mercoledì, gennaio 17, 2007

Santa anche subito /7

Ovvero: Lettera aperta all'onorevole Daniela Santanchè
(pubblicata dal Foglio marcoledì 17 gennaio 2006).



[Irshad Manji scrittrice e giornalista canadese di origine pachistana è nata in Uganda nel 1968. E’ membro anziano presso la Fondazione europea per la democrazia e autrice del best-seller internazionale “Quando abbiamo smesso di pensare? Un’islamica di fronte ai problemi dell’islam” (Guanda), una veemente critica “dall’interno” del conservatorismo dell’islam.]

"In quanto musulmana riformista, mi sento molto vicina a Daniela Santanchè.
Fino a poco tempo fa avrei potuto reagire all’ultima minaccia di morte che ha ricevuto come la maggior parte di noi ancora reagisce: con tristezza, magari disgusto, ma soprattutto silenzio.
Ora non posso più mantenere questo silenzio: condivido la sua situazione, perché i jihadisti perseguitano anche me.
Quando mi sveglio, per prima cosa controllo la mia e-mail, per vedere se, nella notte, ho ricevuto minacce di morte. Quindi disattivo il sistema di allarme per recuperare il giornale del mattino. Mentre bevo il caffè guardo fuori dalle finestre antiproiettile, vicine alla mia cassetta delle lettere, che la polizia ha sigillato per impedire che vi possano introdurre lettere bomba. Mi è anche stato consigliato di non portare con me un cellulare, la cui tecnologia – il posizionamento satellitare globale – permette ai miei nemici di rintracciarmi.

La massima allerta è scattata tre anni fa, quando ho pubblicato il mio libro “Quando abbiamo smesso di pensare? Un’islamica di fronte ai problemi dell’islam”.
Nel libro, che contesta il sessismo, l’antisemitismo e altri pregiudizi in cui credono moltissimi miei fratelli musulmani, faccio notare che la mia fede è diventata un focolaio di intolleranza, soprattutto nei confronti delle donne e degli ebrei. Sostengo che i musulmani devono seguire le parti progressiste della nostra storia, anziché lasciare che gli estremisti definiscano per noi la religione in cui dobbiamo credere.
Supplico i musulmani perché si dichiarino contrari agli omicidi d’onore, alle lapidazioni, agli attentati kamikaze e ad altri crimini commessi in nome di Dio.

Sapevo che, esprimendo quelle opinioni, avrei potuto mettere a rischio la mia vita. Durante la stesura del libro, ci sono stati momenti in cui sospiravo, tra me e me: “Se non è questo paragrafo a decretare la mia morte, sarà il prossimo.” Ho pensato anche alle anime coraggiose che mi hanno preceduto: Salman Rushdie, il cui romanzo “I versetti satanici” è stato talmente vituperato dai fondamentalisti islamici da indurre il governo iraniano a emettere nei suoi confronti una condanna a morte nel 1989.
Rushdie si è dovuto nascondere per diversi anni. Poi c’è Taslima Nasrin, scrittrice femminista, medico e dissidente musulmana del Bangladesh, tuttora in esilio, a quasi quindici anni dalla prima fatwa emessa contro di lei.
Soprattutto, ho ricordato l’aggressione subita dall’ottantaduenne Naguib Mahfouz, egiziano, premio Nobel per la letteratura, pugnalato al collo trent’anni dopo aver scritto un libro che alcuni musulmani consideravano eretico.
Quindi, cominciare a trovare nella posta in arrivo minacce quali “Pagherai per le tue menzogne”, “Divertiti per quel poco che ti resta da vivere” e “Questo è l’ultimo avvertimento” da parte dei jihadisti non mi ha sconvolto.

Sono trascorsi tre anni, ma questi aspiranti assassini continuano con le loro ossessive intimidazioni: solo pochi mesi fa, il forum di una chat islamica ha pubblicato commenti secondo cui sarei presto finita uccisa, come il regista olandese Theo van Gogh.
“Il destino di Van Gogh non è molto diverso dal suo”, ha scritto un membro del forum che si firmava “mullah”. Un membro dal nome “Ibn el-Sheikh” ha risposto: “Nell’aldilà, intendi – ehm”. E mullah ha replicato: “Sì, sì – ehm”. Un altro membro ha aggiunto: “Inshallah”, che in arabo significa “Se Dio vuole”.
Ho avuto modo di capire che quei tizi non mi hanno affidato a Dio, né aspettano che attraversi i cancelli dell’inferno: a quanto pare, hanno inserito il mio nome in un elenco di obiettivi per spedirmici rapidamente.

Un’altra recente minaccia mi ha descritto come “una scrittrice che ora è condannata a morte”. Si tratta di una nota scritta in Urdu, la lingua principale del Pakistan.
La polizia ha scoperto che è partita non da Karachi, Lahore o Islamabad, ma da un Internet café del centro di Toronto, una delle città più liberali, cosmopolite e pluralistiche al mondo. Ritengo che i jihadisti stiano diventando sempre più spudorati. Ostentano le proprie libertà per schernire tutti noi. Lo testimonia il fatto che hanno inviato l’ultima minaccia a Daniela Santanchè tramite il sistema postale parlamentare, come a volersi dichiarare immuni dal controllo statale.

Quelli di noi che sostengono i diritti umani devono reagire utilizzando questi stessi diritti – libertà di pensiero, di coscienza e di espressione – per denunciare gli ipocriti e affermare i nostri valori liberali. Naturalmente verremo accusati di avere un desiderio di morte. E’ ironico, perché sono gli islamisti a essere fissati con la morte. Ma la verità è che mi rifiuto di temere la morte. Trovo più triste
sprecare la vita, che perderla.
In quanto donna musulmana abbastanza fortunata da vivere in occidente, insisto nel voler esercitare le mie preziose libertà. In quasi ogni altra parte del mondo, le donne musulmane non potrebbero mai sfidare la frangia radicale e denunciare la compiacenza tradizionale senza condannare se stesse al carcere o a un destino peggiore.
In questa parte del mondo ho la possibilità di pensare, esprimermi, sfidare ed essere sfidata senza rappresaglie governative. In nome di Dio, cosa posso fare di questo privilegio?
La risposta è una sola: utilizzarlo.
Naturalmente ho i miei momenti di dubbio. Una volta ho chiesto a Salman Rushdie per quale motivo dovrei scrivere un libro che metterebbe a rischio la mia vita. Mi ha risposto: “Un libro è più importante di una vita. Un pensiero che tu esprimi può provocare dissensi energici, veementi, anche violenti. Ma non può essere cancellato. Questo è il grande dono perenne che uno scrittore offre al mondo.”

L’Italia è fortunata ad avere un personaggio come Daniela Santanchè, che comprende il potere della voce. Ora più che mai ha bisogno delle nostre voci: schieriamole, per infrangere i silenzi mortali.
Irshad Manji

(traduzione di Studio Brindani)"

1 commento:

Duque de Gandìa ha detto...

Articolo di Magdi Allam sul Corriere della Sera, 10 gennaio 2007:
Santanchè, minacce per la battaglia anti-velo

Una lettera alla parlamentare di An: nel testo in arabo e inglese riferimenti a Theo Van Gogh e Hirsi Ali. «E' giunta la tua ora»

ROMA — La minaccia di morte è arrivata alla sua casella postale in Parlamento. Daniela Santanchè non nasconde di aver avuto paura quando ieri verso le 19, aprendo la busta proveniente da Londra, ha visto due fogli, uno in lingua araba, l'altro con un testo in inglese, attorniato dalle foto di Theo Van Gogh e Ayaan Hirsi Ali. Sopra e sotto le foto compaiono due scritte a mano in arabo: «Questa è l'ora della mia liberazione» e poi «È giunta la tua ora!». Il significato è inequivocabile, tenendo conto dell'abbinamento con la foto del regista olandese barbaramente sgozzato nel centro di Amsterdam il 2 novembre 2004 dal terrorista islamico Mohammad Bouyeri, dopo essere stato condannato come nemico dell'islam per aver diretto il cortometraggio «Submission», in cui si denuncia lo stato di violenza a cui sono sottoposte le donne nei paesi musulmani. Da quel giorno anche la deputata olandese Hirsi Ali, pure lei condannata a morte quale autrice del film, vive in clandestinità e ha finito per riparare negli Stati Uniti. Sotto le loro foto, compare una terza foto di una donna completamente velata, che riecheggia l'immagine in copertina del libro della Santanché «La donna negata. Dall'infibulazione alla liberazione». E «liberazione» è la parola che ritroviamo nel testo della minaccia di morte. Quest'insieme è a corredo di un breve testo in inglese, tratto dal sito della Bbc del 23 ottobre scorso, in cui si spiega che la Santanché «ha detto che il velo non è richiesto dal Corano» e che «è stata definita un'infedele da un imam».

In effetti la Santanché vive sotto scorta da quando, lo scorso 20 ottobre, a seguito della trasmissione Controcorrente su SkyTg24, fu pesantemente apostrofata come «un'infedele» che «semina l'odio», da parte di Ali Abu Shwaima, imam della moschea di Segrate e uno dei fondatori dell'Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia). A suo avviso la Santanché è una «ignorante» per aver sostenuto che «il velo non è un simbolo religioso, non è prescritto dal Corano».
Per Abu Shwaima, che sogna di islamizzare l'Italia entro un decennio e che risulta poligamo sul certificato di stato di famiglia, «il velo è una legge che Dio ha mandato. È Dio che lo dice, l'uomo non può negarlo». Quindi la Santanché rischia la morte per il semplice fatto che sostiene che il velo non è un precetto islamico e difende il diritto delle musulmane a non indossarlo. Un diritto che, stando a un sondaggio pubblicato sulla sua rubrica su Il Giornale di ieri, viene rivendicato dall'85% delle musulmane in Italia.

Non stupisce che la seconda pagina in arabo della condanna a morte della Santanché è un'aberrante apologia del velo rivolto alle donne musulmane residenti in Occidente: «Ci sono stati degli appelli peccaminosi che sono riusciti a traviare le musulmane, facendole togliere il velo e lavorare in tutti i settori. Qual è stato il risultato? Sono precipitate nei più infimi livelli della dissolutezza e della prostituzione. La donna moderna, come la definiscono, è uno strumento e un gioco nelle mani dei pervertiti e dei malvagi.

O giovani musulmane, l'islam ha eretto una solida barriera per proteggerti dal libertinaggio. Il tuo hijab (velo) è la tua bellezza ed esso è preposto alla tutela del tuo onore». Segue una pesante invettiva contro la promiscuità: «La separazione netta tra uomini e donne è una necessità morale. La promiscuità è la fonte di tutti i mali e la causa di tutte le depravazioni.
O giovani musulmane, siate come Allah e il suo Profeta vi hanno voluto, non come vi vogliono i fautori della sedizione e della degenerazione».

A rischiare la vita è anche un italiano di origine egiziana, Mohamed Ahmed, conduttore di La9, una televisione privata di Padova, che da tempo denuncia l'estremismo e il terrorismo islamico. Ebbene la scorsa notte hanno appiccato il fuoco alla sua auto, una Saab 900, parcheggiata sotto la sua casa. «È un atto di intimidazione — ha detto Mohamed — nei mesi scorsi ho ricevuto minacce di morte telefonicamente e per strada da parte di alcuni islamisti che frequentano il quartiere di via Anelli, che è vicino alla sede della mia redazione». Ma Mohamed non ha paura. Ha denunciato tutto e ha raccolto la solidarietà di molti padovani: «Oggi sono veramente fiero di essere italiano — ci ha detto — per me è un dovere continuare a impegnarmi per il bene dell'Italia».