignamente come fuggiaschi sprovvisti di tutto e bisognosi di comprensione e di aiuto.
Tutto dunque incominciò con uno scherzo.
E con l’incapacità del Profeta e dei suoi seguaci di sopportarlo. Giacché a provocare i massacri gli scherzi da soli non bastano. Occorre il contributo di qualcuno che sia ben deciso a far progredire la Storia opponendo la serietà dell’eccidio alla fatuità del dileggio, la dignità della strage alla frivolezza dello scherno, la gravità del bagno di sangue alla leggerezza della beffa. Spremendo insomma sangue dai pernacchi. E magari dalle vignette. Il che richiede – è evidente – gusti intellettuali, estetici e morali bissalmente diversi da quelli che oggi permettono al nostro povero Gesù di Nazareth di sorridere cristianamente di un mondo che pur professandosi cristiano, e onorandolo in innumerevoli forme, e dedicandogli affettuosissime cure, non soltanto sacre ma anche profane, tuttavia non soltanto permette che si dubiti del suo supposto rango divino, ma anche di contestare le sue pretese teologiche, e a volte persino di farsi beffe del suo messaggio».

domenica, agosto 20, 2006

Concupiscenza e Liberazione/2

ovvero: San Tommaso d'Aquino sostiene che se non ci fosse stato il Peccato Originale il piacere sessuale sarebbe stato ancora più gagliardo! Parola di "DON CICCIO" VERTORINO(*)


["Il Foglio"; mercoledì 12 luglio 2006]


«Nel Medioevo si discuteva appassionatamente di tutto ciò che riguardava la verità sull’uomo e su Dio, delle questioni ultime dell’esistenza, cioè di quelle connesse al senso e al destino della vita umana.
Tra queste i teologi dissertavano su cosa sarebbe stato l’uomo se fosse rimasto nello stato d’innocenza in cui era stato creato e in particolare se in quello stato la vita umana si sarebbe moltiplicata per generazione da parte dell’uomo e della donna e se questa sarebbe avvenuta attraverso l’unione sessuale.

Molti teologi erano schierati contro questa ipotesi, a causa della “turpitudine che si riscontra nell’atto sessuale” e pensavano che il genere umano si sarebbe moltiplicato in maniera diversa, come furono moltiplicati gli angeli, cioè per un diretto intervento divino.
...san Tommaso d’Aquino aveva avversato questa posizione.
“Questa opinione non è ragionevole. Infatti le attribuzioni di ordine naturale non sono state né sottratte, né conferite all’uomo a motivo del peccato. Ora, è evidente che, secondo la vita animale posseduta anche prima del peccato era naturale per l’uomo generare mediante la copula, allo stesso modo che per gli altri animali perfetti. Ne abbiamo la riprova negli organi naturali, destinati a tale funzione. Non si dica, quindi, che prima del peccato essi non sarebbero stati usati” (Tommaso d’Aquino, “Summa Theologiae”, I, q. 98, a. 2).

Per quanto riguardava, poi, l’obiezione che alcuni facevano circa la possibilità di un atto sessuale che fosse privo di peccato, perché “in qualsiasi atto venereo c’è un eccesso di piacere, il quale assorbe la ragione al punto che, a detta di Aristotele (settimo libro dell’Etica), ‘in esso è impossibile intendere qualcosa’”, Tommaso rispondeva che
“la sovrabbondanza del piacere che è nell’atto sessuale conforme all’ordine della ragione, non è contraria al ‘giusto mezzo’ della virtù […]. Né è contraria alla virtù per il fatto che la ragione non può compiere un atto libero di conoscenza intellettiva contemporaneamente a quel piacere. Non è infatti contrario alla virtù che l’atto della ragione sia talvolta interrotto per un qualcosa che avviene secondo ragione: altrimenti sarebbe contrario alla virtù abbandonarsi al sonno” (Ibid. II-II, q. 153, a. 2, ob. 2, ad 2).

Mi ha sorpreso ancora di più il passaggio successivo, nel quale l’Aquinate sostiene che nel Paradiso – per l’imperturbabile attività dello spirito – il piacere connesso all’atto generativo sarebbe stato ancora più gagliardo, conformemente al superiore affinamento della natura e alla superiore sensibilità del corpo. “Alla ragione – infatti – non spetta rendere minore il piacere dei sensi, ma impedire che la facoltà del concupiscibile aderisca sfrenatamente al piacere dei sensi; e sfrenatamente qui significa oltre i limiti della ragione […]. Questo è il senso delle parole di sant’Agostino che non vogliono escludere dallo stato di innocenza l’intensità del piacere, ma l’ardore della libidine e l’inquietudine dell’animo” (Ibid. I,q. 98, a. 2, ad 3.).

Ecco, dunque, la vera questione: l’uso della facoltà sessuale contro o oltre l’ordine della ragione genera nell’uomo un ardore libidinoso incontrollabile che porta con sé una inquietudine profonda.

L’ordine della ragione è quello della realtà così come si manifesta all’uomo per la luce dell’intelletto di cui è dotato naturalmente e per la luce che viene dalla rivelazione di Cristo. L’arroganza per la quale l’uomo si ribella a quest’ordine proponendo il suo arbitrio come principio assoluto di comportamento genera infatti – secondo Agostino – al suo interno una ribellione di tutte le facoltà: esse divengono incontrollabili dalla ragione e perciò fonte di inquietudine e di paura oltreché di vergognosi eccessi.
“La pena di quel peccato che è la disobbedienza – scrive sant’Agostino – è stata pagata con la disobbedienza stessa. L’infelicità dell’uomo – infatti – non è altro che la disobbedienza di sé contro se stesso, cosicché egli vuole ciò che non può, perché non volle ciò che poteva” (Agostino d’Ippona, “De civitate Dei”, XIV, 15).

E con fine ironia dimostra come anche la funzione sessuale non sia più sottomessa alla decisione della volontà, cosicché “talora quell’impulso è inopportuno e non desiderato; talvolta invece pianta in asso chi sta spasimando e così nell’anima si brucia dal desiderio mentre il corpo è gelido. In tal modo, cosa davvero sorprendente, la passione non soltanto non si pone al servizio della volontà di generare, ma neanche della passione più sfrenata; e mentre il più delle volte resiste completamente allo spirito che cerca di frenarla, qualche volta entra in contrasto con se stessa e dopo aver turbato l’anima non arriva da sola a turbare anche il corpo” (Ibid., XIV, 16).

Questa sarebbe la ragione per cui dopo il peccato l’uomo, “avendo perso quel potere a cui il corpo era completamente sottomesso, ma non il pudore, avvertì questa passione, la esaminò, se ne vergognò, la nascose” (Ibid., XIV, 21).


Torniamo adesso alla concezione di quell’ordine della ragione contro il quale, l’uomo con il peccato si sarebbe ribellato e continua a ribellarsi, e in particolare cosa questo comporti nei confronti della sessualità e dell’amoredell’amore umano.

Abbiamo detto che, secondo Tommaso, l’ordine della ragione è l’ordine della realtà che si manifesta all’uomo per l’intelletto di cui è dotato in quell’avvenimento che è l’evidenza, in forza della quale la realtà gli si impone nella sua innegabile verità. L’ordine della ragione non ha dunque nulla di intellettualistico, non è un sistema di pensiero, ma risulta da una esperienza elementare che tutti gli uomini possono fare, anche se storicamente, per la fragilità della condizione umana, dovuta al peccato, essi hanno bisogno di quella “purificazione della ragione” che viene operata dalla fede cristiana.
Si tratta di un compito della chiesa che, come ha recentemente ricordato Benedetto XVI nella sua prima Enciclica, non è quello di sostituirsi alla ragione; ma di servire alla sua purificazione “dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano”, in modoche “ciò che è giusto possa, qui e ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato” (Benedetto XVI, “Deus caritas est”, n. 28).

Secondo l’ordine della ragione, per Tommaso d’Aquino, l’istinto sessuale non è un male necessario, ma un bene.
Anzi la completa, radicale insensibilità a ogni genere di emozioni sessuali, che parecchi vorrebbero ritenere “vero” ideale e perfezione della vita cristiana, viene giudicata nella “Summa Theologiae” non solo difetto, ma un vizio vero e proprio
(II II, q. 142, a. 1).


L’ordine della ragione importa, dunque, in primo luogo che la funzione della forza sessuale non venga repressa, impedita, ma abbia compimento nel matrimonio.
"Il matrimonio o coniugio si dice vero, quando raggiunge la sua perfezione. Ma una cosa può avere due perfezioni. La prima consiste nella forma che dà alla cosa la sua natura specifica, la seconda invece consiste nell’operazione per cui la cosa raggiunge il suo fine. Ora la forma del matrimonio consiste nella indivisibile unione degli animi, che obbliga ciascuno dei coniugi a mantenersi perpetuamente fedele all’altro. Il fine poi del matrimonio consiste nella generazione e nell’educazione della prole: la prima mediante l’unione carnale, la seconda mediante le attività per mezzo delle quali marito e moglie si aiutano a vicenda per allevare la prole” (III, q.29, a.2, c).

In questa prospettiva la sessualità umana esprime nel matrimonio “l’indivisibile unione degli animi” e la decisione di “mantenersi fedele all’altro”. Essa è una funzione, una sorta di linguaggio con il quale ci si dice reciprocamente: “Ti amo e voglio amarti per sempre e per questo ti voglio padre/madre dei miei figli”.
Al di fuori di questa sua ratio naturalis essa non può che generare impotenza e paura, che portano a una reciproca violenza e difesa. E’ proprio quello che era stato profetizzato ai nostri progenitori dopo il peccato, secondo il libro della Genesi (3,16), quando Dio disse alla donna: “Verso tuo marito ti spingerà la tua passione, ma egli vorrà dominare su di te”.

La sessualità umana perché diventi linguaggio di amore esige una continua e profonda educazione della persona: si tratta di quel passaggio mai perfettamente compiuto dall’eros all’agape, dall’ebbrezza del possesso a una matura donazione di se stesso, di cui parla Benedetto XVI nella Enciclica già citata, che è possibile solo dentro una coscienza dell’altro, come segno della presenza di quel Mistero più grande che sta all’origine della nostra esistenza stessa e che quindi merita da noi una devozione assoluta, quasi un’adorazione, che è esattamente l’atto opposto a quella ribellione originaria e quotidiana, che nasce dal rifiuto da parte dell’uomo di appartenere a Dio.

Un grande educatore dei nostri tempi, che ha segnato decisamente tutta la mia sensibilità umana e cristiana, don Luigi Giussani, raccontava di un ragazzo, che aveva avuto come alunno quando insegnava al Seminario di Venegono, “un tipo caratteriale che non parlava con nessuno tranne che con me, che ero suo professore”, al quale aveva sempre detto: “Tu cambierai quando vorrai bene a una donna”. Incontratolo dopo tanti anni, durante un viaggio in treno, si sentì dire: “Sa che devo darle ragione: mi sono innamorato e sposato e sono contento”.
“E aveva davvero un’altra faccia”, continua don Giussani: “Ma a un certo punto gli ho visto fare, gli ho visto rifarsi la sagoma ironica che aveva in seminario: ‘Però ci sono momenti in cui penso che avevo ragione. Quando dico a mia moglie: Ti adoro, tu sei mia, io sono tuo, ti vorrò bene per sempre, mi viene da ridere, perché capisco che sono tutte balle’.
E io gli ho risposto: ‘Ma se tu guardassi alla tua donna come l’emergere in mezzo a tutto il mondo, di qualcosa di unico…, come l’emergere del mistero che fa il mondo e che tocca te, che riguarda te e vuole te. Se tu la guardassi come il punto, l’emergenza in cui il mistero predilige te, ama te, potresti dire: Ti adoro, alla tua donna! Allora puoi dirle: Ti adoro! veramente. Se lei è il segno vivente, reale del Mistero, puoi usare queste parole in modo serio’”.

E don Giussani aggiungeva: “Chi non capisce questo, non può vivere con dignità, con coscienza, con consapevolezza, responsabilità, letizia, la verginità”. (Luigi Giussani, “Affezione e dimora”, Bur, Milano 2001, pp. 117-118). Perché il senso di ogni amore è la verginità: la verginità è, infatti, l’amore verso l’altro come a quel punto in cui il mistero di Dio ti si fa più prossimo; essa è quindi un amare capace di adorare. Per cui anche il rapporto coniugale, proprio nell’atto sessuale che lo esprime e alimenta, o assume nel tempo la maturità della verginità, oppure fa ridere e quelle cose non si dicono più...»


(*)Don Francesco Ventorino è un sacerdote siciliano di 74 anni in possesso di una laurea (Università di Perugia) e di un dottorato in Filosofia (Pontificia Università Gregoriana), materia che ha insegnato per decenni nei licei etnei prima di approdare alla cattedra di Ontologia ed Etica allo Studio teologico San Paolo di Catania. Amico e discepolo di don Luigi Giussani è uno dei responsabili nazionali di Cl. Fra le sue pubblicazioni:
“Dalla parte della ragione. Questioni metafisiche” (Itaca, 1997),
“Moralità e felicità. Appunti di etica” (Itaca, 1995).
Tra le altre cose ama la montagna e la musica classica.

martedì, agosto 15, 2006

Rosa Mystica



«La Madonna è il fiore più bello che si sia mai visto nel mondo spirituale.
E' per la potenza della grazia di Dio che da questa terra, arida e desolata, sono spuntati tutti i fiori di santità e di gloria. E Maria è la loro Regina. Per questo è chiamata 'la Rosa': perchè la rosa è giustamente ritenuta come il fiore più bello dei fiori.

Ma c'è ancora di più: Maria è la Rosa mistica , o nascosta, poichè mistico vuol dire appunto nascosto.

In che modo Maria è «nascosta» a noi più degli altri santi?
Qual è il valore di questo singolare titolo che noi applichiamo a lei in maniera speciale?

La risposta a questa domanda ci introduce a considerare un terzo motivo, che giustifica la riunione del sacro corpo di Maria alla sua anima e la sua Assunzione al cielo subito dopo la morte, prima della risurrezione generale dell'ultimo giorno. Ed è questo: se il suo corpo non fosse in cielo, dove sarebbe ora? Come si spiega il fatto che il luogo dove potrebbe trovarsi ci rimane sconosciuto? Perchè non sentiamo parlare del suo sepolcro come se fosse in un posto ben determimato? Perchè non vi si fanno pellegrinaggi? E perchè non non vi sono reliquie di lei come se ne trovano degli altri santi?

Un istinto naturale ci fa riverenti verso i luoghi dove i nostri morti sono seppelliti. Noi seppelliamo i grandi uomini con molto onore.
San Pietro parla del sepolcro di Davide, ben conosciuto ancora ai suoi giorni, benchè fosse morto diversi secoli prima. Quando Nostro Signore venne deposto dalla croce, fu messo in una tomba preziosa. Grande onore era tributato alla tomba di San Giovanni Battista, come risulta dalla testimonianza di San Marco che ne parla come di luogo universalmente conosciuto.
Fin dai tempi antichi i cristiani di tutta la terra si sono recati a Gerusalemme a venerare i luoghi santi. E quando finirono le persecuzioni, essi prestarono un culto speciale ai corpi dei martiri e dei santi come avvenne per santo Stefano, San Marco, San Barnaba, San Pietro e San Paolo, e per gli altri apostoli e martiri. Li portavano nelle più grandi città,li esponevano alla venerazione pubblica e ne mandavano le reliquie alle varie comunità cristiane.

Fin dall'inizio una grande caratteristica della Chiesa è stata quella di essere devota e riverente verso i corpi dei santi. Ora, se ce n'era uno che doveva esser maggiormente venerato e amato, era il corpo della Beata Vergine. E allora perchè non sappiamo nulla di esso e delle sue reliquie?
Perchè ella è veramente la Rosa nascosta.

E' concepibile che coloro, i quali furono tanto premurosi e riverenti verso i corpi dei santi e dei martiri, abbiano dimenticato il corpo di colei che è la Regina dei martiri e dei santi, e la Madre del Signore?
Ciò è impossibile.

Perchè allora Maria è la Rosa nascosta?

Solamente e certamente perchè il suo sacro corpo non è più in terra ma in cielo.»

[Venerabile John Henry Cardinal Newman;
"Meditations and Devotions"]

sabato, agosto 12, 2006

Scienza Infusa /2

Ovvero:I libri che non lessi

Un Romanzo sull'11 settembre... 1683


"Imprimatur":
è un romanzo storico che ruota intorno agli intrighi veri e presunti che portarono alla battaglia che il 12 settembre 1683 liberò Vienna dall'assedio degli eserciti ottomani. Gli autori sono due coniugi giornalisti italiani, Rita Monaldi e Francesco Sorti e che abitano proprio a Vienna.

Il romanzo è stato pubblicato nel 2002 ed io ne venni a conoscenza grazie alla recensione fattane dal mensile "30 Giorni" ma -oimè!- ho sempre dilazionato l'acquisto del tomo nonostante la mia antica devozione per il Beato Innocenzo XI.



Il romanzo principia nell'anno di Grazia 2040 quando al Vescovo di Como, Lorenzo Dell’Agio, viene notificato che il Pontefice regnante, essendo passato quasi un secolo dalla beatificazione decretata da Pio XII, vuole imprimere un'accellerazione al processo di canonizzazione del secentesco papa comasco Innocenzo XI Odescalchi.

Il vescovo di Como si ricorda a quel punto, che una quarantina di anni prima, intorno all'anno 2000, quand'era un giovane parroco di periferia a Roma, aveva conosciuto una coppia di giovani giornalisti che gli regalarono un manoscritto che narrava di oscuri eventi accaduti durante il pontificato di Innocenzo XI. Storie di intrighi politici e congiure che se fossero state divulgate avrebbero condizionato la decisione vaticana sul procedere o meno alla canonizzazione.

« ... Veniamo ai documenti inediti su Innocenzo XI

MONALDI e SORTI: La causa di beatificazione di questo Papa inizia dopo la sua morte, poi si blocca per secoli, fino a quando, nel 1956, viene finalmente beatificato. A bloccare per lungo tempo questa causa sono state, tra l’altro, proprio le voci che vedevano in lui uno dei finanziatori, se non il principale finanziatore, del golpe che nel 1688 ha portato al potere gli Orange e ha consegnato agli eretici l’Inghilterra.
Nelle nostre ricerche storiche abbiamo rintracciato documenti inediti che provano questo legame che si è sempre voluto negare. D’altronde è comprensibile: per la Chiesa riconoscere che un Papa aveva finanziato degli eretici contro i cattolici Stuart… Né d’altro canto questo legame poteva far piacere agli inglesi, che vedono in Guglielmo d’Orange una sorta di padre della patria.

E quali sarebbero questi documenti originali?

MONALDI e SORTI: Anzitutto i libri mastri della casa Odescalchi, la famiglia di Innocenzo XI, che svolgeva attività bancaria. In questi libri sono annotate tutte le transazioni finanziarie effettuate. Leggendoli con attenzione abbiamo notato che ingenti somme sono andate a finire, tramite vari intermediari, come i veneziani Cernezzi e Rezzonico, nelle casse degli Orange. Inoltre abbiamo rintracciato anche la documentazione cifrata che riguarda la vicenda del principato degli Orange.
In estrema sintesi, alla morte di Innocenzo XI, quando ormai gli Orange sono padroni della lontana Inghilterra, questo principato chiede al papato di passare sotto la giurisdizione pontificia e ciò proprio per porre fine al pesante drenaggio fiscale che su quella popolazione si stava effettuando per ripianare i debiti contratti dagli Orange con il Papa precedente. Offerta che ovviamente il successore di Innocenzo XI, Alessandro VIII, respinge perché troppo imbarazzante. Tra l’altro siamo rimasti molto sorpresi nello scoprire che il principato degli Orange era a ridosso dei possedimenti pontifici di Avignone, anzi questi ultimi erano una specie di enclave al suo interno ...»

sabato, agosto 05, 2006

venerdì, agosto 04, 2006

I Libri dello spiritoso cristiano /2

Eudocia Augusta
STORIA DI SAN CIPRIANO
207 pp. Adelphi, euro 13

[Recensione apparsa su "il Foglio " del 13 Giugno 2006]

Un’agiografia molto speciale questa di san Cipriano, un po’ perché l’accento è posto più sulle sue doti di mago esperto in rituali satanici, che nella sua conversione e conseguente martirio, ma soprattutto perché a raccontarcela è un’imperatrice d’Oriente del V secolo. A parte Saffo, di donne nella letteratura greca non ne conosciamo quasi, incuriosisce quindi trovarci di fronte a Eudocia Augusta, donna di potere e raffinata e sensibile poetessa.

Fa anche impressione leggendo la “Storia di san Cipriano” sentire la cadenza degli esametri, la struttura delle frasi, i paragoni, gli attributi che richiamano l’“Iliade” e l’“Odissea”, mentre invece si parla di angeli e demoni, di Dio e di Lucifero, di perfidia e redenzione, della forza della fede che vince ogni ostacolo.
La sensibilità di Eudocia poi non è affatto classica, ma piuttosto ellenistica, con un’attenzione particolare agli stati d’animo, alle esitazioni, ai turbamenti psicologici e una conoscenza e fascinazione per i culti misterici.

Il Libro I si apre con la storia di una pudica fanciulla di nome Giusta che vive nella veneranda città di Antiochia che , “trafitta nell’animo dall’amore per Dio”, si converte al cristianesimo.
Aglaide, ricco e scellerato, si innamora della fanciulla, ma lei ha per unico sposo Cristo Signore. Così il giovane chiede aiuto a “un uomo malefico, maestro dell’empia magia, Cipriano”.
Il mago è a sua volta preso dalla soave Giusta ed evoca un demone brutale. “Tu dimmi se è in tuo potere condurla al mio letto, perché la desidero tremendamente”. La vergine casta canta le lodi di Dio e respinge nel suo nome l’infame.

Cipriano chiama a sé demoni sempre più potenti, ma tutti fuggono tremando, finché anche lui è vinto dalla forza della fede, si converte, diventa vescovo e fa di Giusta la “madre di tutte le fanciulle in fiore, ministre di Cristo grande”.

Nel Libro II Cipriano racconta la sua storia in prima persona ed è molto più appassionante, “nessun uomo al mondo fu più miscredente di me”. Da Apollo ha appreso i rituali della bestia che procede sul ventre, il serpente; vive con gli dei sull’Olimpo; “i miei genitori infatti desideravano ardentemente che io venissi a conoscere tutto ciò che esiste sulla terra, per l’aria e nel mare”. A Menfi vede la terra vessata da demoni; vede la figura della lussuria, sanguinante, fatta di fegato e sperma; la gelosia, l’invidia, la menzogna, l’ingordigia, tutte terrifiche con attributi assolutamente calzanti e immaginifici.
Cipriano, che diventa pupillo del Diavolo e ne invoca il potere per sedurre la casta, sublime fanciulla, è il prototipo del Faust.

giovedì, agosto 03, 2006

Scienza Infusa /1

Ovvero: I libri che non lessi.

"Il giovane Caravaggio in Lombardia"



Costanza Colonna era la secondogenita di quel Marc'Antonio Colonna che nel 1571 comandò la flotta papale nella vittoriosa battaglia di Lepanto e che Filippo II nel 1577 nominò Vicerè di Sicilia.
A tredici anni Costanza si trovò ad essere una pedina dell'alta diplomazia. Si intavolarono, infatti, le trattative per il matrimonio della principessina figlia del Vicerè di Filippo II con il diciassettenne marchese Francesco Sforza.
I principi Colonna - araldicamemte parlando - non ci guadagnavano nulla da questo matrimonio poichè oramai gli Sforza a Milano contavano ben poco; e il futuro sposo era addirittura appartenente ad un ramo cadetto! Però questi Sforza "di seconda classe" erano i Signori del marchesato di Caravaggio: un territorio che visto sotto l'aspetto della strategia politica e militare era inportantissimo.

Colonna esitò in un primo tempo anche per la giovinezza della figlia «d’età sì tenera», come scrisse in una lettera al cardinale Alessandro Sforza, che si era fatto tramite di suo nipote Francesco. Ma dovette sciogliere tutte le sue riserve quando nella partita entrò anche il cardinale di Milano, Carlo Borromeo, che si fece convinto sponsor di quel matrimonio. Così, quando il 21 ottobre 1568 la ragazzina partì a bordo di una galera alla volta di Genova, il padre fece partire una lettera indirizzata al Borromeo, in cui esponeva tutte le sue inquietudini: «Donna Costanza mia figlia se ne viene a marito, et certo sento infinitamente questa sua lontananza, per esser così giovinetta, pur mi vo consolando la presentia di Vostra Signoria Illustrissima in Milano, dove so che mirerà per lei et ne terrà proportione». Puntualmente il cardinale, il 9 novembre, dava notizia a Marcantonio dell’arrivo della figlia a Milano: «La Signora Donna Costanza nostra giunse qua iersera, et io l’ho vista...»
...

Ma Michelangelo Merisi come entra invece nell’orbita della marchesa Costanza?

Il 14 gennaio 1571 a Caravaggio vennero celebrate le nozze di Fermo Merisi e Lucia Aratori (proprio Fermo e Lucia, come Manzoni – senza nulla sapere di questa vicenda solo ora ricostruita – chiamò inizialmente i protagonisti dei suoi Promessi sposi!).
Per quanto Fermo fosse un semplice muratore, al matrimonio, come attestano i documenti, fu presente, in qualità di testimone, anche il marchese Francesco.

Il 29 settembre, giorno di san Michele Arcangelo, nacque il loro primogenito, che per questo venne chiamato Michelangelo. Nacque probabilmente a Milano, dove Fermo lavorava e dove aveva casa vicino a San Vito in Pasquirolo. Ma nel 1577 l’intera famiglia era certamente tornata a Caravaggio per sfuggire alla peste che aveva colpito Milano e che Fermo non riuscì comunque a scansare: morì infatti il 20 ottobre di quello stesso anno.
Toccò così a Lucia farsi carico dei figli sopravvissuti: Michelangelo, appunto, e poi Giovan Battista e Caterina. E qui iniziano a infittirsi gli indizi di un primo contatto tra il futuro artista e la marchesa di Caravaggio. Innanzitutto il nonno materno, Giovan Giacomo Aratori, era stato nominato procuratore della famiglia Colonna-Sforza. In secondo luogo la zia Margherita (sorella della mamma di Michelangelo) era l’affezionatissima balia dei figli di Costanza: si conservano tante lettere piene di tenerezze tra lei e la marchesa. In terzo luogo a Caravaggio, su indicazione di san Carlo (ne parla lui stesso in una lettera del 18 gennaio 1570), era stata «introdutta la schola di dottrina cristiana... e la Marchesa va lei medesima a insegnarla».

Giacomo Berra, l’autore del libro da cui stiamo attingendo le notizie per questa storia del giovane Caravaggio, ne conclude che «è una notizia particolarmente interessante in quanto si potrebbe ipotizzare che qualche anno dopo la stessa Costanza abbia esposto al giovanissimo Michelangelo gli elementi fondamentali della dottrina cristiana».

Possiamo solo immaginare quale fosse la vita di un borgo che aveva nell’agricoltura la sua prima ricchezza, ma che viveva anche attorno a quel santuario che godeva di sempre maggior devozione e popolarità.
Nel 1571 sempre il Borromeo ne aveva ordinato il rifacimento per avere una chiesa più degna. Il progetto venne affidato al suo architetto di fiducia, Pellegrino Tibaldi; ma il cantiere che s’incaricò di realizzare l’opera monumentale era quello di Bartolomeo Merisi e Fermo Degano. Il primo era zio di Michelangelo: il quale, da ragazzino, è assai presumibile – essendo figlio di muratore – che abbia lavorato per qualche tempo agli ordini di Bartolomeo tra le mura del nuovo grande santuario (che è poi quello che ancor oggi è in piedi).
Comunque nel 1584 il Caravaggio prende un’altra strada: va come apprendista a Milano nella bottega di un pittore, Simone Peterzano. Nella scelta probabilmente entrò in gioco anche l’architetto di san Carlo, Pellegrino Tibaldi...


La tesi del libro di Giacomo Berra è che la Signora Marchesa si sia sempre interessata del giovane Michelangelo Merisi e che, con somma discrezione, lo abbia sempre patrocinato come nel caso del primo viaggio a Roma del pittore nell'estate del 1592. Quell'estate anche la marchesa Costanza si trovava a Roma. La prima sistemazione romana del pittore fu presso monsignor Pandolfo Pucci da Recanati: un amico dei Colonna.


"Ma gli interventi di Costanza si rivelarono ben più preziosi quando la vita di Caravaggio prese la piega drammatica dettata dal suo “cervello stravagantissimo”.

Il 29 luglio 1605, dopo il primo fatto di sangue di cui si era reso colpevole, era fuggito a Genova e qui aveva trovato rifugio e lavoro presso la famiglia Doria, cioè una famiglia legata strettamente ai Colonna.
Tornato a Roma, Caravaggio l’anno successivo si rese responsabile di un fatto ancor più grave, l’omicidio, commesso il 28 maggio, di Ranuccio Tomassoni. Per evitare la condanna fuggì da Roma trovando rifugio nel principato di Paliano, feudo dei Colonna e già proprietà del padre di Costanza (qui tra l’altro Caravaggio dipinse la Cena in Emmaus oggi conservata a Brera). E i documenti confermano che la marchesa Costanza sino al 18 ottobre di quel 1606 si era certamente fermata a Roma...

E per quale motivo poi Caravaggio nella sua fuga da Roma, lasciando Paliano, si dirige verso Napoli?
Perché sapeva di poter contare su appoggi affidabili e potenti: in particolare quello di Luigi Carafa Colonna, nipote di Costanza. La quale, puntuale, si fa trovare a sua volta a Napoli, dove è documentata la sua presenza il 14 giugno 1607.

E come va Caravaggio da Napoli a Malta proprio nel giugno 1607?
Viaggiando sulla galera di Fabrizio Sforza, figlio di Costanza, e cavaliere dell’Ordine di Malta.

Infine c’è l’atto finale, quel drammatico viaggio del 1610 da Napoli alla volta di Roma che si sarebbe concluso con la sua morte.
Nell’ottobre 1609 Caravaggio, tornato di nuovo a Napoli, era stato ferito gravemente davanti all’Osteria del Cerriglio. Per sfuggire ai suoi sicari, come documentano alcune lettere ritrovate nell’Archivio Segreto Vaticano da Vincenzo Pacelli, si sarebbe rifugiato nel palazzo Carafa Colonna di via Chiaia, lo stesso dove alloggiava con il suo seguito la marchesa Costanza. Fu lei a far da tramite con papa Paolo V per ottenere la grazia per il pittore? Non ci sono prove. Ma certo Caravaggio intraprese il viaggio fatale dell’estate del 1610 nella convinzione di poter contare ancora una volta su una mano potente che aveva sistemato i suoi pasticci."
Sempre quella marchesa di Caravaggio che secondo il Cappaccio, un cronista dell'epoca, voleva affidare al suo talentuoso suddito la decorazione della chiesa di Sant’Anna dei Lombardi a Napoli.

E' bello scoprire che di queste vicende poco note ma tanto appassionanti Rai Fiction si proponga di farne opera di divulgazione. Peccato che la divulgazione sia sempre più intesa come volgarizzazione: per cui gli intensi rapporti vassallatici che legano la marchesa e il pittore suo suddito, dalla fiction prodotta dalla Rai sulla vita di Caravaggio , vengano banalizzati e "giustificati" da un legame amoroso tra la nobildonna ed lo scapigliato artista bohemien .