mercoledì, gennaio 31, 2007

CASTRUM DOLORIS, VI

Ovvero: "Attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa". (Paolo VI)



Come ognun saprà delle cinque porte bronzee della Basilica Vaticana soltanto quella centrale è antica: opera del Filarete commissionata a Firenze da papa Eugenio IV a metà del XV secolo e destinata alla precedente basilica tant'è vero che, regnando Paolo V Borghese, furono fatte delle aggiunte in basso ed in alto per adattare la porta alle nuove dimenzioni degli ingressi della basilica michelangiolesca.

I battenti delle altre porte erano in legno. Solo nel XX secolo sono state sostituite con artistici battenti di bronzo. Nel Giubileo del 1950 i fedeli svizzeri donarono a Pio XII la "Porta Santa" opera di Vico Consorti. Giovanni XXIII commissionò a Giacomo Manzù la "Porta della Morte" e regnando Paolo VI fu eseguita quella detta "dei Sacramenti" opera di Venanzio Crocetti (inaugurata da Paolo VI il 12 settembre 1965) e per ultima quella detta "del Bene e del Male" commissionata direttamente da Papa Paolo VI al maestro Luciano Minguzzi, considerato dalla critica uno dei maggiori scultori del Novecento e inaugurata nel settembre del 1977.

Tra i vari pannelli della porta "del Bene e del Male" quello commemorativo del «Concilio Ecumenico Vaticano II» fu poco tempo dopo sostituito.

Nel bassorilievo bronzeo originale figuravano sei prelati seduti: ad un estremo Giovanni XXIII, che inaugurò il Concilio , poi quattro vescovi -o cardinali di cui uno di rito bizantino- ed a chiudere la teoria Papa Montini che chiuse il Concilio Vaticano II. Mentre papa Giovanni e gli altri quattro Padri conciliari erano stati raffigurati con il corpo ed il viso rivolti in avanti, Paolo VI (l’ultimo a destra) era invece modellato di profilo, in modo da presentare, ben visibile, la Sua mano sinistra con incisa sopra una «Stella a cinque punte», o «Pentalfa massonico»!

Poco tempo dopo l’inaugurazione don Luigi Villa - come lui stesso riferisce - si recò da un cardinale per denunciare il fatto.
Dapprima quella insegna massonica sul dorso della mano sinistra di Paolo VI venne raschiata, poi, il pannello venne sostituito con un altro - l’attuale - sul quale, però, non compaiono più le sei figure di prima, ma solo cinque.


( Fonte: "l'orrido" Effedieffe)

lunedì, gennaio 29, 2007

Rosa mistica



Sive: Mater Boni Consili.

Sono l'una e mezza del mattino di lunedì 29 gennaio quando Silvio Berlusconi esce dall'ingresso principale del Teatro Sociale di Como porgendo il braccio alla novantaseienne madre Rosa Bossi in Berlusconi.
Immediatamente i giornalisti impugnano i microfoni e gli operatori si mettono in spalla le telecamere, dando l'inizio alla ressa mediatica. Silvio Berlusconi avanza sorridente stringendo a sè la -un pò disorientata- mammina e non si sottrae alla raffica di domande sull'attualità politica nazionale e locale, dovendo ogni tanto frenare l'impeto delle guardie del corpo che a forza di gomitate cercano di sbaragliare lo sbarramento dei cronisti.

Comunque il Cavaliere non ha mancato di sottolineare il motivo precipuo della sua presenza a Como:un galà di beneficienza in onore della madre Rosa in occasione del novantaseiesimo compleanno della matriarca del clan Berlusconi (ed infatti le offerte -a partire da 250 euro- dei cinquecento invitati alla cena erano devolute alla cura degli anziani).

Dulcis in fundo, davanti alle telecamere Berlusconi ha dato vita a un simpatico siparietto con l'emozionatissima madre al fine di dare saggio della vivacità mantale della quasi secolare genitrice: «Quanti baci mi prometti ogni giorno, quando ti telefono?»
«Tanti» ha risposto la signora Rosa.
Poi, il buon figlio ben lieto della lucidità della veneranda mamma Rosa ha bonariamente incalzato: «E quanti rosari dici ogni giorno per me?»
«Tre al giorno - ed ha aggiunto- adesso che vado a casa ne dico uno».
Al che Berlusconi ha riso sornione e, rivolgendosi agli ilari giornalisti che lo attorniavano , ha indicato il cielo: «Glielo dico sempre, guarda che lassù non sanno più dove metterle le tue preghiere». Poi approfittando della benevolenza dell'uditorio prosegue: «Le devo tutto: quella sera del ’93 nessuno voleva che scendessi in campo ma la mamma mi disse: se ci credi devi trovare il coraggio di farlo. Per questo sono in politica e mi ritirerò quando deciderà lei».

Mamma Rosa ha ringraziato commossa per tanto clamore sulla sua persona, dicendo: «Sono solo una mamma».

domenica, gennaio 28, 2007

venerdì, gennaio 26, 2007

AMICIZIA DI FERRO [2]



Mi piaceva scoprire quel lampo di stupore negli occhi di chi (quando ci trovavamo con persone nuove) chiedeva da quanto tempo ci conoscessimo: "Dalle ore 13 in punto di sabato 26 gennaio 2002" allora io rispondevo. E mi accorgevo anche della tua espressione sempre piacevolmente colpita.

M'hai sempre canzonatamente lodato per la costanza con cui ricordavo certe date "storiche", ma in realtà, non è che il conoscerti parvemi al momento un evento folgorante!
Anzi, al contrario, lo giudicai come un contrappasso per l'intima letizia provata nell'essere a pranzo proprio lì dove ho avuto la gioia di incontrare per la prima volta "Napul'è", "Pixi", "Cranio" etc....

Che pessima impressione mi avevi fatto!
Ma tanta era la gioia di quelle settimane, in cui tutte le mie aspirazione sembrava apparirmi incarnate in volti e mani tese verso me, che ero persino disposto a rivolgere un benevolo cenno del capo e un paziente sorriso anche a chi non appartenesse alla mia scelta rosa di eletti.

A pensarci bene, di quelle settimane travolgenti tu sei l'ultima "epifania" d'una lunga teorie di presenze senza le quali il mio oggi non sarebbe decifrabile.

Se solo, per il tempo di un sospiro, chiudo gli occhi: vi ritovo tutti, ad uno ad uno... Ognuno per me dolcemente inconfondibile come Santi che stringono in mano e protendono al mio sguardo l'arma del loro martirio...
Poi apro gli occhi.
E non mi riesce invece nè agevole (nè piaceviole) di rinverdire il ricordo del come, poi, tutto ha cominciato ad inaridire, ad offuscarsi e persino a dissolversi allo sguardo: tu in primis.

E allora :"Felice anniversario!" -con inopportuna ironia- dico a me stesso.
La mia punizione , il mio umiliante contrappasso, è la mia stessa fissazione per le ricorrenze "giubilari".


Post Scriptum: "SERE NERE"

giovedì, gennaio 25, 2007

...entre todas las Mujeres! [11]


Presso il Museo diocesano di san Giovanni Battista dei Fiorentini in Roma (via Acciaioli n.2) il 23 gennaio 2006 si è tenuta l'inaugurazione della mostra "Nostra Signora in America Latina" sponsorizzata dall'ambasciata della Repubblica Domenicana presso la Santa Sede nella persona dell'ambasciatore Joacquin Manrique Majo.

La mostra è una devota occasione per conoscere i santuari mariani più famosi del Sud America mercè le riproduzioni esposte delle pitture e sculture della Santissima Vergine più venerate dai cattolici sudamericani.
Ospite d'onore il cardinale Paul Poupard, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura per accogliere il quale la signora moglie dell'ambasciatore dominicano ha sfoggiato un compito abito nero. Invece, per non sfigurare di contro al porporato nella pia circostanza, la signora moglie dell'ambasciatore dell'Honduras ha indossato un rubicondo completo giacca e pantalone di foggia smaccatamente prelatizia!

[Tra gli altri ospiti di riguardo oltre all'ambasciatore d'Honduras presso la Santa Sede Alejandro Emilio Valladeres Lanza, degna di nota la presenza di Giulio Andreotti con la moglie Livia, don Luigi Veturi parroco di San Giovanni dei Fiorentini, mons Paul Prabhu della Segreteria di Stato, , il consigliere ecclesiastico dell'ambasciata di Francia presso la Santa Sede Yves Gouyou, l'ambasciatore di Spagna presso la Santa Sede Francisco Vasquez y Vasquez, mons Gabriele Caccia della segreteria di Stato, l'ambasciatore di Cuba presso la Santa Sede Isidro Gomez Santos, l'ambasciatrice d'Egitto presso la Santa Sede Nevine Simaika Halim Abballa, mons Pietro Parolin della segreteria di Stato.](Vatican Style)

mercoledì, gennaio 24, 2007

Sacra Conversazione /11

«Caro Martini, solo Dio può darci la morte»



Ovvero: Intervista di Andrea Tornielli a Sua Eccellenza Reverendissima Monsignor Alessandro Maggiolini (Il Giornale; mercoledì 24 gennaio 2007).

Parlare di eutanasia, del caso Welby e del dibattito suscitato dall’ultima uscita del cardinale Martini, con lui significa fare sul serio.
Alessandro Maggiolini, 76 anni, vescovo uscente di Como - domenica prossima [28 gennaio 2007, ndr] è previsto l’ingresso del suo successore, Diego Coletti - è una delle maggiori personalità dell’episcopato del nostro Paese, unico italiano nella commissione internazionale che ha redatto il nuovo Catechismo della Chiesa cattolica sotto la guida dell’allora cardinale Jospeh Ratzinger.
Da qualche anno ormai, Maggiolini non è più soltanto il prelato «controcorrente», poco amante del felpato e autoreferenziale linguaggio «ecclesialese», il vescovo che con largo anticipo su tutti ha denunciato i rischi di un’immigrazione selvaggia, l’ecclesiastico schietto e mai banale che ha scritto un libro per annunciare la fine della cristianità così come l’abbiamo concepita e vissuta fino a oggi.

Da qualche anno, a causa di un cancro al polmone e poi del morbo di Parkinson che l’ha praticamente immobilizzato in carrozzella, Maggiolini è un credente che fa quotidianamente i conti con la sofferenza. Un paziente di riguardo, che non nasconde la sua paura della morte e che trascorre ogni santo giorno quattro ore in confessionale, a incontrare i fedeli. «Tra persone che soffrono, basta un’occhiata per intendersi», sussurra con un filo di voce vescovo inchiodato alla carrozzina dallo stesso morbo che ha colpito Giovanni Paolo II e che affligge lo stesso cardinale Martini.

Che cosa pensa dell’articolo del cardinale sul caso Welby?

«Penso, in tutta sincerità, che un cardinale dovrebbe tacere oppure, se ha qualcosa da dire o da dissentire su certi argomenti, debba scrivere direttamente al Papa in modo riservato e personale, senza esporsi in una maniera pubblica. In fondo, il cardinalato non è un cavalierato, un titolo onorifico, ma il segno di una obbedienza particolarissima al Santo padre, fino al martirio. Ora, nessuno chiede di effondere il sangue, ma di tenerlo da conto sì».

Che cosa obietta, nel merito, a Martini?

«Premetto di aver detto, a suo tempo, che io i funerali religiosi a Welby li avrei celebrati.
Ho letto sui giornali che quest’uomo, negli ultimi istanti di vita, ha pregato. Se ciò è avvenuto, se davvero alla fine si è affidato a Dio, bisogna tener conto del fatto che basta un sospiro di richiesta di misericordia per riscattare una vita intera.
Il cardinale Martini, però, non tocca questo argomento, non parla di questa revisione morale della vita, ma entra nel merito della sospensione dei trattamenti che il malato non sopporta più o che provocano dolore... ».

Il dolore e il suo riverbero psicologico non sono elementi secondari.

«Il problema del dolore, attualmente, nella quasi totalità dei casi, è risolto grazie all’uso di potenti analgesici e anestetici che lo eliminano pur provocando spesso la perdita della coscienza del malato. Il problema, semmai, è proprio quello della persistenza della coscienza. Tanto che la Chiesa consiglia il paziente che sta per essere sottoposto a queste cure palliative, di mettere a posto prima le ultime volontà».

La sofferenza non più accettata non può essere un motivo per rifiutare le cure?

«La sofferenza, quando c’è, non è un motivo per smettere le cure. Semmai è un motivo per spingere ad aumentare le cure per far soffrire il meno possibile. Non riesco a capire che cosa significhi sospendere le cure e così permettere che uno muoia».

Martini ha parlato di eutanasia come di «un gesto che intende abbreviare la vita, causando positivamente la morte». E ha aperto alla sospensione delle cure, come prevede la legge francese.

«La differenza tra eutanasia cosiddetta “attiva” e quella “passiva” esiste già da almeno ottant’anni, non è una notizia da prima pagina. Si è sempre detto che un conto è ammazzare e un conto e lasciare che uno muoia. Dunque non mi sembra poi una gran scoperta. Il problema è che su questi argomenti così delicati, che ci toccano così da vicino e così nell’intimo, non si può discutere sulla base di formule teologiche astratte ma è necessario un confronto tra il teologo moralista - non il biblista - e il medico, cioè colui che sa che cosa sta capitando davvero nell’organismo di una persona».

Eppure la Chiesa, come dice no all’eutanasia, è altrettanto contraria all’accanimento terapeutico. Come lo definirebbe, lei, questo «accanimento»?

«L’accanimento inizia quando cure straordinarie e sproporzionate non garantiscono più speranza di miglioramento e la morte è comunque sicura. Vorrei però aggiungere che una cosa è sospendere la somministrazione di medicinali atti a contrastare il male, un’altra togliere al paziente le risorse per vivere. Per esempio, essendo l’aria è necessaria per vivere, non credo sia lecito toglierla staccando il respiratore. Il cibo così come l’idratazione non possono essere considerate “cure”».

Martini invoca un maggior coinvolgimento e un maggior protagonismo del malato.

«Non ci si deve però dimenticare che il responsabile è il medico. Il malato non è l’ultima istanza, deve confrontarsi con il medico che lo cura, sennò rischia di scambiare una fitta passeggera con un tumore. Il medico, insomma, non può essere deresponsabilizzato. Altrimenti si arriva a concedere il permesso di ammazzarsi nelle corsie degli ospedali».

Posso chiederle come sta vivendo la sua malattia?

«Sono lontanissimo dalle sviolinature circa l’importanza del dolore e della sofferenza. Conosco la teologia, ma devo dire che non credo necessario esaltare il soffrire. Secondo me il problema è di mantenersi nell’atteggiamento di dipendenza dal Signore. Se lui vuole che io abbia il Parkinson, è la sua volontà, anche se a me dà fastidio. Così non è stato piacevole il taglio di un lobo di un polmone, ma se serve a mantenermi ancora in vita, l’accetto! C’è un aspetto umano, cioè il riconoscersi limitati e dopo aver cercato di allontanare il più possibile gli elementi negativi, accettare la malattia che il destino ti assegna. Ma c’è anche la voce del soprannaturale che ti sussurra che quella è la volontà del Signore».

Questo abbandono, questo atteggiamento di dipendenza, aiuta a vivere la sofferenza?

«Il primo risultato pratico è che ti costringe a non fare il gradasso, e non sgomitare per esibirti. Ti costringe a essere malato, il che vuol dire accettare un certo nascondimento e la compassione degli altri, che non è mica sempre bella. Poi ti aiuta a capire la redenzione di Cristo, che ha scelto volontariamente di salire sulla croce. La malattia accettata senza entusiasmi artificiosi ma con la pacatezza di chi accoglie la volontà di Dio, rende più buoni e aiuta a capire la sofferenza degli altri. Da quando sono malato, in confessionale colgo una corrente di simpatia, perché tra persone che soffrono basta guardarsi negli occhi per capirsi».

lunedì, gennaio 22, 2007

Sonetos Fùnebres, XII

Ovvero: "L'eminenza grigia" e "L'abate arcobaleno"

"L'Abate ci ha lasciato alle 05:25" così Martin Hirsch, presidente di "Compagnons d'Emmaus", ha annunciato la morte dell' Abbè Pierre: da tutti definito il simbolo del cattolicesimo francese; il «prete della Repubblica» come veniva anche apostrofato.
Ed in vero, il defunto cappuccino, al secolo Henri Groues, è stato la prosopopea di un cattolicesimo che si declina come solidarietà, un cristianesimo che è vero e "puro" solo se è sinonimo di "spirito umanitario", che pertanto rifugge da ogni "sovrastruttura" dogmatica.

Il novantaquattrenne religioso è deceduto all'alba di lunedì 22 gennaio 2007 nell'ospedale Val de Grace di Parigi dove dal 15 gennaio precedente era stato ricoverato per una infezione polmonare.

Il presidente Jaques Chirac, si è fatto voce del cordoglio della Nazione per l'uomo più amato di Francia e che per i suoi indubbi meriti umanitari era stato insignito della Gran Croce della Legion d'Onore: "Tutta la Francia è profondamente commossa. Abbiamo perso un'immensa figura, una coscienza, un uomo che impersonificava la bontà. Sacerdote impegnato nella Resistenza e la lotta in favore di diseredati, l'abbè Pierre ha fatto parte di tutte le lotte giuste"

L'eminentissimo cardinal vice-decano Roger Etchegaray, suo concittadino nonchè abilissimo diplomatico ha dichiarato: "La gente lo apprezzava e si riconosceva in lui e anche se non era perfetto, si può considerare un discepolo del Vangelo. Una persona che ha messo in pratica la carità e l'amore".


Esce, pertanto, dalla scena di questo Mondo, tra mille applausi e qualche critica, il cappuccino più famoso nella Storia di Francia, ovviamente, subito dopo il padre Giuseppe da Parigi.

venerdì, gennaio 19, 2007

La Trinità spiegata alle Ragazze

Ovvero: Trascrizione -in vero poco- emendata e purgata di un articolo in foggia epistolare dell'orrido Camillo Langone (sul Foglio di sabato 20 gennaio 2007) nel quale il Nostro poco si occupa di dogmatica e molto più di cazzeggio.



"Carissima Michela,
mi hai chiesto di non renderti riconoscibile perché sai che questa lettera la farò leggere in giro. Ubbidisco come posso. Non citerò la tua città e nemmeno la tua regione.
Non dirò se sei del nord, del centro o del sud. Ovviamente non farò il tuo cognome (...) Occulterò varie cose di te ma non il tuo nome. Ho sempre odiato nomignoli, pseudonimi, nomi d’arte. Le maschere mi piacciono a Carnevale, per il resto dell’anno presto attenzione solo a chi mette il nome e la faccia.
Non ho mai dato il minimo credito ad Aldo Nove, che all’anagrafe risulta Antonio Centanin, disprezzo Nicolas Cage per aver seppellito il suo vero cognome, Coppola, e quindi le sue origini italiane, e darò retta ad Andrea Pinketts solo quando dimostrerà di chiamarsi in questo modo bislacco mostrandomi la sua carta di identità. Pensavo fosse una delle mie tante insofferenze fino a quando non ho letto il Catechismo: “Dio chiama ciascuno per nome. Il nome di ogni uomo è sacro. Il nome è l’icona della persona. Esige il rispetto, come segno della dignità di colui che lo porta.”

Quindi Michela non ti sognare che ti ribattezzi. Fra l’altro è un nome molto bello, non troppo comune e pieno di religione. Penso che ti farebbe bene leggere qualcosa sull’arcangelo Michele: angelo dell’Apocalisse, difensore della Chiesa, capo delle milizie celesti e quindi protettore dei paracadutisti, combattente del drago (Satana) e perciò raffigurato con la spada. Il suo nome in ebraico è un minaccioso grido di guerra: Mi-k-El, Chi-come-Dio. Suona ironicamente inadatto a un’infermiera volontaria nel Darfur, ciò che tu sei in questo momento.

Il tuo Santo è scontento, molto scontento, di una giovane donna che accecata dalla carità è partita per l’Africa dimenticandosi la verità a casa e in questo modo rinnegando la Santissima Trinità in tutte le sue persone: il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo.
Soprattutto il Figlio.

Ma prima di parlare del tuo tradimento, inconsapevole, rimediabile, mi tocca ripeterti che cos’è la Trinità.
Preferirei che lo facesse un prete ma purtroppo manca la materia prima: i preti in cui vado a sbattere fanno tutti i mestieri meno che il loro e sembrano tutto meno che preti. Mai il declino della forma è andato così di pari passo col declino della sostanza. Davanti alla mia finestra c’è la chiesa di san Tommaso che mi allieta con le sue campane per il resto è come se non ci fosse, ogni tanto vedo il parroco per strada, che sia un sacerdote lo sanno in pochi siccome veste come un qualsiasi pensionato a basso reddito, e in più fuma, si trascina per strada Farini sempre con la sigaretta in mano, è uno spettacolo straziante, un’oscena esibizione di indegnità, non ti posso mandare a ripetizione di catechismo da lui.
Tocca a me, quindi.



Spero che il compito mi sia facilitato dal tuo essere cattolica praticante (dal tuo esserlo in Italia visto che in Darfur mi sembra di aver capito che nascondi la tua fede accuratamente, non sia mai che i malati maomettani si turbino).

Un amico mi ha consigliato di saccheggiare “Ortodossia” di Chesterton, uno dei tanti inglesi che ha abbandonato lo smorto anglicanesimo per la Vera Religione, quella che Cristo ha voluto fosse tramandata di generazione in generazione da Santa Romana Chiesa.
Chesterton pare che abbia trovato parole mirabili per spiegare il mistero della Santissima Trinità ma purtroppo io di libri religiosi ho fatto il pieno, non ne posso più, vorrei leggere qualcosa di divertente, non so di preciso cosa ma di sicuro nulla che si intitoli “Ortodossia”. Chesterton un’altra volta.

Allora apro il Catechismo, alla ricerca di una formula breve e risolutiva. Accidenti, mi viene da sbadigliare, non so se per colpa delle poco entusiasmanti citazioni ricavate dai concili di Toledo, di Firenze, di Lione, di Costantinopoli eccetera, o perché a pranzo come spesso accade ho mangiato e bevuto troppo.

Forse non dovrei dirtelo visto che in quella casa del diavolo dove ti sei spedita da sola ti cibi quasi esclusivamente di pane e pomodori, “ogni tanto qualche melanzana e anche angurie, ma solo nella stagione delle piogge” e infatti in cinque mesi sei dimagrita dieci chili (quando ho finito di scrivere questa lettera potrei chiamare Panorama per proporre un articolo sulla dieta Darfur). Ma te lo dico lo stesso perché in quella misera regione ci sei voluta andare tu, non ti ha obbligato nessuno, e a differenza dei tuoi assistiti puoi prendere un aereo quando vuoi e sbarcare dopo poche ore nel Buon Paese, l’Italia, dove ti aspetto per portarti a mangiare ma soprattutto a bere (sospetto che in Sudan di alcolici non vi sia abbondanza, o sbaglio?).

Chiudo il Catechismo e provo a dirtelo con parole mie, aiutandomi col Simbolo degli Apostoli (...).

“Io credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra”. E uno.
“E in Gesù Cristo, Suo unico Figlio, nostro Signore”. E due.
“Il quale fu concepito di Spirito Santo.” E tre.
Non è difficile contare fino a tre eppure in Sudan sembra che tu non ci riesca più, almeno a giudicare dalla scenetta che mi hai raccontato.
“Sono stata in un villaggio, lo sceicco è venuto a darmi il benvenuto: ti ringrazio per essere venuta qui, pregherò perché Dio ti ripaghi, siamo tutti figli dello stesso Dio. E io mi sono messa a piangere”.

Effettivamente c’è da piangere, ma non per le parole dello sceicco, per le parole tue. C’è una bella differenza tra il Dio monolitico degli ebrei e dei maomettani e il Dio cristiano che si è fatto uomo.
Il poeta polacco Milosz scrisse di qualcuno che “confidava in Dio solo perché questi aveva consegnato al martirio il suo unico figlio”.
Quel qualcuno potrei essere io. Ovviamente crederei in Dio anche se non si fosse incarnato nel ventre di Maria, per essere atei bisogna che oltre al cuore non funzioni nemmeno il cervello, però senza Gesù mi fiderei molto meno, quasi niente.

“Il Cristo è l’unico Dio che ha avuto l’adorabile idea di sacrificarsi. Per questo la sua parola è autentica parola d’amore” ha scritto un mio amico bolognese, l’ultimo dei filosofi peripatetici, Stefano Bonaga. Lo conosci?
Forse è meglio di no, nemmeno lui somiglia a un missionario comboniano, porta i pantaloni di pelle come me e certe signorine seguaci della setta pauperista potrebbero avere da ridire.

Sto parlando di te, Michela, che mi hai detto di avere deciso da un giorno all’altro di andartene dall’Italia perché “non potevi sopportare più nulla di ciò che è borghese”. (...) Bene, non c’era bisogno di prendere tre aerei, Milano-Francoforte, Francoforte-Karthum, Karthum-Darfur, per esercitare il tuo anticonformismo. Torna in Italia e comincia a dire in giro che l’aborto è un omicidio, che il matrimonio è indissolubile perché Gesù vuole che “l’uomo non separi ciò che Dio ha congiunto”, che la domenica i negozi devono stare chiusi essendo il giorno del Signore, e vedrai come ti guardano.


Tu poi che sei infermiera avresti moltissime occasioni per vivere pericolosamente. Tutto l’odio per l’uomo, per l’enorme valore che Cristo ha dato all’uomo (un valore che prima di Cristo non c’era e che dopo Cristo non c’è più) si sta concentrando fra laboratori medici e corsie di ospedale: morte indotta, anticoncezionali, manipolazione genetica…

Vuoi cacciarti nei guai?
Distribuisci Vangeli ai malati e appendi crocifissi sui loro letti.
Vuoi essere evitata come una lebbrosa?
Ricorda alle persone che tu cercherai di guarirle ma che prima o poi devono comunque morire.
Il farmacista timorato di Dio che si rifiuta di vendere la pillola-del-giornodopo perde fatturato e rischia di essere denunciato per interruzione di pubblico servizio. “Sarete odiati da tutti per causa del mio nome”. Anche solo il segno della croce può risultare molto fastidioso, è come l’aglio per le streghe.
E’ il gesto fondamentale della preghiera cristiana, è porsi sotto la protezione della croce, tenerla davanti a sè come uno scudo. Nel Darfur te lo fai?
Il segno della croce è appunto la traduzione in gesto della fede nella Santissima Trinità, “in nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.

Non è gradito ai sostenitori del Dio unico e purchessia, del Dio generico che va bene a tutti e non serve a nessuno.
La filastrocca del Dio unico è un luogo talmente comune da essere arrivato al Festival di Sanremo, lo stupidario della nazione. Le parole di una delle canzoni bocciate dalla giuria (non per motivi teologici bensì musicali) erano di Younis Tawfik, scrittore iracheno residente a Torino ma soprattutto diounicista: “Io ti cerco in un giorno di neve / e tra gli angeli della Sistina / io ti cerco nei miei arabeschi tra i minareti della grande moschea”.
Non sempre chi cerca trova, specialmente se lo fa nei posti sbagliati.

Il mio cardinale preferito, Giacomo Biffi, non ha mai tentato di partecipare a Sanremo e forse anche per questo riguardo all’Eterno pronuncia parole sensate: “C’è chi pensa di rintracciarlo tra coloro che hanno marcato col loro insegnamento la vicenda religiosa del mondo, quali ad esempio Budda o Maometto: ma lì non c’è, perché non lo si può trovare tra i morti.”

Tu invece mi sa che se rimani altri cinque mesi in Sudan cominci a credere che Maometto ha parlato davvero con l’arcangelo Gabriele. E non devi crederlo e non puoi, la Rivelazione si è conclusa con Cristo. “Se anche noi stessi o un angelo del cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema!” dice san Paolo, uno che dovrebbe piacerti perché nella Lettera ai romani lancia un grido antiborghese: “Non conformatevi alla mentalità di questo secolo!”.

Non dovresti compiacerti per il fatto che in quel tuo villaggio per farti sentire una di loro hanno preso a chiamarti Khadija, come la prima moglie di Maometto. E’ come se durante un soggiorno in Germania ti chiamassero Eva Braun.
Hitler e Maometto cambia poco, dolori per i cristiani e morte per gli ebrei.

La storia del nazismo è nota, i campi di concentramento e i forni crematori li hanno visti tutti, o dal vivo o nei film, mentre la biografia del primo islamico è piuttosto silenziata, i diounicisti preferiscono glissare su certi particolari, ad esempio sullo sterminio degli ebrei di Medina.
Sono cose che capitano quando si crede in un Dio totalitario, un Dio lontanissimo, un Dio egoista come tutti coloro che scelgono di non avere figli.

Altra cosa è la Santissima Trinità, monoteismo sfaccettato, divinità ravvicinata, umanizzata e umanizzante.
Un Dio che è Padre in tutti i sensi, spirituali e materiali. Un Figlio che si può toccare se ci si chiama san Tommaso perché ha una faccia, dei capelli, e un corpo rimasto impresso nella Sindone. Uno Spirito che è quella colomba bianca che compare in alto nei quadri del Battesimo di Cristo, ad esempio nel Piero della Francesca conservato alla National Gallery di Londra.
Lo Spirito di Dio che aleggiava sulle acque, lo Spirito che soffiò in piazza San Pietro durante i funerali di Papa Giovanni Paolo II, sfogliando una a una le pagine del Vangelo appoggiato sulla bara di legno chiaro, una a una fino alla fine, quando l’ultimo soffio chiuse il libro per sempre. E fu la mano di Dio in mondovisione, se qualcuno non l’ha vista chissà dov’era nel 2005.

Sei fortunata a essere cristiana, hai più persone divine a cui chiedere perdono per questi mesi di rinnegamento, per questo periodo sudanese durante il quale hai dimenticato le parole di Gesù nel deserto, “Non di solo pane vivrà l’uomo”, vivendo di solo pane (pane e pomodoro) e di solo pane cure mediche) facendo vivere. Per quel triste episodio di Khartum quando non sei andata nella chiesa cristiana perché non ne conoscevi l’indirizzo e avresti dovuto chiederlo allo “staff musulmano”: “Non mi sembrava cortese”.

Lasciatelo dire: in quell’occasione fosti tu a essere borghese, conformista e borghese, confondendo la fede col galateo. Ma se Gesù ha perdonato Pietro che lo ha rinnegato tre volte, e Pietro era un uomo che aveva visto i miracoli e ascoltato direttamente il Maestro, non una ragazza malamente indottrinata da preti assistenti sociali, perdonerà anche te. Tuttavia chi ha tempo non aspetti tempo. Salta in fretta su quell’aereo, sbarca in Italia e se dopo questa lettera non mi sputerai in faccia (l’ho messo in conto però mi dispiacerebbe molto) ti porterò alla Francescana di Modena, il ristorante dove il grande Massimo Bottura ci servirà un aperitivo coi fiocchi: Lambrusco di Sorbara rifermentato in bottiglia e spuma di mortadella.

Che Dio ti benedica,
che Gesù ti abbracci,
che lo Spirito Santo invada il tuo cuore.
Camillo"

CASTRUM DOLORIS,V

Ovvero: Ecco quando la Via Crucis divenne "reato di gruppo"


[Articolo di Andrea Tornielli ; Il Giornale, venerdì 12 gennaio 2007]

"Può la tradizionale devozione della Via Crucis essere definita espressione di un «disegno criminoso»?
Può un’innocua sequenza di «stazioni» che ricordano la passione di Cristo, composta da qualche piccola lapide, bassorilievo e lumino, sistemata in privatissimi terreni agricoli dai loro legittimi proprietari, diventare «un pericolo per la salute e l’incolumità fisica» delle persone?
In Italia si aprono discoteche che costringono interi quartieri a sorbirsi, loro malgrado, i decibel d’ordinanza; c’è chi alleva abusivamente tigri o serpenti nel giardino dietro casa, chi celebra messe nere. C’è chi prega Allah a cielo aperto, sul pubblico marciapiede. Ma realizzare sulla tua proprietà un’innocua Via Crucis, no, questo non puoi farlo. E se lo fai, si trova sempre un magistrato pronto a sentenziare che quella pratica devozionale rappresenta un «disegno criminoso».

Quella di Ortensio Sassi, Maria Grazia Zaccaria, Roberto Albertelli e Dolores Coleschi è una storia paradossale. Dal 2003, le due coppie, abitanti nella campagna di Castrocaro Terme, hanno «installato» una Via Crucis, con le tradizionali quindici stazioni, e una croce alta sette metri e illuminata al neon (ma che si spegne puntualmente a mezzanotte). Tutto ciò all’interno di un terreno agricolo di proprietà e con tanto di autorizzazioni dell’amministrazione comunale. E dopo aver avvertito il vescovo e il parroco, che nulla avevano, né potevano avere, in contrario.

Ogni venerdì sera, ad esclusione del Venerdì Santo - quando le famiglie partecipano alla funzione in parrocchia - i Sassi e gli Albertelli radunano un gruppetto che varia da cinque a quindici persone, e dalle 21 alle 22.15 percorrono, pregando, i circa 550 metri di viottolo lungo cui si snodano le stazioni. Le auto dei presenti vengono parcheggiate in un’area predisposta a questo scopo nella proprietà degli Albertelli fin dal 1988. In occasione della prima Via Crucis, il 1° venerdì di settembre 2003, la signora Coleschi ha avvisato la polizia municipale di Castrocaro, informando che la preghiera ci sarebbe stata ogni venerdì. Quella prima sera, una pattuglia di vigili urbani aveva percorso lentamente la strada privata che attraversa le proprietà delle famiglie per osservare quanto stava accadendo.

Che cosa può esserci di male, vi chiederete, in un gruppuscolo di fedeli che decide di ricordare ogni settimana la morte di Gesù, leggendo brani del Vangelo?
A cinque vicini, la storia non è proprio andata giù. Per loro, quelle piccole lapidi e quel viottolo rappresentano una minaccia. Così hanno presentato un esposto, scrivendo che «la tranquilla amena località... subiva profondi, ma innaturali mutamenti, destinati ad incidere pesantemente sulla vita quotidiana dei residenti e con ripercussioni sulle proprietà di questi ultimi... Sembra che abbiano intrapreso il progetto di trasformare la zona in “zona di culto”». Nell’esposto, i cinque firmatari chiedono alla magistratura di «accertare l’avvenuta modifica dello stato morfologico dei luoghi, nonché il conseguente disagio ambientale», e pure i disagi derivanti dall’aver trasformato - affermano - «un paesaggio da agricolo a pubblico». Peccato che il terreno pubblico non sia, ma si tratti di proprietà privata. Infine, i firmatari chiedono alla Procura di Forlì di accertare «la ricorrenza di condizioni di pericolo per la salute e l’incolumità fisica e il patrimonio».

Sembra incredibile, eppure il Tribunale ha condannato le famiglie Sassi e Albertelli, con decreto penale del 15 settembre 2006, per aver realizzato la Via Crucis in casa loro.
Sarebbe come se un giudice condannasse qualcuno per aver installato un «percorso-vita» nel bosco di proprietà dietro casa, o per aver esposto variopinti nanetti o puffi nel viottolo che porta al garage.

«In nome del popolo italiano», il giudice Giovanni Trere, ha giudicato i quattro promotori colpevoli di «reato continuato» (art. 81 del codice penale), «disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone» (art. 659), mancato «avviso al Questore». Avrebbero agito «operando in concorso tra di loro ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso» realizzando «strutture di carattere religioso». Gli interessati, ai quali è stata comminata un’ammenda di mille euro a testa ed è stata proposta l’estinzione della pena grazie all’indulto, hanno invece fattoricorso.

«La sentenza - spiega al Giornale Ortensio Sassi, di professione analista informatico - non ha tenuto conto che la croce e il terrapieno per il parcheggio sono stati realizzati nella proprietà privata e con autorizzazioni comunali; che non doveva essere avvisato il Questore perché la Via Crucis non si svolge in luogo pubblico ma in un terreno agricolo privato, che le “stazioni”, cioè le lapidi sono un libero arredo in proprietà privata. Quanto al disturbo del riposo delle persone, beh, deve sapere che uno dei firmatari abita a Bologna, altri due a ben 100 metri dal luogo del nostro passaggio».


C’è di più.
Spesso e volentieri, proprio in concomitanza dell’inizio della Via Crucis, da una casa vicina c’è chi attacca a tutto volume uno stereo che ha le casse all’esterno, per disturbare il gruppetto di persone in preghiera e i loro «criminosi disegni», fatti di Paternoster e Avemarie."

Sacra Coversazione /10


[Articolo di Allam Magdi sul Corriere della Sera di martedì 16 gennaio, 2007]
Ovvero: "L' Islam, la poligamia e il blog di Lia: la moglie che accusa il capo dell' Ucoii"
Il racconto di una professoressa: così Piccardo mi ha sposato e poi ripudiato con un sms

"ROMA - Il primo dicembre vi avevamo raccontato di uno scandalo sessuale a sfondo poligamico, in cui Lia, curatrice del blog Haramlik, denunciava di essere stata ripudiata da un non meglio specificato «Mullah di noialtri».

Ebbene ora siamo in grado di svelarvi il nome: Hamza Roberto Piccardo. Ed è Lia, professoressa di Letteratura che insegna a Genova, a rivelarlo: «L' ultima cosa che vorrei fare è ritrovarmi ad avere partecipato, con la mansuetudine di un capretto, alla grottesca messa in scena di una scenografia religiosa entro cui ambientare il porno amatoriale più banale del mondo, con Hamza Piccardo e Lia di Haramlik nei titoli di testa, in un tripudio di buon esempio. Ma ti prego. Fare da utile idiota, imbarazzata e silente, ai vitelloni da moschea. Non scherziamo».

Piccardo è il segretario nazionale dell' Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia), il personaggio più in vista e più controverso dell' islam in Italia. Sposato civilmente con una marocchina dopo il divorzio dalla prima moglie italiana, dalle quali ha avuto complessivamente 5 figli, lo scorso marzo Piccardo ha contratto un secondo matrimonio con Lia, nella moschea di Verona. Senonché a luglio Piccardo l' ha ripudiata, comunicandole in modo sprezzante la sua brusca e unilaterale decisione tramite un sms.

A quel punto Lia si è ribellata e ha avviato una campagna mediatica all' interno del suo blog, per ottenere il riconoscimento dei suoi diritti di moglie divorziata, nonché per protestare contro «quest' islam semplificato a misura di cretino, questo giochetto pseudo-islamico che va in onda tra i quattro dementi che hanno avuto la ventura di trovarsi nel posto giusto al momento giusto con la religione giusta e che ne hanno fatto una rendita di potere spicciolo da miserabili».

In una email indirizzata a Piccardo, datata 7 ottobre 2006 e che pubblichiamo per la prima volta, Lia chiarisce le ragioni per cui intende rivelare tutto, proprio tutto, di una esperienza che definisce un «delirio sado-poligamico»: «L' ultima cosa che vorrei fare, nella mia vita, è ritrovarmi omertosa, a coprire col mio partecipativo silenzio una prassi pseudomatrimoniale di bassissima lega, un uso becero della poligamia, una burocrazia religiosa adoperata come mero preservativo spirituale».
La missiva inizia così: «Caro Hamza, come sai, ho esercitato nei tuoi confronti - per diversi mesi e con generosità - l' islamica virtù della misericordia verso le tue debolezze, incoerenze e mancanze. Purtroppo, non mi è più possibile continuare a ostinarmi nel credere nella tua buonafede». Lia sintetizza così la decisione di sposarsi: «Tu ti sei presentato da me come rappresentante e punto di riferimento, in questo Paese, di una religione e di una causa per cui io mi spendevo da anni (...) Arrivi tu e decidi che mi devi urgentemente sposare, in nome della tua profonda fede nell' islam e in barba a qualsiasi mio ed altrui richiamo alla sensatezza (...) Hai goduto di un' apertura di credito da parte mia, invece, figlia proprio della mia attrazione e del mio rispetto per quell' islam che con tanto ardore rappresenti, ed ho accolto la tua sfida: "Fidati di me e sposami subito". "D' accordo".

Capivo bene, e la continuo a capire, la tua urgenza di metterti in condizione di "potere restare dietro una porta chiusa" con la sottoscritta. Solo che l' obbligo di contrarre matrimonio prima di poterlo fare non si esaurisce, per un musulmano, nella ripetizione burocratica di una formuletta. Il matrimonio islamico non è una magia o un miracolo che trasforma la carne femminile da haram ad halal, a mo' di cristiana trasformazione dell' acqua in vino. Il matrimonio islamico serve a garantire alle donne dei diritti, ed è in questi diritti che si riflette la coscienza dell' uomo. (...) Di questi miei diritti, di questi tuoi doveri, non se ne è vista manco l' ombra».

Lia lamenta l' assenza di un «normale rapporto affettivo tra persone serie, adulte e perbene», denuncia un comportamento violento («eri ormai talmente arrogante da concederti il lusso di tirarmi uno schiaffo») ma soprattutto rivela il prevalere di un comportamento morboso per il sesso: «Sei arrivato al punto di dirmi, nella stessa chat, che "no, questa settimana non vado a Milano, non posso portarti neanche una scatola" e poi, poche righe più sotto, spiegarmi nei dettagli che "se adesso venissi da te, slurp, ti farei questo e quello". Non so: cosa te la sposi a fare una donna se poi, in barba persino ai tuoi doveri di assistenza nei tre mesi successivi al divorzio, non ti chiedi sotto quale ponte stia andando a sbattere, e tutto quello che sai fare è esporle i tuoi sogni erotici quando ti gira di chiamarla?
Cosa c' entra l' islam?
Cosa c' è di islamico nel non assumersi nemmeno l' ultima delle responsabilità: quella di avere le palle di stare zitto e viverti i tuoi languori in silenzio, fosse solo prendendo esempio dalla donna che, con tutto il fegato che tu non hai, in silenzio assoluto si sciroppa un incubo intero?
Che cos' è esattamente il matrimonio islamico targato Ucoii, segretario nazionale dei miei stivali? Come ti permetti, come vi permettete di chiamare "islamico" un simile sconcio?».

Lia chiede «il mio risarcimento, buonuscita o dono di consolazione», quantificandolo in 20 mila euro. Ammonendolo che se Piccardo non accetterà la richiesta entro il 13 ottobre, «impegnerò tutte le mie energie per fare chiarezza su ciò che, a quel punto, sarebbe inequivocabilmente confermato come un uso fraudolento e blasfemo di una supposta benedizione divina sui coiti realizzati sotto l' egida dell' Ucoii, a partire dai tuoi». La condanna dell' Ucoii è netta: «L' esercizio istituzionalizzato da parte di un' organizzazione a sfondo religioso di prassi che, nel mondo arabo - sto pensando al matrimonio orfi (segreto, ndr) egiziano - vengono percepite come una forma di prostituzione legalizzata, è disdicevole. A volere essere gentili».

Nel finale Lia dà libero sfogo al proprio sarcasmo: «Non mi sfugge, per contro, la ricaduta a breve termine che la pubblicizzazione delle nostra esemplificativa vicenda potrebbe avere sui musulmani del nostro Paese che, davvero, non meritano di essere rappresentati e messi in imbarazzo da un Alberto Sordi dell' islam italiano».

Fino al 30 dicembre scorso, Lia nel suo blog ha minacciato di fare il nome di Piccardo: «Dovrei raccontare, a questo punto, dell' ultimo acquisto della galleria di mostri di cui è composto l' islam italiano che ho la ventura di conoscere. Non so se ne ho voglia. Eppure, scriverne si deve».
Ebbene ora sappiamo chi è il protagonista di questa telenovela «sado-poligamica» dell' islam italiano. Non è l' unico e non sarà probabilmente l' ultimo di cui vi racconteremo la storia intima, di per sé squallida, ma di cui dobbiamo occuparci. Perché sono questi «musulmani di professione» gli interlocutori che lo Stato predilige e che, grazie all' imperversare dell' ignoranza, del buonismo e della collusione ideologica, stanno già praticando la sharia islamica in Italia.
Non ci resta che sperare nelle donne che, al pari di Lia, ci costringano ad aprire gli occhi."

giovedì, gennaio 18, 2007

visioni private /14

Ovvero: Chi vuol essere agostiniano?


Gerry Scotti legge la domanda: "Chi avrebbe trovato la propria vocazione in seguito allo scampato pericolo di un fulmine?"; la risposta vale 8.000 euro.
Il concorrente di "Chi vuol essere milionario" ha un'espressione inizialmente atterrita, poi sconsolatamente scuote il capo leggendo le quattro opzioni: non c'è bisogno che parli perche si capisca che non ha la più pallida idea della risposta, lui che poco prima non ha avuto molta difficoltà ad individuare il vero nome del padre di Asterix.

Non avendo già "sprecato" gli aiuti a sua disposizione, Gerry Scotti lo invita a valutare la posibilità dell'aiuto del 50%, che il concorrente prontamenta accetta: risposta a) Sant'Agostino o risposta c) Martin Lutero? Epperò il dimezzamento delle opzioni non dimezza la sua ignoranza in materia!

Per farlo uscire dall'empasse il presentatore gli sottopone un nuovo, infausto, suggerimento: chiedere l'aiuto del pubblico.
Trovandosi a che fare con un pubblico in maggiorza milanese, città in cui Sant'Agostino ebbe la sua conversione, ed essendo per giunta Gerry Scotti nativo di Pavia, che ne custodisce le reliquie, il bravo presentatore ha avuto fiducia nelle qualità di discernimento del pubblico in sala.
Così il condutore ha argomentato il possibile risvolto "nazional-popolare" della domanda: Sant'Agostino è uno dei santi più noti -a Pavia,forse!- ragion per cui se fosse sopravvissuto miracolosamente ad un fulmine sarebe sicuramente uno tra gli aneddoti più famosi della sua vita. Al contrario Martin Lutero, pur essendo indubbiamente un importante personaggio della storia ecclesiastica, appatiene ad un contesto culturale poco italico e più mitleuropeo (ragion per cui è più probabile che alle nostre latitudini la sua biografia sia poco popolare).

E dopo che Gerry Scotti ha in pratica servito la risposta su un piatto d'argento, il pubblico sovrano, come ogni qual volta in un quiz viene interpellato su argomenti religiosi, ha immancabilmente espresso un'opinione errata: 81% per Sant'Agostino e solo il 19% per Martin Lutero. Probabilmente il 19% del pubblico nello studio televisivo era protestante.

Mentre il concorrente, visto il plebiscitario risultato del sondaggio, sorride ebete - probabilmente ringraziando in cuor suo il santo vescovo d'Ippona- pregustando la vittoria, il condutore, invece, fa la faccia dura per non far trasparire prima del tempo i sui sensi di colpa per aver sopravvalutato ancora una volta l'intelligenza della gente.
E come dice sempre Gerry Scotti:che Dio ci benedica!

Sant'Abbondio v/s don Abbondio

A Como non c'è più religione!
["Quello su cui meditava in quel momento don Abbondio, convalescente della febbre dello spavento, anzi più guarito (quanto alla febbre) che non volesse lasciar credere, era un panegirico in onore di san Carlo, detto con molta enfasi, e udito con molta ammirazione nel duomo di Milano, due anni prima. Il santo v'era paragonato, per l'amore allo studio, ad Archimede; e fin qui don Abbondio non trovava inciampo; perché Archimede ne ha fatte di così curiose, ha fatto dir tanto di sé, che, per saperne qualche cosa, non c'è bisogno d'un'erudizione molto vasta. Ma, dopo Archimede, l'oratore chiamava a paragone anche Carneade: e lì il lettore era rimasto arrenato." (Promessi Sposi, cap.8)]
Ovvero: Panegirico di monsignor Alessandro Maggiolini vescovo emerito di Como a firma di Maurizio Crippa sul Foglio di mercoledì 17 gennaio 2007.



"Solo una breve in cronaca sui quotidiani locali, la storia del sacrestano filippino del duomo di Como che ha aggredito a colpi d’ascia un bulletto che lo tampinava. Ma a qualche cronista che non se n’era ancora andato da Erba, a bazzicare il paesino dell’orrore che sta a un quarto d’ora di macchina, e che magari domenica [14 gennaio,n.d.r.] è andato distrattamente alla “Messa di saluto” di monsignor Alessandro Maggiolini, sarà servita per confermarsi nell’idea: non c’è più religione, a Como.
A Como città, dove quest’estate un vigile ha sparato alla testa a un ragazzo cingalese, e le polemiche sul perché non sono ancora finite; a Como e dintorni, dove a settembre fuori dalle scuole si sono avvistate le prime mamme col burqa.

In effetti, visto dal lato della cronaca di questi giorni, il panorama che il vescovo che è stato per diciotto anni alla guida della diocesi (ora vi rimarrà come vescovo emerito) si lascia dietro le spalle sembra quasi l’avverarsi di qualcuna delle sue famose e fosche profezie sulla società che va in rovina: “La nostra società deve ancora avvertire il sapore del marcio che viene in bocca dal tipo di vita che sta conducendo”, aveva detto al Foglio giusto un anno fa.
Anche lo sfondo vagamente razzista su cui si è innestata la tragedia di Erba sembra fatto apposta per dare ragione a quei suoi giudizi molto poco ecclesialmente corretti sui “musulmani che si moltiplicano in proporzione geometrica di fronte a noi che invecchiamo a vista d’occhio”; ma ancor di più sugli italiani che “finiranno per assomigliare a negretti o indios da catechizzare”.
Tutte cose che il settantaseienne prelato lombardo aveva iniziato a dire per tempo, e non ha mai smesso di farlo, non per cupezza da Savonarola ma per via dell’occhio lucido sulla realtà sociale. E per via anche del suo italiano bello e schietto, per nulla impastato di melassa clericale, con cui quelle cose ha sempre detto.

Per certi versi, l’uscita di scena di monsignor Alessandro Maggiolini potrebbe assomigliare a quella dei due vecchi servi dell’ultimo imperatore nel “Romolo il Grande” di Durrenmatt, che lasciando la scena mentre Odoacre è già alle viste e tutto sembra perduto, sospirano: “Via noi, si piomba nel più buio medioevo”. Pur costituzionalmente allergico agli ottimisti faciloni, Maggiolini non si è però congedato dai suoi fedeli con la stessa allegria da naufraghi dei servi dell’imperatore. “Il Vangelo è la buona notizia che ci rende sorridenti e cattivanti”, ha detto invece domenica in Sant’Abbondio, aggiungendo una delle sue proverbiali sentenze senza appello: “Una chiesa mesta, anche in momenti di prova, è una caricatura dell’inferno”.

Allo stesso tempo, però, sussistono pochi dubbi che le sue analisi fossero esatte, che i suoi strali lanciati contro una chiesa che non è più chiesa e contro una società che (da un pezzo) aveva iniziato ad andare in malora colpissero nel segno. Lasciando anche stare l’omicidio di Erba. A cominciare, ovviamente, dalla questione dell’identità locale, culturale e religiosa, e del rapporto con l’immigrazione di matrice islamica.
“Abbiamo perso dieci anni”, commentava con un filo d’amarezza un anno fa Maggiolini, ricordando come già nel suo primo discorso alla città di Como, tenuto nel 1989, avesse sottolineato il problema di “pensare con esattezza l’incontro con l’islam: un incontro tra culture diverse”.
Ovviamente, per queste idee, nella sua lunga carriera sulla cattedra di Sant’Abbondio gli hanno dato del leghista, dell’integralista, del profeta di sventura e del culturalmente rozzo. Lui, che invece è stato anche l’unico italiano a far parte della commissione per la stesura del Nuovo Catechismo della chiesa cattolica, essendo uno degli uomini più preparati nella gerarchia italiana.
Non se n’è mai curato, ovvio.

A partire dai suoi interventi sui giornali, e anche dai titoli di alcuni suoi libri, roba come “Fine della nostra cristianità” e “Declino e speranza del cattolicesimo”. Libri che lo hanno accreditato anche presso i laici come un grintoso testimone di una terra senza più religione, guardata con un realismo acuto e un’ironia sferzante per certi aspetti simile a quella aspra del suo amico Giacomo Biffi, cardinale nella grassa e dotta e rossa Bologna.
Del resto i suoi diciotto anni a Como sono coincisi con gli anni della crisi della Prima Repubblica e della dissoluzione della Balena bianca, in cui anche nella bianca terra di Como il cristianesimo si è andato spampanando, molto prima dell’invasione dei barbari.
Tempo in cui troppo spesso “la gerarchia è stata costretta a intervenire” semplicemente perché i laici cattolici, soprattutto quelli impegnati in politica, “non sanno più cosa dire”. Perché lui ha in mente soprattutto questo: l’eclissi dei cristiani, ché poi la malora della società è un po’ anche una conseguenza.
E gliel’ha detto, ai suoi fedeli venuti in duomo a salutare il loro vescovo in
carrozzella: “Lungo tutto l’episcopato ho insistito sulla coltivazione dell’originalità cristiana: senza questo aspetto, questo rapporto con Gesù, la chiesa e il cristianesimo non hanno più nulla da dare e da dire: diventano una sorta di bocciofila”.

Lui ha sempre avuto un’idea diversa della fede: “Il distintivo del cristianesimo è il Credo, non il dialogo. Sui ‘può darsi’, nessuno impegna la vita”.
E quel che ha sempre detestato di più è proprio quella chiesa molto correttina, molto accogliente ma anche molto incapace di chiamare le cose con il proprio nome; incapace di dire qualcosa, anche quando va in televisione. Una volta disse: “Preti e suore danno indegno spettacolo di sé apparendo in stupidi spettacoli televisivi”. Insomma non c’è più religione, ma peggio ancora è se la religione ridotta a “un residuato di chiesa”, che insiste “su un progressismo sociale e politico”.

Di fronte a tutto questo, va reso atto a Maggiolini di essere sempre stato capace di parlare chiaro, di dire le cose nero su bianco, di guardare la realtà – anche quella sociale di una diocesi più contraddittoria di quanto appaia a vederla nei telegiornali – senza infingimenti. Senza melassa buonista.
Sapendo che i problemi ci sono, e non sono solo l’islam, ma sono anche i temi della vita e della morte, dell’eutanasia. Insomma i nodi cruciali su cui alla fine le persone decidono di sé; in cui alla fine la società decide se la trama fitta della seta di Como che l’ha tenuta insieme finora possa tenere ancora. O se debba strapparsi, sfilacciarsi, marcire. Ogni tanto impazzire per il baccano che fanno i vicini di casa. Insomma tutte quelle cose che o la chiesa le dice, o che ci sta a fare? Anche se hai la diocesi che funziona e il quotidiano diocesano che fa buone tirature. ma la realtà è questa. Quasi ci si stupiva, davanti alla tv, a vedere ogni tanto un ciclista che, transitando davanti al cancello degli orrori di Erba, si facesse il segno della croce invece di lasciare l’ennesimo, stupido orsetto di peluche.
Ma senza condanne arcigne. Così ad esempio il vescovo di Como si è trovato anche a dire, su Piergiorgio Welby: “Mi chiedo, prima di morire si è affidato alla misericordia di Dio, non poteva essere questa invocazione un motivo per concedere i funerali?”.

Una bella eredità ingombrante, culturale, teologica e pastorale, quella che il vescovo emerito lascia al suo successore, abituato al calore pastorale con cui firmava a Livorno le sue lettere alla diocesi: “Con tanto affetto, Diego, il vostro vescovo”. Lui dovrà misurarsi con una eredità importante, con una personalità che ha lasciato un segno originale nella chiesa e nella società italiane.
E i cattolici lariani dovranno abituarsi al nuovo stile pastorale di monsignor Diego Coletti, un teologo che viene da un percorso culturale ed ecclesiale diverso da Maggiolini, prima rettore di seminario a Venegono, poi consulente del cardinal Martini per la preparazione del Convegno ecclesiale di Loreto, infine rettore del Pontificio seminario lombardo di Roma, fino all’approdo alla diocesi di Livorno. Un uomo più da “percorsi intraecclesiali”, come si dice in gergo, meno avvezzo a predicare sui tetti e a tirare di sciabola – quando serve – con la politica, i giornali, l’opinione pubblica laica.


Maggiolini è stato infatti anche uno dei pochi casi di prelato italiano capace – anche desideroso – di far sentire la propria voce a tutta la società. E spesso è stata una voce non allineata al mormorio medio della Conferenza episcopale.
Capitò anche ai tempi dello scontro tra la Cgil di Sergio Cofferati e il governo Berlusconi sull’articolo 18, quando il vescovo di Como fu l’unico dell’episcopato a criticare il sindacato.
E’ capitato più di recente sulle questioni bioetiche, lo scorso anno per i referendum e ora sul tema dei pacs: “Sembra che si debba cambiare il vocabolario della lingua italiana”, ha detto in una delle sue ultime omelie, “i patti di convivenza sociale non sono più patti sanciti dalla benedizione di Dio. L’amore sembra diventato il gioco del più potente con dei balocchi da strapazzare e da buttare quando si consumano. Ciò che sembra rimanere di quello che era il matrimonio santificato da Dio è la ricerca di vantaggi economici congiunti a un piacere che svuota di serietà”.

Ma ovviamente la battaglia culturale su cui vanta la primogenitura è quella multiculturale.
Lungimirante. Ma ancora dice: “Non si possono spalancare le porte della nazione e far crescere un’identità culturale”.
Quando la Lega raccolse le firme per un referendum sull’immigrazione, gli fecero pure un esposto alla magistratura per “odio razziale”, semplicemente per avere dichiarato che “le firme non sono contro gli extracomunitari indistintamente, ma contro gli immigrati clandestini”. Abbiamo perso dieci anni, ripete. Lui che nel 1998 aveva già tuonato contro i rischi di una “colonizzazione passiva” derivata non dall’immigrazione in sé, ma dall’immigrazione incontrollata, avalutativa, che ha dominato in questi decenni non solo l’Italia ma tutto il continente europeo.
Allora, non faceva piacere ai suoi colleghi dell’episcopato doversi misurare con le sue affermazioni, quelle che neanche un decennio dopo sono diventate lapalissiane verità: “Presto si dovrà insegnare l’islam anche nelle scuole pubbliche”, o il dubbio a più riprese sollevato che, nella nuova situazione, i diritti legati alla libertà religiosa avrebbero messo in forse gli stessi privilegi garantiti dal Concordato all’interno del sistema educativo.

Dieci anni fa, quando affermare che la società multireligiosa “non è aprioristicamente perfetta” e che avere un atteggiamento debole nei confronti dell’islam avrebbe potuto generare integralismi suonava come una provocazione, un paradosso antiecumenico.
Così, quando nel 1999 il vescovo di Como dichiarò: “Non ci si meravigli di seimila firme raccolte a Como. La gente è stufa di sentire il ministro degli Interni e il governo che imbastiscono discorsi francescani per poi lasciare ad altri, caritatevoli, la soluzione di problemi che sono di giustizia”, l’irritazione e l’imbarazzo furono palpabili all’interno della Conferenza episcopale. Raffaele Nogaro, vescovo di Caserta, gli rispose a muso duro: “Il referendum è uno scandalo; siamo diventati disumani. L’uomo è oramai solo una merce da mercato: se serve lo si attira, se no lo si respinge”. Mentre lo stesso segretario della Cei, monsignor Ennio Antonelli espresse il suo “no” deciso al referendum promosso dai leghisti: “E’ molto lontano dalle posizioni della chiesa, poiché si presta a diffondere sentimenti di tipo razzista e certo non bisogna soffiare sul fuoco”.
Passati gli anni, la posizione culturale e pastorale di monsignor Maggiolini, se pur non sono diventate maggioritarie, hanno finito per convincere tutti almeno per il loro tasso di realismo.

Con tutto ciò, dalla grata del confessionale in cui il combattivo vescovo ha dichiarato di voler proseguire la sua missione di pastore, Maggiolini osserverà una città in cui le sue profezie di due decenni fa sembrano inesorabilmente avverarsi."

mercoledì, gennaio 17, 2007

Santa anche subito /7

Ovvero: Lettera aperta all'onorevole Daniela Santanchè
(pubblicata dal Foglio marcoledì 17 gennaio 2006).



[Irshad Manji scrittrice e giornalista canadese di origine pachistana è nata in Uganda nel 1968. E’ membro anziano presso la Fondazione europea per la democrazia e autrice del best-seller internazionale “Quando abbiamo smesso di pensare? Un’islamica di fronte ai problemi dell’islam” (Guanda), una veemente critica “dall’interno” del conservatorismo dell’islam.]

"In quanto musulmana riformista, mi sento molto vicina a Daniela Santanchè.
Fino a poco tempo fa avrei potuto reagire all’ultima minaccia di morte che ha ricevuto come la maggior parte di noi ancora reagisce: con tristezza, magari disgusto, ma soprattutto silenzio.
Ora non posso più mantenere questo silenzio: condivido la sua situazione, perché i jihadisti perseguitano anche me.
Quando mi sveglio, per prima cosa controllo la mia e-mail, per vedere se, nella notte, ho ricevuto minacce di morte. Quindi disattivo il sistema di allarme per recuperare il giornale del mattino. Mentre bevo il caffè guardo fuori dalle finestre antiproiettile, vicine alla mia cassetta delle lettere, che la polizia ha sigillato per impedire che vi possano introdurre lettere bomba. Mi è anche stato consigliato di non portare con me un cellulare, la cui tecnologia – il posizionamento satellitare globale – permette ai miei nemici di rintracciarmi.

La massima allerta è scattata tre anni fa, quando ho pubblicato il mio libro “Quando abbiamo smesso di pensare? Un’islamica di fronte ai problemi dell’islam”.
Nel libro, che contesta il sessismo, l’antisemitismo e altri pregiudizi in cui credono moltissimi miei fratelli musulmani, faccio notare che la mia fede è diventata un focolaio di intolleranza, soprattutto nei confronti delle donne e degli ebrei. Sostengo che i musulmani devono seguire le parti progressiste della nostra storia, anziché lasciare che gli estremisti definiscano per noi la religione in cui dobbiamo credere.
Supplico i musulmani perché si dichiarino contrari agli omicidi d’onore, alle lapidazioni, agli attentati kamikaze e ad altri crimini commessi in nome di Dio.

Sapevo che, esprimendo quelle opinioni, avrei potuto mettere a rischio la mia vita. Durante la stesura del libro, ci sono stati momenti in cui sospiravo, tra me e me: “Se non è questo paragrafo a decretare la mia morte, sarà il prossimo.” Ho pensato anche alle anime coraggiose che mi hanno preceduto: Salman Rushdie, il cui romanzo “I versetti satanici” è stato talmente vituperato dai fondamentalisti islamici da indurre il governo iraniano a emettere nei suoi confronti una condanna a morte nel 1989.
Rushdie si è dovuto nascondere per diversi anni. Poi c’è Taslima Nasrin, scrittrice femminista, medico e dissidente musulmana del Bangladesh, tuttora in esilio, a quasi quindici anni dalla prima fatwa emessa contro di lei.
Soprattutto, ho ricordato l’aggressione subita dall’ottantaduenne Naguib Mahfouz, egiziano, premio Nobel per la letteratura, pugnalato al collo trent’anni dopo aver scritto un libro che alcuni musulmani consideravano eretico.
Quindi, cominciare a trovare nella posta in arrivo minacce quali “Pagherai per le tue menzogne”, “Divertiti per quel poco che ti resta da vivere” e “Questo è l’ultimo avvertimento” da parte dei jihadisti non mi ha sconvolto.

Sono trascorsi tre anni, ma questi aspiranti assassini continuano con le loro ossessive intimidazioni: solo pochi mesi fa, il forum di una chat islamica ha pubblicato commenti secondo cui sarei presto finita uccisa, come il regista olandese Theo van Gogh.
“Il destino di Van Gogh non è molto diverso dal suo”, ha scritto un membro del forum che si firmava “mullah”. Un membro dal nome “Ibn el-Sheikh” ha risposto: “Nell’aldilà, intendi – ehm”. E mullah ha replicato: “Sì, sì – ehm”. Un altro membro ha aggiunto: “Inshallah”, che in arabo significa “Se Dio vuole”.
Ho avuto modo di capire che quei tizi non mi hanno affidato a Dio, né aspettano che attraversi i cancelli dell’inferno: a quanto pare, hanno inserito il mio nome in un elenco di obiettivi per spedirmici rapidamente.

Un’altra recente minaccia mi ha descritto come “una scrittrice che ora è condannata a morte”. Si tratta di una nota scritta in Urdu, la lingua principale del Pakistan.
La polizia ha scoperto che è partita non da Karachi, Lahore o Islamabad, ma da un Internet café del centro di Toronto, una delle città più liberali, cosmopolite e pluralistiche al mondo. Ritengo che i jihadisti stiano diventando sempre più spudorati. Ostentano le proprie libertà per schernire tutti noi. Lo testimonia il fatto che hanno inviato l’ultima minaccia a Daniela Santanchè tramite il sistema postale parlamentare, come a volersi dichiarare immuni dal controllo statale.

Quelli di noi che sostengono i diritti umani devono reagire utilizzando questi stessi diritti – libertà di pensiero, di coscienza e di espressione – per denunciare gli ipocriti e affermare i nostri valori liberali. Naturalmente verremo accusati di avere un desiderio di morte. E’ ironico, perché sono gli islamisti a essere fissati con la morte. Ma la verità è che mi rifiuto di temere la morte. Trovo più triste
sprecare la vita, che perderla.
In quanto donna musulmana abbastanza fortunata da vivere in occidente, insisto nel voler esercitare le mie preziose libertà. In quasi ogni altra parte del mondo, le donne musulmane non potrebbero mai sfidare la frangia radicale e denunciare la compiacenza tradizionale senza condannare se stesse al carcere o a un destino peggiore.
In questa parte del mondo ho la possibilità di pensare, esprimermi, sfidare ed essere sfidata senza rappresaglie governative. In nome di Dio, cosa posso fare di questo privilegio?
La risposta è una sola: utilizzarlo.
Naturalmente ho i miei momenti di dubbio. Una volta ho chiesto a Salman Rushdie per quale motivo dovrei scrivere un libro che metterebbe a rischio la mia vita. Mi ha risposto: “Un libro è più importante di una vita. Un pensiero che tu esprimi può provocare dissensi energici, veementi, anche violenti. Ma non può essere cancellato. Questo è il grande dono perenne che uno scrittore offre al mondo.”

L’Italia è fortunata ad avere un personaggio come Daniela Santanchè, che comprende il potere della voce. Ora più che mai ha bisogno delle nostre voci: schieriamole, per infrangere i silenzi mortali.
Irshad Manji

(traduzione di Studio Brindani)"

martedì, gennaio 16, 2007

Sonetos Fùnebres, XI

Ovvero:La morte ti fa "Beautiful"


E' morta Sally Spectra! Una prece.

[A causa di un cancro allo stomaco, la settantaduenne attrice statunitense Darlene Conley, dopo tre mesi di malattia, è deceduta sabato 14 gennaio nella sua casa di Los Angeles circondata dall'affetto dei parenti e degli amici]

sabato, gennaio 13, 2007

CASTRUM DOLORIS, IV



Ovvero: Il binario per l'Inferno è lastricato di buone intenzioni.

"Sono le due steli inaugurate sabato 23 in occasione della dedicazione della stazione Termini a Giovanni Paolo II: un altro esempio concreto, tangibile, dell’amore di questa città per il Papa che le ha riservato sempre un posto speciale nel suo cuore." Così veniva spiegato nell'incipit di un articolo di "Roma-Sette" ,l'inserto dell'Avvenire, del 27 dicembre 2006.

Nelle stesse ore non si facevano attendere le reazioni indignate della Rosa nel Pugno e della sinistra radicale dei DS capitolini e delle associazioni anticlericali. Ecco un esempio della loro bella prosa: "Approfittando delle feste natalizie e dello sciopero dei giornalisti, con un colpo di mano che non ha precedenti, il Sindaco Veltroni ha organizzato una cerimonia-blitz per intitolare la Stazione Termini a Giovanni Paolo II.
I Radicali di Sinistra - www.radicalidisinistra.it - condannano la scelta di Veltroni che, in un solo colpo, si è allineato al clima di confessionalismo e di opportunismo verso la Chiesa cattolica ed ha ignorato le migliaia di contestazioni che erano state sollevate, mesi fa, all'annuncio dell'iniziativa.
Per i Radicali di Sinistra la pretesa di intitolare al papa Giovanni Paolo II la stazione Termini è una grave ferita al carattere laico e plurale di Roma, che solo in minima parte si riconosce nella figura del Papa defunto; sarebbe stato preferibile che la stazione centrale della Capitale italiana venisse intitolata ad un grande profilo della cultura e della civilità italiana verso il quale tutta la Città potesse identificarsi, non ad un capo religioso. Con questa scelta, Veltroni ha svenduto l'immagine di Roma per agevolare la sua corsa verso Palazzo Chigi, anticipando che una sua futura guida del Centrosinistra sarà in ogni caso all'insegna di un reverenziale servilismo nei confronti delle gerachie vaticane e di irrispettosa indifferenza per ogni convinzione che non sia quella cattolica."

E Amen.

Dopo aver invitato gli "Illuministi" romani a protestare nel forum del Comune di Roma, è stato annunciato un sit-in di protesta all'interno della Stazione Termini per la mattina di sabato 13 gennaio per informare gli ignari viaggiatori della deriva clericale -anzi, visto il luogo: del "deragliamento clericale"- di cui erano inconsapevoli vittime!
Meditate: migliaia di cittadini italiani e straniei costretti a vedere frustrate le proprie convinzioni, a veder schiacciata da una oscurantista iscrizione la propria libertà di coscienza ogni qual volta dovevano scendere e salire da un treno!
Che pena!

Ma il buon Veltroni, ha saputo dissolvere ogni protesta chiarendo il qui pro quo: la stazione Termini semplicemente non è mai stata dedicata a Giovanni Paolo II.

La manifestazione tanto rumorosamente annunciata è stata perciò annullata e l'accaduto ha dato la possibilità agli ex manifestanti di riaffermare la lealtà dei DS nei confronti di Walter Veltroni e della compattezza di ideali con cui la Sinistra si dedica al buon governo dell'Urbe.


I democratici di Sinistra, i Radicali e ogni specie e sottospecie di laicisti potrà, perciò, prendere tranquillamente il treno senza rimanere più (troppo) turbato da quelle "inquitanti" scritte. Comunque bisogna ammettere che le loro (ridicole) paure un fondo di verità dovevano pur averle!

La mattina del 23 dicembre 2006 alla presenza delle autorità civili e religiose si è svolta nella stazione Termini di Roma una cerimonia che è stata universalmente interpretata come la dedicazione della maggiore stazione ferroviaria di Roma e d'Italia al papa polacco di santa memoria.
Forse nel clima buonista crato dalle luci, dagli addobbi e dal suono delle zampogne, i partecipanti all'evento sono caduti vittima di un incantamento? Eppure, se travisamento dell'operato di Veltroni c'è stato, c'è da incolpare soltanto il piissimo "Uolter" che ancora "corpore insepulto" si era espresso favorevolmente per dedicare la stazione Termini al defunto papa Wojtyla.
Infatti,nella commemorazione ufficiale organizzata il 5 Aprile 2005 nella sala Giulio Cesare (sede del governo capitolino) il sindaco Walter Veltroni annunziò di voler procedere presso le Ferrovie dello Stato affinché la principale stazione ferroviaria della capitale fosse dedicata a Giovanni Paolo II: cosa poteva fare la città di Roma per manifestare l'affetto e la stima per Giovanni Paolo II, il grande papa viaggiatore, se non dedicargli lo scalo ferroviario principale dell'Urbe?

Si vede però che nel frattempo Veltroni, passata la commozione del momento, si è accorto che si può continuare a vivere anche senza Karol Wojtyla e che i pellegrini e i turisti comprano i biglietti per Roma-Termini per venire a veder il papa anche se si tratta di Joseph Ratzinger, perciò il sindaco di Roma ha così chiarito "l'equivoco":
"Il nome di Giovanni Paolo II, dal 23 dicembre compare in due steli che si trovano nell'interno della stazione. La cerimonia che si è svolta quel giorno non è stata dunque una intitolazione, per il semplice motivo che la stazione continua a chiamarsi così, "Termini", con il nome che evoca la storia millenaria di Roma, che ormai fa parte dell'identità della città e della consuetudine di milioni di persone."

Le iscrizioni perciò non sono delle scritte dedicatorie dell'edificio in cui si trovano, ma "solo" delle stele: delle stele funerarie, dei cenotafii alla memoria di Giovanni Paolo II eretti dalla giunta capitolina per manifestare l'affettuoso ricordo della multietnica, multiculturale e multireligiosa metropoli per una grande personalità che con la sua presenza ventisettennale nell'Urbe ne ha arricchito la pluralità culturale e religiosa.
La stazione Termini pertanto non è stata mai intitolata a Giovanni Paolo II, e Veltroni sembra quasi chiedersi come sia stato possibile che sia stata messa in giro una simile diceria.

Perchè allora i "dolmen" dedicati a papa Wojtyla sono stati posti dentro Termini e non fuori o in qualunque altro posto della Città Eterna, magari in Via della Conciliazione?
Domanda ingenuamente retorica: quale posto con un maggior afflato simbolico avvrebbe potuto scovare l'amministrazione capitolina per issare un catafalco al grande papa dei viaggi internazionali, dell'incontro tra le fedi e le culture, se non la Stazione Termini?

L’architetto, ideatore e progettista, Roberto Malfatto così parla delle due creazioni: “L’ispirazione è nata dalla semplicità e dal rigore che Giovanni Paolo II esprimeva, ma anche dall’innalzamento verso il cielo. Abbiamo, quindi, pensato ad un oggetto che si innalzasse verso il cielo, che avesse un coronamento particolarmente significativo e particolarmente ricco. Una forma semicircolare, che in qualche modo evoca – secondo noi – delle immagini legate anche all’iconografia ecclesiastica".

Le stele sono entrambe alte 12 metri e recano la (forse) poco equivocabile iscrizione “Stazione Termini-Giovanni Paolo II”.

mercoledì, gennaio 10, 2007


RINTRONATI PATOLOGICI

Ovvero:
Io confesso di non fare i salti di gioia (come alcuni "cattolici romani") per la riutilizzazione di un trono papale "sponsor by" Leone XIII, nè tantomeno dolermene, lagrimando, per un presunto tradimento dello "spirito conciliare".
Il fatto è che il trono c'è e, pur avento più di un secolo sul "groppone" (anzi sullo schienale), è in ottime condizioni, giacchè sarà sembrato un peccato (veniale, intendiamoci, ma pur sempre "davvero un vero peccato!") che marcisse in un angolo dell'apparamento nobile. Benedetto XVI, e quelli che lo servono, sono bavaresi e perciò hanno grande familiarità con l'ebanistica baroccheggiante che sommerge il mobilio ecclesiastico intagliato in onde ricciolute placcate d'oro e di smalti.

E' da ricordare ai turbati che vedono in queste "novità" i sintomi di una temuta "Restaurazione" o agli euforici che attendono a breve il ripristino dei flabelli e della sedia gestatoria, del fanone e del bacio della sacra pantofola, che un vero cattolico tradizionalista dovrebbe più che rallegrarsi per il recupero di un pezzo da museo lamentarsi e sempre lamentarsi, per l'eliminazione del triregno dallo stemma pontificio e per l'abdicazione del titolo di Patriarca d'Occidente: decisioni entrambe veramente e profondamente demagogiche!

Nel caso del rispolvero del trono con gli angioletti dorati trattasi perciò di accademica questione da risolversi tra arredatori d'interni: nell'Aula Nervi stà bene la bianca poltrona dai grandi braccioli bianchi, mentre nella Sala Regia stà bene il tronetto dorato con tanto di predella di tessuto scarlatto.
Giovanni XXIII che su quel medesimo trono fu incoronato non è forse la bandiera di ogni preteso e pretestuoso progressismo ecclesiale?
E Paolo VI, che cambiò la tappezzeria rossa da pareti, pavimenti e poltrone per sostituirla con più ascetici (ma ugualmente costosi)damaschi bianchi, non è per la maggior parte dei contemporanei un papa di un lontano passato al pari di un Paolo V, di un Paolo IV e un Paolo III?

Non vedo quale problema possa fare che un Papa del ventunesimo secolo sia assiso su un trono in stile tardo-barocco -invece delle più austere ma non meno ingombranti (e nemmeno meno costose) bianche poltrone dovute al restiling montiniano- quando invece non fà problema che le pareti, in cui si trova il trono tutto angioli e festoni, sia decorato da affreschi che celebrano il saccheggio della cristianissima Costantinopoli da parte dei veneziani e la mattanza degli ugonotti nella "Strage di San Bartolomeo"; la vittoria contro i Turchi a Lepanto e la vittoria della Lega Lombarda sull'Imperatore Barbarossa costretto, quale segno della sconfitta, a piegare il collo sotto il piede di un soddisfatto Papa Alessandro III: "Papa vere Imperator est".

Post Scriptum: Confesso che m'era sfuggito che, dopo la mozzetta e il camauro bordati d'ermellino e prima del trono, Benedetto XVI (durante l'udienza di mercoledì 6 settembre 2006) ha rimeso in auge il saturnio!

domenica, gennaio 07, 2007

L'allodola di Frisinga /7

Sive:Omelia in Epifania D.N.J.C.



"Chi sono dunque i "Magi" di oggi, e a che punto sta il loro "viaggio" e il nostro "viaggio"?

Torniamo, cari fratelli e sorelle, a quel momento di speciale grazia che fu la conclusione del Concilio Vaticano II, l’8 dicembre 1965, quando i Padri conciliari indirizzarono all’umanità intera alcuni "Messaggi".

Il primo era rivolto "Ai Governanti", il secondo "Agli uomini di pensiero e di scienza". Sono due categorie di persone che in qualche modo possiamo veder raffigurate nelle figure evangeliche dei Magi.
Ne vorrei poi aggiungere una terza, alla quale il Concilio non indirizzò un messaggio, ma che fu ben presente alla sua attenzione nella Dichiarazione conciliare Nostra aetate. Mi riferisco alle guide spirituali delle grandi religioni non cristiane.
A distanza di duemila anni, possiamo dunque riconoscere nelle figure dei Magi una sorta di prefigurazione di queste tre dimensioni costitutive dell’umanesimo moderno: la dimensione politica, quella scientifica e quella religiosa. L’Epifania ce lo mostra in stato di "pellegrinaggio", cioè in un movimento di ricerca, spesso un po’ confusa, che, in definitiva, ha il suo punto d’arrivo in Cristo, anche se qualche volta la stella si nasconde.
Al tempo stesso ci mostra Dio che a sua volta è in pellegrinaggio verso l’uomo. Non c’è solo il pellegrinaggio dell’uomo verso Dio; Dio stesso si è messo in cammino verso di noi: chi è infatti Gesù, se non Dio uscito, per così dire, da se stesso per venire incontro all’umanità? Per amore Egli si è fatto storia nella nostra storia; per amore è venuto a recarci il germe della vita nuova (cfr Gv 3,3-6) e a seminarla nei solchi della nostra terra, affinché germogli, fiorisca e porti frutto.

Vorrei oggi fare miei quei Messaggi conciliari, che nulla hanno perso della loro attualità. Come per esempio là dove, nel Messaggio rivolto ai Governanti, si legge: "Tocca a voi di essere sulla terra i promotori dell’ordine e della pace tra gli uomini. Ma non dimenticate: è Dio, il Dio vivo e vero, che è il Padre degli uomini. Ed è il Cristo, suo Figlio eterno, che è venuto per dirci e farci comprendere che siamo tutti fratelli. E’ Lui, il grande artefice dell’ordine e della pace sulla terra, perché è Lui che conduce la storia umana e che, solo, può indurre i cuori a rinunciare alle passioni perverse che generano la guerra e il dolore". Come non riconoscere in queste parole dei Padri conciliari la traccia luminosa di un cammino che, solo, può trasformare la storia delle Nazioni e del mondo?

E ancora, nel "Messaggio agli uomini di pensiero e di scienza", leggiamo: "Continuate a cercare, senza mai rinunciare, senza mai disperare della verità" – è questo infatti il grande pericolo: perdere interesse alla verità e cercare solo il fare, l’efficienza, il pragmatismo! – "Ricordate, continuano i Padri conciliari, le parole di un vostro grande amico, sant’Agostino: «Cerchiamo con il desiderio di trovare, e troviamo con il desiderio di cercare ancora». Felici sono coloro che, possedendo la verità, la continuano a cercare, per rinnovarla, per approfondirla, per donarla agli altri. Felici sono coloro che, non avendola trovata, marciano verso di essa con cuore sincero: che essi cerchino la luce futura con i lumi di oggi, fino alla pienezza della luce!".

Questo era detto nei due Messaggi conciliari. Ai capi dei popoli, ai ricercatori e agli scienziati, oggi più che mai, è necessario affiancare i rappresentanti delle grandi tradizioni religiose non cristiane, invitandoli a confrontarsi con la luce di Cristo, che è venuto non ad abolire, ma a portare a compimento quanto la mano di Dio ha scritto nella storia religiosa delle civiltà, specialmente nelle "grandi anime", che hanno contribuito a edificare l’umanità con la loro sapienza e i loro esempi di virtù.

Cristo è luce, e la luce non può oscurare, ma solo illuminare, rischiarare, rivelare. Nessuno pertanto abbia paura di Cristo e del suo messaggio! E se nel corso della storia i cristiani, essendo uomini limitati e peccatori, hanno talora potuto tradirlo con i loro comportamenti, questo fa risaltare ancor di più che la luce è Cristo e che la Chiesa la riflette solo rimanendo unita a Lui."

mercoledì, gennaio 03, 2007

Jesus Hominis Salvator

Sive: Ego vobis Romae propitio ero



Post Scriptum: O Bone Jesu, exaudime!

martedì, gennaio 02, 2007

AMICIZIA DI FERRO

Ovvero: Buon Compleanno (ovunque tu sia)!"



Post scriptum: Ed ero contentissimo.