giovedì, dicembre 28, 2006

Historia Ecclesiastica Anglorum, III


Propongo ai piissimi lettori un lunghissimo articolo di Roberto Persico (il Foglio; 6 luglio 2006)che ripercorre la vita del Venerabile cardinal Newman.


La notizia era tutt’altro che inaspettata; ma suscitò ugualmente notevole scalpore: il reverendo dott. John Henry Newman, canonico di Oxford era passato nelle file di Roma.

Enfant terribile della teologia anglicana, da tempo i suoi sermoni erano al centro delle controversie religiose – e culturali, e politiche – del mondo britannico. Da tempo molte delle sue tesi erano sospettate di cedimento al nemico papista. E il 9 ottobre 1845 Newman fece il grande passo.

Il suo nome aveva cominciato a circolare agli inizi degli anni Trenta.

Era nato a Londra il 9 febbraio del 1801. Suo padre era stato un banchiere di discreto successo, prima di fallire e dedicarsi alla distillazione della birra. Sua madre, di antica famiglia ugonotta, lo aveva cresciuto nella lettura della Bibbia. Verso i quattordici anni il ragazzino – sveglio e precoce – aveva letto pagine di Thomas Paine, David Hume e forse Voltaire, ed era stato attratto dalla loro incredulità.
Era stato il suo professore di greco e latino, il reverendo Walter Myers, a rinsaldare le sue convinzioni religiose; ma con le tesi dello scetticismo illuminista avrebbe fatto i conti per tutta la vita.
Nel 1817 era riuscito a entrare al Trinity College a Oxford – uno dei santuari della teologia anglicana – e nel 1825 era diventato pastore della chiesa d’Inghilterra.
Dominava allora la scena culturale il gruppo detto dei “noetici di Oxford”. La sfida, s’è accennato, era il razionalismo d’origine settecentesca, con la sua serrata critica a dogmi, miracoli, rivelazioni e affini. I “noetici” s’erano accodati, pensando di difendere il cristianesimo depurandolo di tutto ciò che non fosse razionalmente sostenibile; erano approdati a una concezione che ben s’accordava con “La ragionevolezza del cristianesimo” del venerato John Locke, “una religione naturale governata da un sovrano saggio e prudente, e priva di mistero”.

Inevitabilmente, il giovane Newman viene coinvolto nella congrega; ma già nel 1826 ne prende le distanze. Pronuncia infatti in quell’anno il primo della serie di “Sermoni universitari“, che costituiscono oggi la prima parte del volume dedicato ai suoi “Scritti filosofici” dall’editore Bompiani (seguono il “Quaderno filosofico”, una collazione di appunti su argomenti vari, e la fondamentale “Grammatica dell’assenso”).

Nel “Sermone” predicato il 2 luglio 1826 nella chiesa universitaria dedicata a St. Mary the Virgin abbozza dunque il giudizio sul suo tempo e il campo di ricerca nei decenni a venire. “Il cristianesimo è stato rappresentato come un sistema che ostacola la strada del miglioramento in politica, nell’educazione e nella scienza; come se fosse stato adatto alla condizione della conoscenza, e avesse contribuito alla felicità, nell’età in cui fu introdotto, ma fosse un vero e proprio male in tempi più illuminati”, per cui oggi molti “sembrano considerare gli interessi del genere umano del tutto inconciliabili con quelli della chiesa cristiana; e benché pensino sia indecoroso o insensibile attaccare apertamente la religione, tuttavia sembrano attendere fiduciosamente che il progresso delle scoperte e il generale avanzamento dello spirito umano debbano risolversi nella caduta del cristianesimo”. Al contrario, ribatte, la filosofia e la scienza moderne sarebbero impensabili senza la tradizione cristiana. Perché “la scienza e la Rivelazione concordano nel supporre che la natura sia governata da leggi uniformi e stabili. La Scrittura, se interpretata correttamente, è decisiva nell’eliminare tutti quegli elementi di irregolarità che si suppone che interrompano a loro piacimento l’ordine della natura”, cioè le svariate divinità capricciose che popolano le altre cosmologie. E perché “benché sembri così ovvia la posizione secondo la quale nel formare una seria teoria sulla natura, dobbiamo iniziare dall’indagine, escludendo la speculazione immaginaria o la deferenza all’autorità degli uomini, non fu generalmente conosciuta o accettata come tale finché un filosofo cristiano non la impose all’attenzione del mondo. E sicuramente egli fu sostenuto dall’uniformità del linguaggio di tutta la Bibbia, che ci dice che la verità è cosa troppo sacra e religiosa per essere sacrificata alla mera gratificazione dell’immaginazione o al divertimento della mente”. Ciononostante, scienza e religione oggi sembrano andare ciascuna per conto suo; “perché [questo male] non aumenti, dobbiamo guardare a quella primitiva educazione religiosa alla quale non ci può essere dubbio che tutte le persone dovrebbero sottomettersi”.
Negli anni seguenti, Newman si dedica anima e corpo – letteralmente – a ritrovare “quella primitiva educazione religiosa”, vale a dire allo studio accanito dei Padri. Si appassiona così alla tradizione della chiesa delle origini, prima delle lacerazioni che hanno segnato la sua storia moderna. Comincia a domandarsi se nel ritorno a quelle fonti non sia possibile ritrovare un’unità. Fra il 1832 e il 1833 compie un lungo viaggio nel Mediterraneo: Malta, Grecia, Corfù, Napoli, Roma. In Sicilia si ammala gravemente e sembra in punto di morte; poi si riprende, si imbarca per Marsiglia, attraversa la Francia in carrozza a tappe forzate. “Ho un lavoro da fare in Inghilterra” ripete. Dal soggiorno riporta a casa una severa repulsione per gli aspetti superstiziosi del cattolicesimo latino; ma anche ammirazione per la serietà dei seminari romani o per la semplicità e la bellezza della partecipazione del popolo alla liturgia. Pochi giorni dopo il suo rientro a Oxford, un sermone predicato dal suo amico John Keble, “Apostasia nazionale”, dà il via a quello che diventerà il “Movimento di Oxford”.

Due sono i bersagli del discorso di Keble, condivisi da una cerchia di giovani chierici: il liberalismo teologico – la riduzione della fede a sentimento religioso, privo di qualsiasi contenuto dottrinale vincolante – e la sottomissione della chiesa anglicana al governo – inevitabile conseguenza: se la religione non ha contenuto, è lo stato che ne detta le regole. L’obiettivo dei teologi è ambizioso: restituire al credo cristiano un saldo fondamento, rivendicare l’autonomia dalla politica, rispondere alle sfide del positivismo incombente.

Newman diventa rapidamente il leader riconosciuto del gruppo; i “Sermoni” che inizia a predicare regolarmente nella chiesa di St. Mary un punto di riferimento per molti. “Nessuno che abbia ascoltato i suoi sermoni”, ricorda un frequentatore assiduo, “può dimenticarli. Di rado erano direttamente teologici. Newman parlava a noi di noi stessi, delle nostre tentazioni, delle nostre esperienze. Sembrava rivolgersi alla coscienza più segreta di ciascuno di noi – come gli occhi di un ritratto sembrano guardare ogni persona in una stanza. Un tono non di timore, ma di infinita pietà, correva fra tutti”.

“L’atteggiamento di Newman dal pulpito” rincara un autorevolissimo uditore, William Ewart Gladstone, nonancora primo ministro ma già deputato ai Comuni “era tale che, a considerarne i diversi aspetti separatamente, non si arriva a una conclusione soddisfacente. C’era poca enfasi nella voce e nessuna teatralità; i sermoni venivano letti, e quasi non alzava gli occhi dal testo. Eppure, se consideravi l’uomo nell’insieme, c’era in lui come un timbro, un sigillo; una solenne dolcezza e una musica nel tono; un’unità nella figura, nell’atteggiamento, che rendeva il suo modo di porsi singolarmente affascinante”.
Filo conduttore delle riflessioni il rapporto tra fede e ragione. Il quarto è diretto contro “le usurpazioni della ragione”, che non può essere che al servizio della fede. Ma gradualmente la sua posizione si sviluppa verso una nozione più ampia del concetto di ragione. Nel decimo distingue la fede come principio di azione, di condotta della vita, dalla ragione come strumento di riflessione.
La settimana seguente spiega che la fede è “il ragionare di uno spirito religioso, che agisce in base a supposizioni piuttosto che a prove, che specula e rischia sul futuro di cui non può essere certo”: “la fede è un atto della ragione”, che in un campo dove non è possibile avere certezze categoriche si basa sulle conclusioni più probabili, che vengono verificate non dalla logica ma nella vita.

Nel 1841 il primo ministro Robert Peel propone l’istituzione di conferenze pubbliche per l’educazione delle masse, in cui vengano illustrate le nuove scoperte scientifiche, la cui meraviglia susciterà una fede non confessionale nell’Architetto dell’Universo. Newman reagisce veementemente: “Il cuore è colpito non dalla ragione ma dall’immaginazione, dalla testimonianza di fatti ed eventi, dalla storia, dalle descrizioni. Siamo influenzati da una persona, affascinati da una voce, soggiogati da una cosa vista, infiammati da un’azione. Molti uomini possono vivere e morire per un dogma; nessuno accetterà il martirio per una conclusione. Una conclusione non è che un opinione. La logica non è che una triste retorica; è più facile far quadrare un cerchio che convertire con un sillogismo”.

La polemica tiene banco sulle prime pagine del Times per settimane. Nel frattempo si sviluppa la riflessione sul rapporto tra chiesa d’Inghilterra e cattolicesimo, affidata a una serie di pamphlet, “Tracts for the Times”. Nei primi, l’anglicanesimo viene indicato come una “via media” tra gli eccessi – teologici, morali, liturgici – dei “papisti” e gli altrettanto eccessivi rigori protestanti; ma poco a poco gli oxonensi inclinano sempre più verso Roma.

L’ultimo dei “Tracts”, che propone una lettura cattolica dei Trentanove Articoli, il
cuore della professione di fede anglicana, suscita un pandemonio. Per evitare una condanna formale, Newman sospende le pubblicazioni, e si ritira a Littlemore, a poche miglia da Oxford, in una reclusione quasi monastica. Approfondisce i suoi amati studi patristici, e realizza che le “vie medie” non hanno mai avuto grandi argomenti: né i quasiariani, né i monofisiti moderati avevano solidi fondamenti. Le ragioni stavano dalla parte dell’ortodossia.

Nel febbraio 1843 pronuncia l’ultimo “Sermone anglicano”, su “La teoria degli sviluppi nella dottrina religiosa”. Contro la teologia protestante che riconduce il contenuto della Rivelazione alla “sola scriptura”, “le mezze frasi del Vangelo” afferma “la sua sovrabbondanza linguistica, ammettono uno sviluppo, hanno una vita loro che si mostra in progresso”.

La dottrina della Trinità, la devozione alla Vergine, il culto dei santi, la fede nel purgatorio non sono aggiunte arbitrarie, ma lo sviluppo coerente di una verità inesauribile che comprende sempre più a fondo se stessa.

E’ aperta la strada per abbracciare la fede cattolica. Newman però vuole essere ben
certo di quello che fa. Occorreranno altri due anni di meditazione e preghiera prima che chieda di ricevere il battesimo secondo il rito romano.
Diversi suoi compagni di studi lo seguiranno. Dopo un breve soggiorno a Roma, fonderà in Inghilterra un “Oratorio” dell’ordine di san Filippo Neri.

Neanche in casa cattolica avrà però vita facile.
Nel 1859 pubblica un articolo “Sulla consultazione dei fedeli in materia di dottrina”, dove ricorda che nella grande controversia ariana del IV secolo la maggioranza dei vescovi aveva ceduto all’eresia; solo la solida, semplice fede del popolo aveva permesso all’ortodossia di resistere. Parla del passato, ma si rivolge al presente, ai tanti vescovi che flirtano con le ideologie alla moda.

Non è un testo fatto per attirargli simpatie.
Per i suoi scritti sullo sviluppo della dottrina viene denunciato alla Santa Sede per “liberalismo”. Sono gli anni cruciali in cui il termine è sinonimo di “empio”, “infedele”.

Nel 1864 esce il “Sillabo” che condanna “gli errori dell’epoca moderna”. Il dibattito che segue è infuocato. Lord Acton, paladino del cattolicesimo liberale, gli rimprovera di avallare un dogmatismo cieco; Newman replica proponendo una lettura minimalista – pur rispettosa – del testo, e riconoscendo che il Papa potrebbe esercitare la sua missione anche senza lo Stato del Vaticano. Al che il cardinale Manning – un altro grande convertito – deplora la sua scarsa lealtà verso la Santa Sede.

Un polemista protestante lo accusa di infischiarsene della verità. La replica di Newman è l’“Apologia pro vita sua”. Tutti i cambiamenti di cui lo si rimprovera, scrive, dipendono proprio e solo dall’amore per la verità: non si è mai accontentato finché non ha trovato quel che cercava.
Il libro suscita a Roma grande apprezzamento, e l’autore è invitato a partecipare ai lavori in vista del Concilio. Newman tergiversa: c’è a tema l’infallibilità, e lui è perplesso. Finisce per declinare l’offerta, con il motivo che sta lavorando a un nuovo libro.
Nel 1870 il Vaticano I proclama l’infallibilità del Papa; quando legge la formulazione del dogma, Newman tira un sospiro di sollievo, perché è rigorosamente circoscritto, e lo difenderà sempre a viso aperto.

Lo stesso anno esce il “Saggio in aiuto a una grammatica dell’assenso”, dove la riflessione sulla ragionevolezza dell’atto di fede viene sviluppata sistematicamente.

L’assenso che prestiamo alle verità di fede – spiega Newman – non è che un caso particolare di come ciascun uomo abitualmente ragiona. Quasi tutto ciò che un uomo comune sa, infatti, e soprattutto ciò in base a cui orienta la sua vita, non è conosciuto secondo i metodi della logica o della scienza. Queste non sono il paradigma di ogni conoscenza, ma casi particolari da applicare nel proprio ambito. Sul fatto che la Gran Bretagna sia un’isola, che siano esistiti i classici latini, che dovremo morire – prosegue – la maggior parte di noi non ha certezze “scientifiche”, basate su prove dirette e dimostrazioni inconfutabili, ma certezze o evidenze che definisce “morali”: fondate su un’infinità di molteplici fattori, troppo complessi e sottili per essere ridotti a sillogismi, nessuno dei quali da solo sarebbe sufficiente a suscitare l’assenso; ma la cui molteplicità e “convergenza” verso un unico punto diventa fonte di una certezza più forte e impegnativa per la vita di qualsiasi conoscenza scientifica.

“La dimostrazione per una certezza morale è un complesso di indici il cui unico senso adeguato, il cui unico motivo adeguato, la cui unica lettura ragionevole è quella certezza” ripeterà instancabilmente un secolo più tardi don Luigi Giussani a migliaia di studenti, riprendendo pressoché alla lettera la formulazione newmaniana.



Nel 1879 Leone XIII gli impone la porpora cardinalizia.
Nel discorso di accettazione, Newman riassume il senso di tutta la sua opera nella “lotta contro il liberalismo” (dove il termine ha, evidentemente, un’accezione totalmente religiosa): “Il liberalismo in religione è la dottrina secondo cui non esiste verità positiva in religione, ma un credo vale l’altro e questa è la dottrina che sta acquistando forza e sostanza nei nostri giorni. Essa è incompatibile con qualsiasi riconoscimento di qualsiasi religione come vera. Essa insegna che tutto deve essere tollerato, perché tutto è opinabile. Religione rivelata non è verità, ma un sentimento e un gusto, non un fatto oggettivo, non un fatto miracoloso; ed è diritto dell’individuo di fargli dire solo quello che colpisce la sua fantasia”.

Così ebbe a commentare quasi cent’anni dopo Paolo VI: “Molti dei problemi che Newman affrontò con saggezza – anche se fu spesso malcompreso e male interpretato – sono stati l’oggetto della discussione e dello studio dei Padri del Concilio Vaticano II. Non solo il Concilio, ma anche il tempo presente può essere considerato in modo speciale ‘l’ora di Newman’”.

Non aveva tutti i torti.

1 commento:

Duque de Gandìa ha detto...

Aaaameeeen!:)