sabato, marzo 31, 2007

Sovrane Passioni [3]

Ovvero: Sentencia y Macarena





giovedì, marzo 29, 2007

ADVERSUS HAERESES, X

Ovvero: Stralcio della panegirica catechesi pronunciata dal sedici volte Benedetto a lode e gloria di Sant'Ireneo vescovo di Lione!

"La Chiesa del II secolo era minacciata dalla cosiddetta gnosi, una dottrina la quale affermava che la fede insegnata nella Chiesa sarebbe solo un simbolismo per i semplici, che non sono in grado di capire cose difficili; invece, gli iniziati, gli intellettuali — gnostici, si chiamavano — avrebbero capito quanto sta dietro questi simboli, e così avrebbero formato un cristianesimo elitario, intellettualista.
Ovviamente questo cristianesimo intellettualista si frammentava sempre più in diverse correnti con pensieri spesso strani e stravaganti, ma attraenti per molti.
Un elemento comune di queste diverse correnti era il dualismo, cioé si negava la fede nell'unico Dio Padre di tutti, Creatore e Salvatore dell'uomo e del mondo. Per spiegare il male nel mondo, essi affermavano l’esistenza, accanto al Dio buono, di un principio negativo. Questo principio negativo avrebbe prodotto le cose materiali, la materia.

Radicandosi saldamente nella dottrina biblica della creazione, Ireneo confuta il dualismo e il pessimismo gnostico che svalutavano le realtà corporee. Egli rivendicava decisamente l'originaria santità della materia, del corpo, della carne, non meno che dello spirito.

Ma la sua opera va ben oltre la confutazione dell'eresia: si può dire infatti che egli si presenta come il primo grande teologo della Chiesa, che ha creato la teologia sistematica; egli stesso parla del sistema della teologia, cioé dell'interna coerenza di tutta la fede. Al centro della sua dottrina sta la questione della “regola della fede” e della sua trasmissione. Per Ireneo la “regola della fede” coincide in pratica con il Credo degli Apostoli, e ci dà la chiave per interpretare il Vangelo, per interpretare il Credo alla luce del Vangelo. Il simbolo apostolico, che è una sorta di sintesi del Vangelo, ci aiuta a capire che cosa vuol dire, come dobbiamo leggere il Vangelo stesso.

Di fatto il Vangelo predicato da Ireneo è quello che egli ha ricevuto da Policarpo, Vescovo di Smirne, e il Vangelo di Policarpo risale all’apostolo Giovanni, di cui Policarpo era discepolo. E così il vero insegnamento non è quello inventato dagli intellettuali al di là della fede semplice della Chiesa. Il vero Evangelo è quello impartito dai Vescovi che lo hanno ricevuto in una catena ininterrotta dagli Apostoli. Questi non hanno insegnato altro che proprio questa fede semplice, che è anche la vera profondità della rivelazione di Dio. Così — ci dice Ireneo — non c'è una dottrina segreta dietro il comune Credo della Chiesa. Non esiste un cristianesimo superiore per intellettuali. La fede pubblicamente confessata dalla Chiesa è la fede comune di tutti. Solo questa fede è apostolica, viene dagli Apostoli, cioé da Gesù e da Dio. Aderendo a questa fede trasmessa pubblicamente dagli Apostoli ai loro successori, i cristiani devono osservare quanto i Vescovi dicono, devono considerare specialmente l'insegnamento della Chiesa di Roma, preminente e antichissima. Questa Chiesa, a causa della sua antichità, ha la maggiore apostolicità, infatti trae origine dalle colonne del Collegio apostolico, Pietro e Paolo. Con la Chiesa di Roma devono accordarsi tutte le Chiese, riconoscendo in essa la misura della vera tradizione apostolica, dell'unica fede comune della Chiesa. Con tali argomenti, qui molto brevemente riassunti, Ireneo confuta dalle fondamenta le pretese di questi gnostici, di questi intellettuali: anzitutto essi non posseggono una verità che sarebbe superiore a quella della fede comune, perché quanto essi dicono non è di origine apostolica, è inventato da loro; in secondo luogo, la verità e la salvezza non sono privilegio e monopolio di pochi, ma tutti le possono raggiungere attraverso la predicazione dei successori degli Apostoli, e soprattutto del Vescovo di Roma. In particolare - sempre polemizzando con il carattere “segreto” della tradizione gnostica, e notandone gli esiti molteplici e fra loro contraddittori - Ireneo si preoccupa di illustrare il genuino concetto di Tradizione apostolica...

La Tradizione apostolica è “pubblica”, non privata o segreta. Per Ireneo non c'è alcun dubbio che il contenuto della fede trasmessa dalla Chiesa è quello ricevuto dagli Apostoli e da Gesù, dal Figlio di Dio. Non esiste altro insegnamento che questo. Pertanto chi vuole conoscere la vera dottrina basta che conosca “la Tradizione che viene dagli Apostoli e la fede annunciata agli uomini”: tradizione e fede che “sono giunte fino a noi attraverso la successione dei vescovi” (Adv. Haer. 3,3,3-4). Così successione dei Vescovi, principio personale e Tradizione apostolica, principio dottrinale coincidono."

lunedì, marzo 26, 2007

La Divina Pastora

Ovvero: Angela Merkel

Il 25 marzo 2007 a Berlino nel discorso celebrativo per il cinquantesimo anniversario della nascita della Comunità Europea "la signora Cancelliera" Angela Merkel ha ricordato espressamente anche le radici giudaico-cristiane dell'Europa.

"Per me - ha detto la Merkel poco dopo aver ricordato l'importanza della dignità umana e della libertà - questa concezione dell'uomo deriva anche dalle radici giudaico-cristiane dell'Europa".

sabato, marzo 24, 2007

giovedì, marzo 22, 2007

visioni private /15



Ovvero: più che un articolo , un lungo lenzuolo ad opera di Maurizio Crippa [sul Foglio di mercolesì 21 marzo 2007] con cui egli fascia le piaghe di Cristo provocate da "I cento chiodi" di Ermanno Olmi.

CROCIFIGGERE I LIBRI
Un prof. di religione inchioda la biblioteca e cerca tra gli umili la fede autentica. L’ultimo film di Olmi contro la religione (“che non ha mai salvato nessuno”) si presta a equivoci simbolici. E Magris ne approfitta


"I chiodi sono proprio dei chiodoni, una spanna di ferro brunito come quelli della croce di Gesù. I libri non sanguinano, nella loro quint’essenza di lettera morta. Il professore che inchioda i libri ai muri e al pavimento ha già barba e capelli e occhi da Nazareno, ma per il momento è solo un professore di Filosofia delle religioni, giovane e di successo. Che a un certo punto non ne può più, delle religioni e del successo. Perché “le religioni non hanno mai salvato nessuno”, come dice a una bella studentessa, e guai a chi “nella sua vita ha amato più i libri che gli uomini”, come dice a un vecchio monsignore.
E’ morta dottrina, e bisogna ribellarsi.

Butterà tutto e se ne andrà in riva al Po, a cercare con gli umili e i semplici il miracolo dell’amore e della fede autentica, no religione. Parafrasi cristologica, direbbero i dottori del tempio.
Il regista che vuole parlarci del “Cristo delle strade, non l’idolo degli altari e degli incensi”, il regista che ritiene libri e altari solo “comoda formalità, ipocrita convenienza o addirittura pretesto di sopraffazione”, il regista che vede nel cristianesimo la “ribellione che Cristo compie nel disturbare la vita del tempio”, un cristianesimo senza dottrina e fuori dalle chiese, il regista di questo vigoroso attacco alla religione si chiama Ermanno Olmi.

Non un dissacratore di ogni Dio e di ogni fede, non un cascame dell’eterna commedia anticlericale all’italiana. Ma un artista profondamente religioso, anzi un cineasta cattolico, definizione troppo stretta e troppo larga che però lui si è portato dignitosamente sulle spalle tutta la vita, quando portarla pesava
più che adesso. Di questo suo “Cento chiodi”, che uscirà nelle sale il 30 marzo, ha già detto che è il suo ultimo film di narrazione.

E dunque l’ha girato con “la consapevolezza che l’ultimo atto riassume il senso di tutta la tua esistenza”. Lo ha riassunto così: “Mi sono chiesto: che cosa racconto
nel mio ultimo film? Meglio ancora: di chi parlo? L’unico interlocutore che continua a interrogarmi, senza che io riesca a darmi risposte rassicuranti, è Cristo, una figura inquietante che da duemila anni occupa uno spazio della nostra esistenza pur non avendo mai scritto un libro”. E ha cavato un film che vuole smascherare “la non verità della religione”, contrapposta alla fede, come dice René Girard, con frasi anche violente, dove si accusa “Dio, il massacratore dell’umanità”, che “il giorno del giudizio sarà Lui a dover rendere conto della sofferenza dell’umanità”.

Un film che si presenta alla prima scena con un gesto non già blasfemo (e perché mai? il cristianesimo non è una religione del Libro), ma certamente provocatorio. Una ribellione contro la religione intesa come teologia, dogma. Non l’istituzione interessa a Olmi, ma il Cristo “uomo, uno come noi, che possiamo ancora incontrare in un qualsiasi giorno della nostra esistenza: in qualsiasi tempo e luogo”. Una ribellione che ha qualcosa a che fare con il rifiuto della storia – il passato di una religione – in nome di una fede da ritrovare, inchiodando il passato al proprio passato. Temi suggestivi, carne in cui affondare i denti.
Poiché oggi che non è solo “il sacro” a rivendicare il suo posto nella storia, ma a rivendicarlo è proprio il nome e la storia di quel “Cristo” che, metaforicamente, Olmi affida al viso di Raz Degan. Oggi che la cultura è al bivio tra non dimenticare le proprie radici o scegliere la strada di una fede egoriferita, che si arrovella con scetticismo attorno alle sue domande.

In attesa di vederlo al cinema, già si può azzardare che il film di Olmi abbia colto il punto, e che troverà ascolto in primis tra i critici della religione: non tanto gli Odifreddi ottocenteschi, ma più ancora i cultori di quella religiosità secolarizzata, un po’ parente povera della gnosi, che ama meditare spiritualisticamente al riparo dalle ingerenze di ogni fede rivelata. Insomma quella dell’intellettualità alla Corrado Augias e Mauro Pesce e alle loro indagini su Gesù. Del resto un piccolo saggio di come verrà trattato questo piccolo grande evento culturale lo ha già offerto Claudio Magris, uno dei pochi fortunati ad aver già visto i “Cento chiodi” e che ha firmato per Federico Motta Editore la prefazione al volume fotografico che accompagnerà l’uscita del film, e che contiene anche una conversazione tra il regista e il biblista Gianfranco Ravasi.

Nel suo breve scritto, Magris prende il film proprio dal suo verso più controverso, come un richiamo a una sacralità diffusa, senza dogmi e senza storia, facendo forza (e banalizzando un po’) sulla teologia protestante, sulla distinzione tra fede e religione cara a Karl Barth, sul rifiuto del “Dio tappabuchi” denunciato da Dietrich Bonhoeffer. Ma, soprattutto, per Magris Cristo è un simbolo, un ideale a-storico, disincarnato e dunque malleabile: “E’ uno degli uomini (forse anche molti, sconosciuti e ignoti) che possono diventare Cristo, con la loro vita, o meglio nei quali il sacro – Dio, il divino, il Verbo – si può incarnare, com’è accaduto una volta in Galilea”.
Così in tre pagine riesce in un’impresa di riscrittura idealistica del cristianesimo come neanche Dan Brown, infila un’interpretazione ereticale via l’altra.

Spiega Magris che “la fede non è un contenuto dottrinale, bensì una sostanza della persona”.
Che il Vangelo va “scoperto sotto le apparenze di una realtà quotidiana, lontana – nel tempo e nello spazio – da quella storia in Galilea e dalle costruzioni filosofiche e teologiche costruite nei secoli intorno a quella storia”.
Si fa scortare da Rudolf Bultmann, certo, il grande teologo protestante della “demitizzazione” del Vangelo, per liberare “il senso perenne della parola e dell’agire di Cristo dalla veste storicamente e fantasticamente condizionata con cui ogni epoca li avvolge”.
L’universalità di Cristo “non si limita ad alcuna epoca e ad alcun paesaggio”, è il suo succo: dunque è liberamente inchiodabile come un libro vecchio, confutabile nel più completo e personale relativismo.

Sulla carta, insomma, il film di Olmi si presterebbe ai sostenitori di un Cristo che non vuole “diventare una figura idolatrata, un Capo oggetto di culto e quindi potenzialmente limitatore della libertà di ognuno”. Del resto, per Magris, “pure nei Vangeli il Cristo che riappare dopo la resurrezione è quasi immateriale, una parvenza più che una presenza”. Un brivido giù per la schiena, per chiunque abbia visto un quadro di Caravaggio o abbia letto in qualche copia del Santo Evangelo non ancora inchiodata di Gesù che, dopo la resurrezione, mangiava pesce arrosto sulla spiaggia con i suoi amici.

Ma sono le stesse idiozie che sostanziano il danbrownismo, la non-religione diffusa che domina il rapporto con Dio nella nostra epoca di noia metafisica. E’ l’idea del cristianesimo che gira attorno.


La difesa di monsignor Ravasi

Ma gli Augias e i Dan Brown li ha già smentiti ufficialmente il Vaticano: niente processi, per carità, che non è più il tempo.
Però la dottrina della fede è pur sempre la dottrina della fede. Inutile dire che a Ermanno Olmi non accadrà nulla di anche lontanamente simile, non sarà sottoposto a censure né si prenderà una spazzolata come accadde invece a Jean-Luc Godard, quando provò ad accostarsi con troppa attualità e scarso rispetto dogmatico alla Vergine in “Je vous salue Marie”.
Ma Godard era un ginevrino ateo e pure calvinista; Ermanno Olmi è un vecchio cattolico bergamasco, figlio del popolo e di una fede semplice, tutta legata alla storia e alla terra.
Domenica scorsa lo ha preventivamente esaltato l’Avvenire, presentando il suo film, e per lui garantisce monsignor Gianfranco Ravasi, amico e bibliotecario, paradossalmente come quello a cui Raz Degan inchioda i preziosi manoscritti.

Il suo film di commiato è un atto di fede, come del resto lo sono stati quasi tutti i suoi precedenti. Fede semplice e tormentata a un tempo. “Olmi ha voluto non dissacrare, ma de-sacralizzare la religione, per ricordare l’importanza della fede, di un rapporto autentico con la natura, le persone, con il calore di una carezza. La sua è la rappresentazione del Cristo incarnato”, lo difende monsignor Ravasi:
“Punta il dito contro l’istituzione sclerotica, ma la sua è una metafora evangelica. Non c’è niente di spiritualista, anzi c’è semmai un eccesso di incarnazione. E non è neppure contro la chiesa, il suo personaggio anzi raduna attorno a sé proprio una comunità, con cui ripete i gesti dei sacramenti. Ovviamente sotto forma di metafora
poetica”.

Ammette Ravasi che sì, “è possibile che il film si possa prestare a qualche lettura contraria, alla negazione dell’istituzione, ma in Olmi non trovo il cristianesimo ridotto a sociologia, a opinione. Lui per primo si stupirebbe di una simile lettura”.

Certo però la sua visione “è quella di un ritorno a un cristianesimo ideale, primordiale, e può essere legittimo che il film venga letto da qualcuno in questa chiave. Fa parte dell’ambiguità dei simboli”.



Piuttosto, allora, ci sarà da interrogarsi sul cristianesimo di Olmi. Di dove venga e cosa porti con sé.
Il vecchio ragazzo della Bovisa, il figlio del cattolicesimo padano e giovanneo non è certo uno scettico demolitore della fede o un relativista à la page, uno che rifiuti lo scontro sanguigno dell’uomo con la verità in nome del Dio tappabuchi.
Anche se, dopo una carriera d’insulti da parte della critica proprio a causa della sua religiosità, è diventato un po’ un idolo di certa sinistra quietista, da “Il mestiere delle armi” in poi, letto in chiave pacifista (“il mio film non è certo una bestemmia contro chi crede in un Dio trascendente, semmai un’accusa verso gli uomini che stanno tradendo il Dio della pace”).

Olmi è soprattutto uno che è “sempre stato leale con le storie che ha narrato”. Un cineasta le cui immagini “sono belle perché sono splendore del vero”, come diceva Godard del cinema di Rossellini, suo maestro ideale. Un uomo della Bassa, cresciuto negli stessi campi lunghi e nello stesso dialetto del Papa del Concilio. E a Giovanni XXIII ha dedicato un bel film tormentato, “E venne un uomo”.

Olmi non è la chiesa del Concilio, intesa come quella pletora di cattolici variamente adulti, quelli che non amano sottostare a nessuna dottrina. La sua è una religiosità appunto giovannea, se per giovanneo si intende l’afflato dello Spirito del Concilio: ritornare alla carne e non alla lettera morta del cristianesimo, perché “le religioni non hanno mai salvato nessuno”.

Cristianesimo ed ethos della terra

Allo stesso tempo la spiritualità di Olmi (non si vuole qui minimamente impalcarsi a giudici di nessuno, di un artista men che meno) è un po’ caso esemplare della storia del cattolicesimo di questo secolo. Olmi è nato nel 1931, figlio di quella fede dei padri, che è stata in Italia un tutt’uno con l’ethos della terra e come un’idea precisa delle cose di lassù. Quella fede tramandata che, a dispetto dei più efferati laicisti, ha preservato l’Italia come “un terreno molto favorevole”, come l’ha definita Benedetto XVI a Verona. Un cristianesimo che era tutt’uno col sentimento del vivere, del morire, del faticare e dell’essere leale con le cose, con la natura, nel loro dato di “essere dati”. Che è un po’ anche la cifra poetica di Olmi. Ma che è anche la cifra di un cristianesimo che a un certo punto ha iniziato a scoprirsi tutto crepe ed inaridito, come le secche del Po, travolto dalla modernità in quanto sinceramente convinto, desolatamente convinto, che la modernità l’avesse già travolto. Un cristianesimo ormai incapace di guardare le cose di lassù, ma anche di reggere lo scontro a suon di ragione con quelle di quaggiù. Al di là (o meglio malgrado la sua personale parabola umana e artistica), Olmi è un po’ anche il riflesso emblematico di un cristianesimo che è andato perdendo il bandolo della sua millenaria matassa. “Se Cristo fosse qui”, ha titolato Famiglia Cristiana un articolo dedicato a “Cento chiodi”. Alla fine del film, Olmi fa andare via il suo “Cristo”. Metafora trasparente dell’Ascensione, assicura Ravasi, ma per non tornare più. E mica gli viene in mente di dire: “Sono con voi tutti i giorni”. E’ il cristianesimo del Dio Nascosto, che bisogna cercare e non si fa trovare. “No, no, no… Credo che Dio non parli con l’uomo. Guai se lo facesse. Arrivo a dire che, forse, Egli non vuole nemmeno che si parli con lui”, ha detto in un’intervista lo scorso anno.
“Ha nell’esistente i suoi rappresentanti: parla attraverso la luce, il buio, l’erba, i fiori… Il senso della vita non bisogna andare a cercarlo, bisogna porsi in ascolto, in silenzio”.
Il perfetto viatico della laicità. Ma anche la debolezza di un cristianesimo per cui Gesù è diventato soprattutto uno da cercare. Mica uno presente. E’ il Deus Absconditus che è stato caro alla generazione dei Lazzati, dei David Maria Turoldo, per citare un altro artista che aveva messo radici nella terra di Papa Giovanni.

Diverso è però immaginare il povero Olmi in compagnia dei cattolici adulti che useranno la sua estrema parabola cristologico-padana per inneggiare al Dio che si nasconde, altro che il Dio che rivendica un posto pubblico, altro che la pretesa di giudicare la vita e la morte, il bene e il male. Eppure Olmi proprio questo accusa. Rimprovera la ragazza che studia Filosofia delle religioni, invece di prendere sul serio la fede. “La lettera uccide, è lo spirito che dà vita” (2 Corinzi, 3,6)."

martedì, marzo 20, 2007

Calle de la Passiòn


Oso rivolgermi direttamente all'Eccellentissimo Signor mio Andrea, che dei miei 5 lettori e quello di serenissimi trascorsi lagunari, affinchè si degni di accondiscendere ad un suo specchiato consiglio.

Dovendo prossimamente La Signoria Nostra ducale, albergare per una giornata o poco più non, ahinoi, fra le "calles" sivigliane ma tra le calli veneziane, avrei gusto acchè elargiste l'alto consiglio su una cimelio della Repubblica di San Marco che varrebbe la pena di rimirare a fonte di qualsiasi angustia.

Le mie principali mire saranno: Santa Maria Gloriosa de'Frari, Santi Giovanni e Paolo, la Scuola di San Rocco, La Scuola dei Carmini, oltre all'Accademia e al Palazzo Ducale. Qualunque serenissimo avviso, esortazione ed ammonimonto della scienza Vostra verrà considerato preziosisssimo.

L'umillimo Francisco de Borja

lunedì, marzo 19, 2007

Josefino


Ovvero:
Traggo un "Esempio" del potente patrocinio di San Giuseppe dal pio libercolo del Beato Bartolo Longo in onore del Santo Patriarca che nella fanciullezza esperimentammo essere pia lettura delle nostre nonne e fonte di santi affetti e di tanta consolazione nelle angustie della vecchiezza.

Protezione di San Giuseppe

"Un cavalier molto pio celebrava ogni anno divotamente la festa di San Giuseppe quale protettore speciale della sua famiglia. Un anno ebbe ai di 19 Marzo il dolore di perdere il suo figlio maggiore, e l'anno appresso nello stesso giorno gli morì il secondo.
Nelle tristezza del suo dolore non si sentì più il coraggio di celebrare la festa di San Giuseppe, ed anche ne temeva la ricorrenza.

Al ritorno del 19 Marzo quel gentiluomo, preso da nere inquietudini, camminando a gran passi, s'internò senza avvedersene in una foresta, dove scorse due giovani appiccati al medesimo albero.
A tale orribile spettacolo preso preso da terrore era per darsi alla fuga quando un angelo gli apparve e gli disse: «Se i figli che tu piangi fossero vissuti, quella sarebbe stata la loro sorte! Ma San Giuseppe, mosso alla divozione che tu gli manifestavi, ottenne da Dio che i tuoi figli prematuramente morissero per la salute delle loro anime, e per l'onore della famiglia. Non temere di nulla, e celebra anche più religiosamente la festa del Santo. Il solo figlio che ti rimane sarà Vescovo, e vivrà moltio e molti anni». E l'evento pienamente avverò la previsione.

Iddio non manda a tutti i Cristiani un Angelo per accertarli della protezione di San Giuseppe; ma coloro che sono fedeli ad onorarlo e aricorrere a lui, nel giorno della loro morte riceveranno particolari prove della protezione di questo gran Santo.
«Voi molto soffrite, amico mio, diceva un sacerdote al padre di un anumerosa famiglia, il quale si struggeva in una malattia di languore»; Si padre mio, rispondeva l'infermo, io sofro; ma un segreto conforto addolcisce le mie pene.
E tuttavia lasciate sulla terra degli esseri ai quali eravate necessario. -E' vero ma qualche cosa mi dice internamente che la Provvidenza farà per essi più e meglio che non avessi fatto io stesso. -Non avete voi nulla nel passato che vi sgomenti sul punto di rendere l'anima al Signore?
Tutto mi turberebbe, se non avessi qualcuno con me, e per me. -Chi dunque?- San Giuseppe! Da molto tempo io prego per una buona morte, e sento che mi esaudisce.
Se vi si promettesse un giorno ultimo sumile a quello, ditemi, non vi rallegrerebbe questa speranza? E voi la potete sperare, se fin da quest'oggi, vivendo fedele ai vostri doveri sino alla fine della vostra vita, domanderete a san Giuseppe la grazia di una buona morte."








Sant'Abbondio v/s Don Abbondio /2

Monsignor Alessandro Maggiolini vescovo emerito di Como, da acuto teologo qual sempre è stato, non poteva meglio solennizzare il dì della festività del patrono della Chisa Cattolica se non con un articolo pubbilicato su "Il Gionale" in cui manifesta tutta la propria angustia per le parole (cui la stampa laica ha datto molto risalto!) del suo anch'esso emerito Metropolita ambrosiano : "Se Martini tifa per i Dico e «scomunica» Ratzinger"

"Nei giorni scorsi il Cardinal Carlo Maria Martini, in pellegrinaggio a Gerusalemme con mille e trecento fedeli di Milano, ha giudicato «inopportune» le parole del Papa sui conviventi che, senza il Sacramento del matrimonio, si considerano sposati. A essere sbrigativi, si potrebbe affermare che Benedetto XVI ha tolto di mezzo uno dei sette Sacramenti: il matrimonio appunto. Il Papa continua ad attestargli la sua stima citandolo nei discorsi e ricevendolo mediamente due volte l’anno. Non solo: Martini si rivolge ai credenti milanesi - gli altri possono considerarsi esonerati - «perché io parli chiaro sino alla fine». Una frase, questa, che può essere ridetta tale e quale da Papa Ratzinger con la propria autorità suprema sulla Chiesa. A nome di Gesù Cristo.

Non è qui toccato il problema della scomunica, come è, per esempio nel caso dell’aborto. Non si può, tuttavia, negare che la struttura sociale ed ecclesiale dei Dico intende attribuire diritti pubblici senza riconoscere i doveri corrispondenti. Il ricevere l’Eucarestia in dissonanza con la gerarchia ecclesiale in questioni gravi, se non determinanti, espone al chiaro pericolo di profanazione del corpo e del sangue di Cristo resi presenti sull’altare durante la messa. È ciò che in un passato nemmeno troppo lontano si chiamava sacrilegio ed era catalogato tra i peccati più gravi.

Un Cardinale - un altro più piccolo sembra valere meno - viene rivestito della porpora e della berretta rossa a significare la disponibilità all’obbedienza al Papa fino alla prontezza a dare la vita. Rosso sangue. A questo punto sembra passamaneria il discutere della diversità tra peccato grave e peccato lieve. Quando si tocca l’autorevolezza del Santo Padre, si lede il cuore della Chiesa di cui il Romano Pontefice è responsabile sommo in dipendenza dal Signore Gesù. La gente semplice, i fedeli che recitano le orazioni del mattino e della sera, partecipano alla messa di precetto, ricevono la Comunione almeno a Pasqua e lavorano otto ore al giorno senza compulsare libri di teologia alti così, sanno che quanto è superiore l’autorità ecclesiale a cui si disobbedisce, tanto più grave è la colpa che si commette. E d’istinto sanno che cardinali sono da considerare uniti al Papa nel comando e nell’obbligo dell’obbedienza.

E allora, perché mai un cardinale tra i più alti della Chiesa si sente in diritto di passar sopra le indicazioni almeno disciplinari del Papa? I fedeli che dovrebbero seguire questo credente vestito di rosso possono impunemente staccarsi dalle indicazioni del loro vescovo, sia pure ex? Con quale coerenza si può leggere Paolo che invita all’unità della fede e dei sacramenti e non soltanto nella disciplina canonica? Che significato può avere il ripetere le frasi quasi ossessive di San Giovanni che esortano all’unità della Chiesa?

C’è qualcuno che non ricorda la stazione della Via Crucis nella quale il cardinal Ratzinger esortava a ripulire la Chiesa quasi fosse diventata una stalla lercia? Aveva torto?"


Probabilmente la maggior parte di coloro che si sono lietamente abbeverati alle recenti considerazioni del Cardinal Martini non capiranno il senso della veemente replica di monsignor Maggiolini, anzi, sosterranno che Maggiolini ha travisato lo spirito, e sin'anche la lettera del verbo martiniano!
Ma è davvero così?
Si rinnova la profezia di Gesù secondo cui i figli delle tenebre sono più scaltri dei figli della luce: perchè infatti -io domando ai figli della luce- la stampa laica non solo ha dato tanto spazio e puntualità nel citare le riflessioni dell'omelia tenuta ai pellegrini lombardi ma i giornalisti son poi corsi dal Cardinale a chiedergli di sviluppare quelle tematiche a beneficio delle proprie testate?

Rispondo: perchè i mass media vi hanno visto una radicale critica all'operato della CEI e dello stesso Papa.

Nella sua omelia betlemita il Cardinale di Santa Cecilia ha detto che Cristo ha comandato di non giudicare e lui di conseguenza non vuol emettere giudizi. Ma come possono essere interpretate le sue esternazioni se non legate a doppio filo con le pubbliche posizioni e disposizioni prese dalla presidenza della conferenza episcopale italiana o da pontifici dicasteri e accademie nelle settimane, giorni e ore precedenti? O addirittura una seppur velata critica dalla stessa esortazione apostolica "Sacramentum caritatis" di Benedetto XVI?


Raffigurare una Chiesa che non si occupa di fare "promozione della famiglia" perchè è tutta impegnata nella "difesa della famiglia" a me pare solo un sottile artifizio.
Di fronte ad un attacco culturale al concetto stesso di famiglia come si può pensare che il difendere il valore della famiglia come istituto naturale non abbia nulla a che fare anche con la "promozione" della famiglia stessa?
Se Martini intendeva dire che la famiglia essendo un istituto naturale ha una forza intrinseca che nessuna legalizzazione o parificazione delle unioni omosessuali al matrimonio potrà stravolgere ciò è lodevole ed encomiabile. Ma se la Chiesa Cattolica e non la Chiesa italiana ma il Papa in persona è più volte intervenuto in merito è perchè l'attacco è diretto anche e soprattutto alla natura spirituale del cristiano poichè il matrimonio per la fede cattolica continua ad essere uno dei sette sacramenti!

Che "la gente" è ormai lontana dalla Chiesa e che perciò non capisce più il senso e la lettera di tanto linguaggio dottrinario ciò sarà pur vero e compito dei pastori della Chiesa è quello di dolersene ma non certo quello di mutare dottrina per compiacere "la gente" (che inoltre è terminologia sociologica e non ecclesiale).

Concludendo, credo che la domanda di Maggiolini -ed anche la mia- al cardinale Martini sia: quando egli lamenta una Chiesa matrigna in cui gli insegnamenti "piovono dall'alto" come "parole strane, incomprensibili" si riferisce ad espressioni del tipo "coerenza eucaristica"?

domenica, marzo 18, 2007

DEVOTIO MODERNA [5]

Persino una personalità paradigma d'evangelica discrezione quale l'inclito Patriarca e putativo nutricatore di Nostro Signore ha aperto un proprio blog: www.sangiuseppe.blogspot.com!

sabato, marzo 17, 2007

I libri dello "spiritoso" cristiano /3


Il cardinale Giacomo Biffi arcivescovo emerito di Bologna ha predicato gli esercizi spirituali all'inizio della Quaresima 2007 al sedici volte Benedetto e alla Curia Romana.
L’editore Cantagalli ha raccolto le meditazioni in un libro in uscita in libreria da mercoledì 21 marzo 2007.
(Il Foglio di giovedì 15 marzo ne ha dato ampia anticipazione)

Ovvero: LE COSE DI LASSÙ PER GENTE DI QUAGGIÙ

"Per questo tempo di riflessione e di preghiera vorrei suggerire una meditazione “anagogica”, che cioè ci conduca e ci sospinga verso l’alto – alle “cose di lassù”, come dice san Paolo –; e quindi proporrei di chiedere al Signore, come grazia particolare di questi giorni, una consapevolezza più viva e pungente del “mondo invisibile”.

1 - Avere il senso del mondo invisibile: è un atteggiamento elementare nel credente, quasi preliminare a ogni vita di fede; è una persuasione semplice, concreta e in qualche modo onnicomprensiva. Ed è perciò necessaria ed esistenzialmente preziosa. Al tempo stesso, il senso del mondo invisibile – come tutto ciò che è ovvio e risaputo – corre il rischio di essere relegato in un angolo della coscienza del cristiano: così sottinteso e scontato da risultare alla fine psicologicamente inoperante e quasi annullato. Perché si sa che il modo migliore per censurare – o quanto meno isterilire praticamente – una verità non è quello di negarla o comunque di contestarla anche in parte; è dire: la conosco già, non è niente di nuovo.

Noi siamo inoltre tanto più indotti a trascurare il mondo invisibile, in quanto gli uomini che di solito incontriamo – coi quali desideriamo entrare in dialogo – sembrano non dimostrare alcun interesse se non per le cose che possono vedere e toccare.

2 - In realtà, anche restando nell’ambito di una conoscenza puramente naturale, nessuno, per quanto sia ottuso e spiritualmente “ricurvo”, può evitare di chiedersi o presto o tardi, se vuol rimanere un essere del tutto ragionevole: i confini del “visibile” – cioè di quanto è attingibile con l’esperienza e con la ricerca scientifica – sono o no anche i confini dell’esistente? O, che è lo stesso, c’è o non c’è almeno la possibilità che esista qualcosa oltre al mondo di cui abbiamo più diretta notizia? C’è (almeno come possibilità) o non c’è (neppure come possibilità)?

E’ un dilemma cui non si può sfuggire: bisogna decidersi, e la decisione comporta gravi e determinanti conseguenze già all’interno della vita di ogni giorno.
Una pregiudiziale di rifiuto dell’invisibile ci rinchiude in uno spazio troppo angusto anche per le più naturali e insopprimibili esigenze umane; per esempio, viene emarginata “a priori” (e acriticamente) anche l’ipotesi dell’eventuale sopravvivenza delle persone amate e della nostra possibilità di rivederle.

Di più, la ristrettezza del mondo visibile è tale che, una volta esclusa ogni superiore evasione, ci troviamo imprigionati nell’incongruenza e anzi nella insignificanza, dal momento che è difficilmente contestabile la folgorante intuizione di Ludwig Joseph Wittgenstein: “Il significato dell’universo non sta nell’universo”.

Se non c’è senso nel mondo visibile e se non è pensabile che ci sia un “altrove”, saremmo condannati a vivere entro il non-senso. Chi invece si apre alla possibilità (anche alla sola possibilità) dell’invisibile, si affaccia su uno spazio dove le evenienze sono praticamente infinite, donde tutto si deve attendere e niente si può né prevedere né escludere. Dall’invisibile ci si può aspettare ogni sorpresa, anche l’allegria dei Cherubini e le incursioni degli arcangeli nel nostro mondo.

L’uomo che “ragiona fino in fondo” non può escludere niente “a priori”: sa che se è arduo dimostrare l’esistenza di qualche cosa che non si vede – se non ci viene data positivamente qualche notizia dall’al di là –, è ancora più arduo dimostrarne apoditticamente la non esistenza. Mentre ci si può rifiutare, per manifesta assurdità, di credere che l’umanità sia una specie di tribù di ranocchi che gracidano la loro disperazione sulle rive del niente, è consentito ipotizzare (e sperare) che i figli di Adamo vivano sul limitare di una festa cosmica di creature felici; una festa alla quale essi sono tutti invitati.

L’uomo “mondano” e secolarista possiede la più arrischiata delle certezze: la certezza di ciò che non c’è. E’ una certezza che conviene solo a Dio: solo colui che è onnisciente può elencare le cose che non ci sono. Certo, una volta condotta a termine l’esplorazione del mondo visibile, posso arrivare a una ragionevole persuasione che non esistano l’ippogrifo, i centauri e le sirene. Ma in nessun modo, se voglio restare razionale, posso convincermi che non esistano i Serafini.


3 - Sono, come si vede, argomentazioni prevalentemente “naturali”. Ma anche il credente come credente deve prendere sul serio questo discorso, se no finisce che, pur credendo di credere, a poco a poco esce dall’autentica prospettiva di fede.

Intendiamoci, le tentazioni e gli scoraggiamenti sono sempre possibili. “Sono stanchi i miei occhi di guardare in alto” (Is 38,14): ciascuno di noi in certi momenti è indotto a far sue queste desolate parole delle profezie di Isaia.

Nei cristiani uno dei segni più persuasivi di un sicuro senso dell’invisibile è dato dall’attenzione affettuosa che si riserva alla realtà degli angeli.
Mi ha sempre colpito il candore e la freschezza della visione di John Henry Newman su questo argomento; candore e freschezza che si rivelano fin dagli anni della sua infanzia: “Pensavo – egli ricorda – che la vita potesse essere un sogno, oppure io essere un angelo, e tutto questo mondo un inganno, dove i miei compagni angelici, per un giocoso stratagemma, mi si nascondevano e m’illudevano con l’apparenza di un mondo materiale”.
E ancora a trent’anni, in un sermone del 1831, così si esprimeva parlando di quelle creature celesti: “Ogni alito d’aria, ogni raggio di luce o di calore, ogni bella vista è, per così dire, l’orlo della loro veste, l’ondeggiare del manto di coloro i cui volti contemplano Dio”.

Senza dubbio la nascosta realtà degli angeli è tra le verità di fede più insidiate o addirittura derise da una cultura poco disposta a esplorare senza pregiudizi la reale ampiezza del mondo. Eppure già la policromia fantastica di questa aiuola appariscente, nella quale siamo stati provvisoriamente confinati, dovrebbe indurci almeno a sospettare anche l’esuberanza ultraterrena della divina immaginazione. Comunque la contemplazione di tale schiera misteriosa è opportuna ai fini di rivelarci l’intera bellezza della creazione e anche le vere dimensioni dell’esistenza ecclesiale. E ci aiuta a serbarne vivo il sentimento.

E’ sempre in agguato nei nostri animi la propensione a rimpicciolire l’universo, proporzionandolo alla nostra esiguità e alla nostra grettezza, e a fare della nostra inadeguata e confusa conoscenza non – come è giusto – il naufragio dolcissimo nell’oceano troppo grande della totalità
delle cose, ma l’arte infausta di immiserire il reale.


4 - Anche i cultori professionisti della sacra doctrina, a stare a ciò che talvolta dicono (o meglio non dicono) dalle cattedre e scrivono (o meglio non scrivono) nelle pubblicazioni, sembrano avere qualche allergìa nei confronti degli angeli.
Nel 1976 è uscito in Italia un Nuovo Dizionario di Teologia che, almeno nella prima edizione, non aveva la “voce” relativa a questo tema; non solo, ma il termine non compariva neppure nell’accurato indice analitico, sicché è da pensare che degli angeli in quell’opera non si parlasse nemmeno incidentalmente. E tale esclusione non doveva essere stata facile impresa, se si pensa che l’intera vita del Signore Gesù – e proprio negli episodi più decisivi e rilevanti – è segnata dall’intervento di queste creature celesti: la concezione, la nascita, la permanenza nel deserto, l’agonia nel Getsemani, la risurrezione, l’ascensione al cielo, la sua venuta trionfale alla fine dei tempi.
Mi chiedo: che cosa doveva fare di più la narrazione evangelica per convincere i credenti – e possibilmente anche i teologi – della reale e attiva esistenza degli angeli? Essi sono così coinvolti nella vicenda salvifica del Figlio di Dio che, a prenderli come personaggi mitici e quasi fiabeschi o a considerarli puramente simbolici e ornamentali, quasi come residui di una cultura oggi improponibile, si rischia di ritenere un mito o un artificio letterario tutto ciò che il nostro Redentore ha fatto per noi.

5 - Vorrei ancora aggiungere che il senso acuto e permanente del “mondo invisibile” mi è apparso sempre più importante nei molti decenni del mio impegno pastorale. Una delle cause più sottili di malessere e di avvilimento dei fedeli (e soprattutto dei sacerdoti) è l’impressione di appartenere ormai a una minoranza sociale e culturale; di dover esercitare la missione evangelica tra forze ostili soverchianti; di sentirsi propugnatori di un’utopia che i nostri contemporanei non accettano più neppure come ideale.

Nella sincerità del suo cuore il prete in cura d’anime non è molto consolato dalla ecclesiologia dominante – talvolta sarebbe più pertinente chiamarla “ecclesiolalìa” – che parla di “Chiesa aperta”, che non si lascia racchiudere in un “ghetto” e non riconosce che ci sia un “assedio” da parte delle potenze mondane con le quali anzi programmaticamente siamo in dialogo.
Non saremo un “ghetto”, – egli si dice nei momenti di onestà intellettuale – ma certo siamo un “piccolo gregge”; non sarà un “assedio”, ma è innegabile che ci sia un attacco multiforme e quasi quotidiano alla “nazione santa”. E si sente a disagio.

Il rimedio non sta nel dimenticare o addirittura nel censurare quell’idea di “mondo” come entità ostile all’iniziativa di Dio, che è ripetutamente enunciata nel Nuovo Testamento (da san Giovanni, da san Paolo, da san Giacomo); non sta cioè nel negare che esiste ed esisterà sempre sino alla fine della storia un complesso organico di forze che si oppongono sistematicamente al progetto salvifico del Padre.

Il rimedio sta nell’accogliere sul serio la parola di Gesù che ci informa che il “piccolo gregge” possiede già un Regno; sta cioè nel non perdere mai di vista la totalità delle cose come stanno, e in particolare l’effettiva estensione del mondo celeste, popolato di angeli e di santi, esuberante della divina energia da cui viene senza soste investita la terra.
Allora svanisce ogni paura e viene superata la tristezza di essere un “ghetto”, dal momento che viviamo fin d’ora non in un ghetto, ma in una comunione affollatissima, dove con le Tre Persone divine palpitano e gioiscono le miriadi delle creature beate.
Allora possiamo anche percepire quale sia il vero “assedio”: il vero assedio è quello operato invisibilmente sui cuori e sulla storia dallo Spirito Santo, effuso senza pause dal Risorto che sta alla destra di Dio; dallo Spirito Santo, che si adopera senza stanchezza a praticare nelle coscienze più indurite innumerevoli brecce segrete, perché penetri e si affermi la luce e il calore della grazia. Anzi, il popolo dei battezzati non solo può guardare, ma anche, con la conoscenza di fede, con tutta la vita ecclesiale e segnatamente con la celebrazione dell’eucaristia, può partecipare – e partecipa realmente – a questa esistenza trasfigurata. E così ogni ansietà si dissolve.

Già l’autore della Lettera agli Ebrei, evocando l’iniziazione battesimale, faceva appello alla coscienza del mondo invisibile per salvare dallo sbandamento i suoi destinatari: “Voi vi siete accostati al monte di Sion e alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a miriadi di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti iscritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti portati alla perfezione, al Mediatore della Nuova Alleanza e al sangue dell’aspersione dalla voce più eloquente di quella di Abele” (Eb 12,22-24).


6 - Un’ultima osservazione. “Mondo invisibile” non significa “mondo remoto”, mondo astratto e incorporeo. Le “cose di lassù” sono in mysterio sostanziosamente presenti e operanti nella nostra esistenza di quaggiù; bisogna solo potenziare gli occhi della fede per percepirle connesse con la nostra vicenda terrena, addirittura immanenti nelle azioni e nelle esperienze della normale vita cristiana.

Un esempio privilegiato è dato dalle celebrazioni liturgiche. Anche nell’eucaristia esteriormente più dimessa e senza splendore, la Chiesa vede sempre una scena entusiasmante e piena di fascino; e ce lo dice. La liturgia ambrosiana in un suo transitorium, antico e ancora in uso, così ci descrive ciò che avviene perfino nella più squallida delle messe:
“Angeli circumdederunt altare/
et Christus administrat Panem sanctorum/
et Calicem vitae in remissionem peccatorum”.

Domenica IX per annum: “Gli angeli stanno attorno all’altare/ e Cristo porge il Pane dei santi/ per la remissione dei peccati”.

7 - In conclusione, in questi giorni – e in tutto il tempo che ci resta da vivere – dobbiamo esercitarci sempre più nell’ascolto: – ascolto di ciò che la Rivelazione ci dice su ciò che sta di là dalla scena terrena, di là dalla folla di ombre e di immagini nella quale siamo immersi; – ascolto di quello che ci viene detto in molti modi dalla voce dello Spirito Paràclito, l’attore invisibile ma primario della nostra vicenda di quaggiù; – ascolto di qualche eco che possa giungere fino a noi dalla festa cosmica, che è destinata a essere anche la nostra festa."

venerdì, marzo 16, 2007

Cristicchi-fideles laici /3


Ovvero: Intervista di Edoardo Semmola (alias Alteredo) a Simone Cristicchi vincito di Sanremo 2007.

"Nel nuovo disco c’è una canzone che mi ha particolarmente colpito e che è dedicata a Piero Welby. Il nome di Welby non viene mai menzionato e neppure la parola eutanasia. Hai già ampiamente dimostrato in passato di essere molto sensibile ai temi della laicità: penso a "Prete" e a "Bastonaci Signore" che sono rimaste tuttora inedite, censurate. A questo proposito lo scorso Natale tu hai scritto una email ad un mio amico, Hereticus, che gestisce un blog che si chiama Clerofobia. In quella email dicevi ad Hereticus che avresti pubblicato Prete in questo nuovo disco, ma così non è stato…

Ci sono stati problemi molto grossi. Ho lottato fino all’ultimo momento per inserirla nel disco, e alla fine hanno vinto loro. Mi dispiace molto. Comunque, per chi vuole andarla a cercare, Prete si trova su internet, facilmente e anche gratis.
Mi dispiace perché è una canzone a cui tengo particolarmente, che esprime una protesta, una polemica. In quella canzone ci sono anche dei luoghi comuni sulla Chiesa, però, in qualche modo, sono cose che pensano in tanti.

Anche in Senza, la canzone di Cristiano Sciascia, c’era una seconda strofa fortemente anticlericale. C’è quindi, nel tuo percorso artistico, questo tema molto forte. Pensiamo alla canzone su Welby…

Sì, lo sento come un tema portante perché sono cose che ci toccano tutti i giorni. Vuoi o non vuoi, l’influenza della Chiesa sulle nostre vite è molto presente. Ce l’abbiamo col fiato sul collo.

In Prete usi un’espressione molto forte: “Il cristianesimo è la più grande bugia della storia”. Si può capire come una frase del genere possa portare ad essere censurati…

Beh, sì, ci sono tante frasi forti all’interno di quel brano. Il fatto di affermare che il cristianesimo è la bugia più grande della storia sicuramente è qualcosa che può creare dei problemi. Infatti c’è stato poi un articolo sull’Indipendente in cui Massimo Introvigne mi ha attaccato pesantemente per questo testo. E ho continue scariche di messaggi nella mia casella di posta elettronica da parte di aderenti a Comunione e Liberazione. Però è un fastidio che in qualche modo mi fa piacere perché vuol dire che c’è una certa reazione. Se ci fosse stato il silenzio, allora mi sarei preoccupato.

Nonostante non sia mai stata edita. Figuriamo invece se…

Esatto, hai detto bene, nonostante non sia mai stata edita…

A questo punto possiamo ben esultare di una grande novità: per la prima volta sale sul trono di Sanremo un libero pensatore, un ateo! È uno scandalo!

Ahahah! È uno scandalo dici? Benvengano questi scandali allora! Ed è una novità, come no, certo.

Il pubblico e la giuria di Sanremo forse non sapevano che stavano votando un ateo di tal fatta…

Questo non lo so, comunque penso che abbiano votato la canzone. Se poi uno si mette a pensare alla fazione politica o alle convinzioni di vita di ciascuno, insomma… Penso invece che la canzone abbia vinto perché ha toccato qualche corda nascosta. Al di là del fatto che io sia un laico.

Allora, bentornata canzone d’impegno nelle nuove generazioni di cantautori!..."


VIA CRUCIS [5]

Ovvero: "El Señor de los Gitanos"
Il pontificio santuario della Scala Santa è indubbiamente un topos della Roma cristiana. In ogni giorno dell'anno è possibile costatare la perenne teoria di devoti che salgono in ginocchio la scalinata di ventotto gradini di marmo (coperti da tavole di noce) che secondo una pia tradizione proverrebbe dalla Fortezza Antonia di Gerusalemme e perciò sarebbe stata più volte salita e discesa da Gesù nelle ore della suo processo davanti a Pilato.
Se perciò la Scala Santa è quotidiana tappa quasi obbligata dei pellegrini e turisti in visita all'Urbe è soprattutto in Quaresima che i cattolici romani "de Roma" se ne riappropriano. Soprattutto nei venerdì di Quaresima e di Passione, quando alla devota usanza di salire la Scala Santa a ginocchioni è concessa l'indulgenza plenaria, al richiamo di un'atavica tradizione devota i romani accorrono alla Via Crucis animata dai Padri Passionisti i quali hanno mantenuto l'uso di scandire le 14 stazioni con le strofe dall'antico e popolaresco canto "L'orme sanguigne" che forse a i più non dirà nulla ma di cui ancor oggi è rimasto celeberrimo il ritornello: "Santa Madre deh! Voi fate che le piaghe del Signore...".

Nel 2006 dopo molti anni i Passionisti hanno pensato di cambiare i testi delle meditazioni della Via Crucis celebrata alla Scala Santa ribattezzandola: "Uomini del nostro tempo CON GESU' sulla via della croce". Queste nuove meditazioni gettano volutamente uno sguardo tagliente sulla cronaca: in pratica si invita le pie donne romanesche a tapparsi la bocca dali loro continui "Eh signora mia!" per volgere lo sguardo pietoso sui mali che affliggono l'umanità, dalle persecuzioni religiose alla fame nel mondo, dall'AIDS alla questione israelo-palestinese, dalla disoccupazione giovanile all'immigrazione; "fulgido" esempio è la meditazione alla Quinta Stazione:
SIMONE DI CIRENE E' COSTRETTO A PORTARE LA CROCE DI GESU'

"Mentre lo conducevano via, fermarono un certo Simone , originario di Cirene, che tornava dai campi, e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù" (Lc 23,26)

"Simone era originario di Cirene, una città dell'Africa del nord: era uno straniero. Si, è uno straniero che aiuta Gesù, che prende la sua croce. oggi, nel nostro paese, come anche negli altri paesi europei, siamo noi a mettere le croci addosso agli stranieri; siamo noi a sbarrare loro l'ingresso, siamo noi ad accrescere appositamente la paura verso di loro e a provocare una marea montante di diffidenza e di odio, perchè appaiano come nemici. Ma Gesù, questa volta, stà con il cireneo. Ed è lui che prende la croce dei tanti stranieri dei tanti cirenei, dei tanti profughi sui quali gli uomini scaricano la croce. Imitiamo Gesù e non chi ha paura e chi condanna, magari vestendosi con i finti panni di chi vuole il bene del Paese o , peggio, il bene dei profughi stessi, pur sapendo che costoro fuggono dalla guerra e dalla fame."

Sugli immigrati e sui profughi-Volgi il tuo sguardo, Signore
Sugli stranieri e sui poveri-Volgi il tuo sguardo, Signore
Sui disoccupati o sui senzatetto-Volgi il tuo sguardo, Signore

lunedì, marzo 12, 2007

panoramiche ratzingeriane /4

Ovvero: "El Señor del Gran Poder"


IPSE DIXIT:
"...L’opera di Benedetto XVI è immensa.
Nei secoli a venire sarà ricordata a lungo, perché essa garantirà ancora lunga vita alla Chiesa.

E’ come quando in una casa in disordine si fa pulizia. Ogni oggetto viene rimesso al suo posto e tranne che per alcuni che dimostrano oramai di essere datati e finiscono nella pattumiera, gli altri continueranno a sopravvivere vivificati da una nuova luce. Certo l’operazione non è indolore ma va ricordato che il primo a farne le spese è colui che decide di avviare l’operazione.
[...]
Oggigiorno siamo poco abituati a fare le pulizie. Abbiamo delegato questo compito agli stranieri che giungono nel nostro paese e noi viviamo di rendita indossando i panni dei guastatori e confidando nella bontà mai sufficientemente retribuita di chi fa le pulizie all’interno della nostra casa. Così è per la fede, ci sono cattolici che si divertono ancora a sperperare il patrimonio accumulato nel corso dei secoli, indossando i panni dei modernisti e progressisti e dando luogo a perniciose contaminazioni e sozzure. Non vogliono più assumersi la responsabilità delle pulizie, di rimettere ogni cosa al suo posto. Oramai nel porcile che hanno creato ci si sentono a loro agio.

Ma succede che lo Spirito Santo abbia deciso di mettere sulla cattedra che fu di Pietro, un uomo che ha la vocazione della colf e non teme di sporcarsi le mani.
Ebbene quest’uomo ha deciso di andare a fondo con le pulizie, non usa il piumino danzando in punta di piedi sul Brindiamo della Traviata, toccando con leggerezza qui e lì qualche oggetto impolverato. Lui prima sposta i mobili, li mette alla luce del sole perché si ricordino di essere stato un giorno legno e riacquistino vigore, svuota le stanze, imbianca nuovamente i muri e poi una volta asciutta la vernice rimette ogni cosa al posto che gli compete. Tanto che alla fine la sua più che una pulizia è una vera e propria ristrutturazione.
E il tutto a prezzo zero, gratuitamente...."

domenica, marzo 11, 2007

las angustias /4

Nel cuore di Roma, tra il Campidoglio e il teatro Marcello, si conserva un prezioso quanto sconosciuto scrigno d'arte e di fede: il monastero di Tor de' Specchi fondato da Santa Francesca Romana.
Solo nel mese di Marzo, il giorno 9 (memoria liturgica di santa Francesca) e nelle tre domeniche a seguire, le monache figlie spirituali della Santa "Romana" per antonomasia consentono la visita al complesso che comprende una parte antica in cui la santa visse e poi una parte cinque-seicentesca.
Volendo invogliare stimate persone ad ammirare il quattrocentesco ciclo di affreschi di Antoniazzo Romano, domenica 11 mi sono recato a Tor de Specchi per acquistare una cartolina che facesse nascere nel destinatario il languore e il desiderio di poter visitare, se non questo almeno il prossimo anno, un luogo assolutamente unico in Roma.
Quale angustia mi colse scoprendo che la parte antica è ancora chiusa per restauri che si prevede (e si auspica) si concludano entro il 2008: quanto centenario della canonizzazione di Francesca Romana.

Così angustiato, essendo domenica, ho deciso di recarmi in Trastevere a soddisfare il precetto domenicale facendo il (per me solito) percorso da Santa Maria in Portico scendendo dietro Sant'Angelo in Pescheria e sbucando proprio sotto il Portico d'Ottavia per vedere se caso mai la pasticceria ebraica non fosse aperta.

Mi imbatto così in un trentenne dalla sciolta parlantina che si è fermato per decantare le vestigia del portico augusteo ad un nutrito gruppo di persone sulla cinquanta-sessantina.
Poiché c'è sempre da imparare, mi fermo un poco ad ascoltare la guida che cerca di far immaginare l'aspetto del complesso monumentale voluto da Augusto in memoria della sorella Ottavia, la sua interdipendenza con l'attiguo teatro dedicato alla memoria del nipote Marcello, la riutilizzazione medievale quale chiesa detta "in pescheria" perché fino all'unità d'Italia e alla conseguente bonifica del Ghetto (e la costruzione dei muraglioni che ha stravolto il rapporto col fiume) era quello il mercato del pesce dell'Urbe. Segue racconto di aneddoti come quello della norma che prevedeva che ai "Conservatori", corrispondenti in certo qual modo ai moderni Assessori, spettasse la testa e la coda di tutti i pesci superiori ai dodici centimetri di lunghezza. E non posso fare a meno di notare che sul tema della lunghezza dei pesci si dilunghi con mal celato compiacimento.

Indica poi, accanto alla chiesa di Sant'Angelo d'origine medievale, l'oratorio settecentesco dedicato a Sant'Andrea Apostolo ed alla domanda se l'oratorio sia ancora aperto al culto, risponde di si e nessuno potrà contraddirlo perché se invece il giro turistico si fosse svolto non in un giorno feriale sarebbe stato evidente invece che si trattava ormai di una cappella sconsacrata di proprietà dei Limentani che vi espongono i cristalli, le porcellane e gli argenti delle liste di nozze.

Oltre alle prediche coatte cui in epoca papalina gli ebrei erano costretti a partecipare in Sant'Angelo in Pescheria come nelle altre chiese dell'antico rione, l'altro aneddoto "folcloristico" sul Postico d'Ottavia riguarda il grande arcone in mattoni edificato nel basso medioevo, probabilmente per sopperire a problemi di staticità del pronao marmoreo d'epoca romana.
Si possono ancora notare tracce di affreschi medievali e vi si trovava anche un affresco della Madonna con Bambino poi staccato e portato in seguito ad un miracolo nella chiesa di Santa Maria del Pianto appositamente edificata nella vicina "Piazza delle Cinque Scole".

Era il 10 gennaio 1546 quando due litiganti armati di coltelli s'affrontarono proprio davanti al Portico d’Ottavia. Uno dei due aveva alzato il coltello per ferire l’altro, quando quest’ultimo lo aveva supplicato di fermarsi, in nome di Dio e della Vergine li presente in effige, l’uomo che stava per colpire, vista l’immagine di Maria si placò, ripose il coltello, aiutò il rivale ad alzarsi e gli porse la mano in segno di riconciliazione. Ma l’altro, incurante della sua volontà di pace, e dello sguardo della Vergine Maria da lui stesso invocata, estrasse il proprio coltello e glielo conficcò nel petto.
Dinnanzi a tanta viltà, l’immagine dipinta della Madonna fu vista spargere lacrime. La notizia del prodigioso pianto della "Madonnella" del Portico d’Ottavia si propagò rapidamente per tutta Roma, e diede vita a grande devozione popolare e conseguentemente diede l'impulso alla costruzione della vicina Chiesa il cui nome ancor oggi evoca il prodigio.

Confesso che la nuova del miracolo non mi era sconosciuta ma d'essere stato fino a quel momento ignaro della minuta cronaca del prodigio mariano e mi stavo rallegrando di ciò in cuor mio ma subitaneamente il gaudio si mutò in angustia quando la guida per concludere "l'istorico ragguaglio" non trovò di meglio della frase:
"Sempre per stare in tema di idolatria cattolica".

sabato, marzo 10, 2007

Economia della Salvezza


(dall'Enciclopedia di Giacomo B. Contri)

PENSIERO

"C’era una volta il “docetismo” (da dokéin-sembrare), ma nessuno sa più che cosa era, soprattutto è: oggi, secolarizzato, si chiama Psicologia (docetismo sull’uomo), Riforma della scuola e altro.

Ai vecchi tempi si chiamava così quella teoria nonché eresia secondo cui l’incarnazione era il look umano di Dio, un trucco divino.
Dio si sarebbe messa su una sembianza umana (tecnologia?, illusionismo da Mandrake?) Perché?
Perché con questo audiovisivo divino voleva compiere un atto pedagogico verso quei bestioni o bestiole dal pensiero debile che noi saremmo, per farci entrare in testa qualcosa, neanche tanto, qualcosina.
Filosofeggiando, si suddivide Cristo tra l’apparenza (uomo) e l’essenza (Dio). Teatro, e buffonesco.

Dunque l’incarnazione fasulla di un Dio cui non sta affatto bene farsi uomo, anzi non ci… pensa neanche. Ma fa questa mascherata pedagogica perché, si sa, Dio è tanto buono buono buono buono buono buono buono… Notare la serie: dopo un po’ non significa più niente, resta la sola sequenza alfabetica: b/u/o/n/o.

Non gli sta bene, ma una finzione pedagogica, why not? Ecco un Dio trasformato in Ministro Pubblica Istruzione e Psicologia in aeternum.

Non erano stupidi quei docetisti, ben pensata! In questo modo potevano anche fare finta crederci, sapienti “gnostici” che “sanno” come funziona la baracca.
Però non erano neanche stupidi quei cristiani che hanno mangiato la foglia ma non l’hanno bevuta. Per essere ortodossi a basta non essere stupidi. Ma oggi nessuno si accorge più di niente.

Nella pensata i bersagli sono due pensanti.
Il primo siamo noi, ognuno di noi, da istruire un ma non tanto eh!, che faccia il bravo. L’altro – ma l’accento è sulla simultaneità: colpire lì è colpire là – è Cristo stesso. Se è tutto un trucco, un dispositivo pedagogico, allora Cristo è un debile celestiale, non pensa, è materiale didattico, oggi al computer.

Cogliere il pensiero di Cristo non è difficile, basta cominciare a raccoglierli, al plurale, i pensieri, uno dopo l’altro. La lista è notevolissima, provare per… credere. Essi, al plurale, dicono che è davvero un pensiero, uno, consistente, coerente, inventivo, propositivo, efficace, critico, incoraggiante il pensiero stanco.

Che pensa bene, pensa giusto, ha ragione.

Ho già fatto notare quando Pietro gli dice “Tu solo hai parole di vita eterna” gli dice: “Hai ragione tu”.
A volte “fede e ragione” si ragiona da docetisti perché: da una parte si mette Cristo come il materiale obelisco della fede, dall’altra la ragione come le pezze che ci mettiamo noi – pescandole dai agli esistenzialisti - per dare ragione di tale fede. Ma in questo modo annulliamo il pensare personale di Cristo come il sigillo dell’incarnazione (il noùs Kristoù di S. Paolo): ai docetisti faceva problema che Cristo fosse anatomo-fisiologicamente a posto, purché non pensasse.
La ragione – da finanziare, certo, come ogni investimento: è la “grazia” - sta nella facoltà di dire ragione”. Uno razionale come lui io non l’ ho mai incontrato.
Due esempi di quel pensiero e della sua razionalità.
Il primo l’ho già dato. “Se la pianta di non fa fichi che sia tagliata”, ossia che venga trasformata in un’altra cosa o res o ente o (legna da ardere). Con questa frase Cristo si contrappone all’ontologia greca. Questa avrebbe detto: “Una pianta di fichi è sempre e comunque una pianta di fichi”. Cristo replica: “Una pianta di lo è se e solo se mi dà soddisfazione, ossia se fa frutto”. Seguono i discorsi economici di Gesù. Il secondo alla prossima volta.

Cristo dice: «A chi ha sarà dato, a chi non ha sarà tolto anche quello che ha». Ancora economia, pensiero economico. Anche questa è una di quelle frasi portano la spada. Se uno fosse contro, capirei se lo volesse crocifiggere."

La composizione del luogo

Ovvero: Mariarosa Mancuso recensisce sul Foglio di sabato 10 marzo 2007 il film "IN MEMORIA DI ME" scritto e diretto da Saverio Costanzo.



Saverio Costanzo dichiara nelle interviste – genere letterario da non prendere alla lettera, ma quando la stessa frase si rincorre virgolettata su vari quotidiani, e nessuno la smentisce, finisce per fissarsi in testa – che “la giovinezza nel suo caso ha saltato un giro”. Accantonate le ciance quotidiane che occupano i trentenni, preferisce meditare sulle Grandi Questioni: il conflitto tra arabi e israeliani in “Private” (suo primo e premiatissimo film, a dispetto del finale aperto e di qualche incongruenza); la spiritualità nell’opera seconda, unico titolo italiano in concorso alla Berlinale.

Progetto lodevole, non fosse che il cinema risulta poco adatto alla meditazione. “In memoria di me” si risolve in un’alternanza di inquadrature quasi fisse – chiostri e interni del convento sull’isola di San Giorgio Maggiore, a Venezia – e di dibattiti teologici tra il padre superiore e il novizio Andrea, che si è lasciato il mondo alle spalle per un periodo di prova. Sembra di capire, senza il sostegno di una vocazione.
Sta cercando qualcosa, anche se non sa esattamente cosa: purtroppo la sceneggiatura non è abbastanza solida per far sì che lo spettatore partecipi al suo cammino e ai suoi turbamenti.

Per esempio, avremmo la curiosità di sapere se lo attira la fede, o soltanto il rigore di un’esistenza organizzata. Se lo affascina la solitudine, oppure la vita segreta dei compagni che vivono nella cella accanto. Se è interessato ai dibattiti teologici – basta credere fermamente, o bisogna anche amare? – oppure alle regole che impongono di denunciare le deviazioni di cui viene a conoscenza.

Il volto impassibile, e l’accento lievemente esotico, dell’attore bulgaro Christo Jivkov non sciolgono i dubbi. Risultato: “In memoria di me” funziona come uno specchio. Lo spettatore finisce per ricavarne esattamente quel che proietta sulle immagini (altra cosa che c’entra poco con il cinema, o almeno con il cinema che amiamo).
Ecco perché i critici italiani hanno lodato, e i critici tedeschi hanno stroncato: dove il ricatto intellettuale funziona, uno si vergogna a far sapere in giro quanto si è annoiato. Al massimo apre il dibattito sul bacio tra maschi: sarà a sfondo gay come nel romanzo di Furio Monicelli?
No, risponde il regista, è un bacio dostoevskiano.
A questo punto, gli irriducibili ancora decisi a sostenere che il re è nudo, tacciono per non far la figura degli idioti ignari dei “Fratelli Karamazov”.

venerdì, marzo 09, 2007

Fides et Ratzinger /2

Divina Enfermera [2]


Venerdì 2 marzo 2007 all'ospedale fiorentino di Careggi una donna incinta (al quinto mese di gestazione) si è sottoposta all'interruzione volontaria di gravidanza dopo che alcuni esami avevano segnalato una malformazione, un'atresia all'esofago, rivelatasi poi inesistente. Lo si è scoperto dopo l'aborto. L'intervento è terminato con la rianimazione del bambino, come previsto dalla legge 194 quando c'è la possibilità di salvare il nascituro.

Il direttore del dipartimento di ginecologia di Careggi, Gianfranco Scarselli, riferisce che la madre del bambino era «stata vista per la prima volta dalla diagnosi prenatale all'undicesima settimana di gravidanza e l'esame aveva fatto emergere alcuni dubbi su possibili malformazioni», poi fugati da una villocentesi eseguita subito dopo.
Dall'ecografia eseguita alla ventesima settimana non si riusciva a vedere lo stomaco. A una seconda ecografia si parlava del rischio di una atresia all'esofago. Ma, secondo quanto afferma il medico, si trattava ancora solo di dubbi che hanno indotto i sanitari a consigliare alla signora di sottoporsi a una risonanza e di consultare un chirurgo pediatrico.
A questo punto la donna si sarebbe rivolta a un professionista esterno per una consulenza privata. La decisione di abortire sarebbe stata presa senza aver fatto prima la risonanza consigliata a Careggi.
L'atresia dell'esofago è una malformazione che colpisce circa 1 bambino su 3.500. Si sospetta soprattutto quando nell'ecografia non si vede lo stomaco. Il problema è che questo organo è invisibile, sostengono gli esperti, su un feto ogni 100, cioè anche in casi in cui non ci sono problemi. E così chi valuta gli esami è indotto all'errore, cioè ad inciampare in un cosiddetto «falso positivo».

Una commissione mista del Dipartimento interaziendale materno-infantile dell'area fiorentina, diretto da Paolo Morello, di cui fanno parte la Asl Firenze, l'azienda ospedaliera universitaria di Careggi e l'azienda ospedale pediatrico Meyer ha concluso che «non c' è stato alcun errore nella refertazione ecografica né nella comunicazione alla coppia. Solo il rispetto della legge 194 e della libera volontà di una donna».

I sanitati dell'ospedale di Careggi hanno ripetutamente chiarito che «è stato seguito l'iter normale. Si è trattato di un'interruzione volontaria della gravidanza, la legge parla chiaro, è la madre a scegliere».
La legge 194 sulla depenalizzazione dell'aborto, infatti, non giustifica l' aborto a causa della malformazione del feto ma solo per la tutela della salute, anche solo psichica, della donna: la gestante in questione perciò, che desiderava diventare madre, quando dopo l' undicesima settimana le è stato riferito il primo sospetto di una possibile malformazione del nascituro ha scelto di sottoporsi all' aborto ormai alla ventiduesima, ovviamente, per preservare la propria salute psicologica.

Carlo Casini, presidente del "movimento per la vita"ha inviato una lettera al ministro della salute paventando la possibilità che nell'aborto terapeutico di Careggi (come in tanti altri casi simili) si violi la legge 194 poichè nel caso dell'aborto terapeutico la legge lo permette solo ed esclusivamente per evitare problemi di salute fisica (e non psichica!) alla gestante: l’ultimo comma dell’art. 7 della legge stabilisce che “quando sussiste la possibilità di vita autonoma del feto” l’I.V.G. può essere praticata solo “quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna”.
Tutti i commentatori hanno sottolineato che la “possibilità” è qualcosa di diverso dalla “probabilità”. Anche un evento che si verifica in una percentuale minima di casi è “possibile”, sebbene “poco probabile”.


Il feto abortito a Careggi, seppur per pochi giorni, è riuscito a sopravvivere dimostrando di possedere quella "vita autonoma" che ai sensi di legge impedirebbe alla madre di abortire e ai sanitari di praticarlo.


Il piccolo, nato di 22 settimane di gestazione , subito trasferito nel reparto di terapia intensiva neonatale dell'ospedale pediatrico Meyer di Firenze, è morto nella notte del 7 marzo per complicazioni cardiocircolatorie.

Le condizioni del bambino erano state definite poco prima «gravissime» dal direttore del dipartimento interaziendale materno-infantile Paolo Morello.
Il neonato pesava 500 grammi e aveva un'altezza di una ventina di centimetri. Non aveva la malformazione che era stata ipotizzata ma pativa di tutte le patologie possibili in un neonato (estremamente) prematuro.



Annalena Benelli (Il Foglio, venerdì 9 marzo) ben esprime le sue e le nostre "doglie":

..."Adesso non ce ne freganiente dei carabinieri, della malasanità, dell’inchiesta, delle dichiarazioni politiche,dell’errore tecnico, di Livia Turco,di Ignazio Marino, dello psichiatra che hafirmato il certificato, delle colpe impossibilida dare, dell’ospedale che fa le condoglianzealla famiglia e giura che è statofatto tutto il possibile per salvare il piccolo,dei titoli mostruosi sui giornali (“Sanità nella bufera per un aborto sbagliato”,la Stampa), non ce ne frega niente davveroed è completamente devastante anche solo l’idea che adesso su quel bambino minuscolo si faccia un’autopsia. Quelbambino che un momento prima di esseretirato fuori dalla pancia dava i calcetti,alla fine ha avuto anche un nome.

I genitori avevano deciso di rinunciare a lui perché era un fardello troppo insopportabile l’idea della malformazione, ma poi hanno visto che era forte, vivo e sano (il fatto è che sono sempre più numerosi i bambini che sopravvivono all’aborto terapeutico, anche perché sono sempre migliori le tecniche di rianimazione: è la scienza che va avanti e non solo nella diagnosi prenatale e nello studio dei geni, anche nelle possibilità di non morire, ma di questo non si tiene conto), allora hanno fatto il riconoscimento e gli hanno dato un nome.
Di certo hanno sperato, gridato scongiurato che ce la facesse, e che facessero, i medici, qualunque cosa. Anni fa nello stesso ospedale c’era stata una bambina piccolissima, troppo prematura, ce l’aveva fatta. Il loro bambino no, è morto di notte. Con molto scandalo e moltissimo dolore di tutti, perché era sano.
Se invece quell’esofago fosse stato anche solo minimamente malformato, ci si sarebbe potuti consolare, forse la notizia del tentativo di vincere la morte non sarebbe nemmeno arrivata. Ma era proprio il bambino che ogni madre desidera, e che ogni screening prenatale si augura di esaminare, solo che lo stomaco non si vedeva.

L’Osservatore Romano ha scritto della “lotta miracolosa” di questo bambino, e poi, però, ha scritto che “l’aborto è arrivato a compimento”. E’ andata così e non ci sono colpevoli da punire per sentirsi meglio.
I genitori sono distrutti per sempre, i medici costernati, impauriti, i legislatori imbarazzati ascoltano i neonatologi spiegare che sopra le ventidue settimane c’è ormai troppa speranza di vita per praticare ancora l’aborto terapeutico. La scienza ha rivelato ancora e ancora quanto è incerta e distratta, e il bambino è vissuto abbastanza per mostrarci quanto è stato più forte di noi e della nostra povera idea di potenza."

[...Angustia y Soledad]

giovedì, marzo 08, 2007

mercoledì, marzo 07, 2007

De Obitu Theodosii


Ovvero: Si plauda alle condiderazioni del "divinus" Magister a proposito, dell'accettazione da parte del Pontefice sedici volte Benedetto, delle dimissione dell'Eminentissimo Ruini: per oltre tre lustri Presidente della Conferenza episcopale italiana.

Molti -e da molti mesi!- anelavano a ciò che con un breve dispaccio ha comunicato la Sala stampa vaticana la mattina di mercoledì 7 marzo nonchè anticipato dal Cardinal Segretario di Stato la sera prima di modo che i mass media hanno avuto tutto il tempo e la premura di commentare l'evento. Per alcuni fausto evento; poichè "Don Camillo" lascia l'agone ( cioè parrebbe che lasci l'agone) politico-mediatico; ma per molti è fonte di perplessità poichè Ruini in quindici anni, a volte contro l'opinione di gran parte dell'episcopato ma sempre con il fermo sostegno di papa Wojtyla e papa Ratzinger, ha delineato e determinato la linea interventista della Chiesa Cattolica in Italia. Una Chiesa che sostiene fortemente il proprio diritto e la propria libertà di educare,imbastire dialoghi con il mondo culturale e che non diniega il confronto serrato di una "battaglia culturale" poichè non consente a nessuno il diritto di porla in uno stato di minorità intellettuale. Perciò una gerarchia e una comunità eccesiale capace di proporre un "progetto culturale" dei cattolici italiani per i cattolici italiani senza la necessità della mediazione di una classe politica di sedicenti cattolici.

Dai commenti anche di quelli a cui Ruini non è mai riuscito simpatico (anche nel mondo ecclesiale!)- e Ruini direbbe che: molti nemici molto onore- si capisce che difficilmente si tornerà indietro.
Prima della presidenza di Ruini, la società italiana, la Chiesa, e il mondo intero avevano una configurazione ben precisa; nel ventunesimo secolo la geopolitica è radicalmente mutata, la struttura istituzionale italana è cambiata e il merito di Ruini è stato, se non quello di aver azzeccato il percorso- non sono quì per lodare Camillo ma per seppellirlo!- almeno di aver capito che la Chiesa non poteva permettersi di star ferma a guardare "il gran teatro del mondo" quale muto spettatore dispensatore automatico di sacramenti.


"Fulgido" esempio della coscienza che si è raggiunta dell'incisività della "Gestione Ruini" ne è segno manifesto l'ispirata "orazione" di Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera di mercoledì 7 Marzo 2007 di cui seguono l'incipit e il roboante finale:

"Nella storia politica italiana, fitta di rivoluzionari mancati, al momento dell’addio Camillo Ruini (Sassuolo, 1931) imprime il segno di una rivoluzione riuscita. Che l’ha portato a rafforzare l’influenza dei cattolici nonostante la morte della Dc.
L’ha portato a riprendere l’offensiva dei valori nonostante la secolarizzazione del Paese, a imporre nell’agenda del confronto parlamentare e intellettuale i temi della vita e della bioetica, a stravincere un referendum trent’anni dopo la disastrosa sconfitta del divorzio, a innovare la linea sulla missione in Iraq nell’ora più drammatica; in una parola, a ripristinare la coscienza identitaria della Chiesa italiana, e modificarne profondamente — nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista—il rapporto con lo Stato e la società.

Nessuno dei suoi predecessori era stato tanto amato e criticato, blandito e temuto, al punto da diventare un personaggio centrale della politica, guadagnarsi in conclave il ruolo di grande elettore di Ratzinger, respingere numerose richieste di incontro da parte di segretari di partito (cui preferiva mandare appunto il segretario della Cei Betori), ispirare l’invettiva di una brava attrice di Rai3 (Eminenz!), portare in Senato una scienziata dell’Opus Dei affezionata alle mortificazioni, essere visto ora come un baluardo ora come un bersaglio come ha spiegato lui stesso domenica scorsa al Corriere: «Meglio criticati che irrilevanti ».

Una missione condotta con uno stile molto personale: schivo macostretto a un ruolo pubblico, taciturno ma deciso a non lasciarsi mai zittire, Ruini non ha ceduto alla tentazione della vanità e alla scorciatoia della vetrina televisiva.
[...]
La forza asciutta che ha deluso molti laici ed è forse spiaciuta anche a qualche cattolico ha finito, nel tempo, con l’alimentarne il carisma, e ha contribuito a scriverne il ruolo nella storia recente d’Italia, che ora prosegue come vicario di Roma. E quando si sarà sopito il clamore del mondo — la polemica quotidiana, le richieste d’udienza dei segretari di partito, l’urlo della Littizzetto, il cilicio della Binetti —, anche la politica saprà fare, nel tempo, quello che alla Chiesa riesce più facile, fermarsi ameditare, individuare gerarchie di valori, restituire le cose alla loro dimensione; e allora si comprenderà appieno che all’inizio della primavera del 2007 si è consumato l’addio di un grande."

martedì, marzo 06, 2007

Latae Sententiae [2]

Ovvero: "visiono private"

Il buon Ferzan Ozpetek presentando "SATURNO CONTRO" ha mille ed una volta prevenuto l'eventuale veggente della sua pellicola che il prodotto della sua regia cinematografica non trattava affatto di astrologia. Si tratta solo di una battuta all'inizio del film detta da un'Ambra Angiolini cocainomane e molto insicura per giustificare le proprie fragilità.

Appurato ciò, vorrà dire che Saturno non si opporrà, perciò, se io dichiarassi che, se avessi avuto la ventura di visionare la pellicola per tempo, avrei suggerito un titolo più aderente alla trama del film, ovvero: "LA TAVOLA VALDESE"!

lunedì, marzo 05, 2007

DEVOTIO MODERNA [4]


"Mio Dio, io non oserei offendere un mio superiore terreno; me ne spavento, perchè so di accrescere la mia responsabilità; tuttavia oso offendere te, Signore; so benissimo che la grandezza dell'offesa è proporzionata alla grandezza della persona cui è fatta. Eppure io non mi pento di offenderti, sebbene tu sia un Dio infinito.

Mio caro Signore, quali sentimenti dovrei provare, che cosa dovrei dire di me stesso se percuotessi un mio superiore della terra? Se dessi con violenza un colpo a qualche persona degna di riverenza come lo è un padre o un sacerdote se gli dessi uno schiaffo?
Io non mi sento di pensare neanche una cosa simile; eppure che cos'è tutto questo, se si paragona al''atto con il quale mi sollevo contro di te?

Il peccato è un'insultare te nella maniera più vergognosa.

In questo, o anima mia, consiste tutta la gravità del peccato. Esso equivale ad alzare la mano contro il mio benefattore infinito, contro il mio onnipotente Creatore, Signore e Giudice, contro colui, che è il centro di ogni maestà, di ogni gloria, di ogni bellezza, di ogni riverenza, di ogni santità; contro colui che solo è Dio."

[Cardinal John Henry Newman ; "Meditations and Devotions"]
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[dalla Repubblica di sabato 3 marzo 2007]
"BARI - Il preside della scuola media Lombardi di Bari è stato aggredito questa mattina da alcuni genitori.
L'uomo, Ugo Castorina, era già stato insultato alcuni giorni fa, per imposto ai ragazzi di lasciare i cellulari prima di entrare in classe.

"Tu devi venire fuori, io ti devo uccidere". Queste le parole pronunciate dai genitori contro il preside, secondo quanto ha raccontato lui stesso. "In due si sono introdotti nella scuola - ha detto, uscendo dalla caserma dei carabinieri dove ha sporto denuncia - mentre entravano i ragazzini. Io normalmente mi metto in fondo al corridoio della scuola in modo da avere la visione generale della situazione. Ho chiesto a queste due persone che cosa volessero, perchè per loro non era il momento di entrare, ma loro pretendevano che li ascoltassi immediatamente. Gli ho detto: guardate, non si può e non si deve in questo momento, abbiate pazienza, attendetemi nella hall di ingresso e poi ne parliamo. Invece loro hanno reagito prima verbalmente e poi anche con i fatti, con qualche tentativo di calci e pugni. C'è stata una piccola colluttazione e poi sono intervenuti in aiuto alcuni insegnanti ed il personale della scuola".

"Non li conoscevo - ha proseguito il preside - sono persone che non si sono mai fatte vedere nella scuola. Non so cosa volessero dirmi. Sono scappati quando hanno capito che stavano arrivando i carabinieri ma l'ultima cosa che ha detto uno di loro è stata:"Io ti devo uccidere".

"In Italia - dice il ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni commentando quanto accaduto a Bari - c'è una vera emergenza del vivere civile e del rispetto delle regole che riguarda tutti: scuola, genitori, famiglie, mass media.
E' un fenomeno di fronte al quale ciascuno deve assumersi la propria parte di responsabilità perché si tratta di un problema del Paese, certo non solo della scuola.
Educare significa non solo dare competenze ma formare uomini. E questi cittadini - ha sottolineato il ministro - dobbiamo formarli tutti insieme: l'insegnamento del rispetto della legalità deve iniziare dando l'esempio, a cominciare da quello dei genitori".

L'aggressione avvenuta oggi, conclude il ministro, è "intollerabile" soprattutto perchè ha come protagonisti dei genitori, che dovrebbero essere "il primo livello educativo" nella società. E non è la prima volta che accade."

Pacco, contropacco e contropaccotto /7

Ovvero: Autocefalia canaglia



Intervistato da AsiaNews il metropolita russo ortodosso di Vienna ed Austria Sua Eccellenza Hilarion Alfeyev( nonchè rappresentante del patriarcato di Mosca presso l'Unione Europea) ha dichiarato che il patriarcato moscovita non gradirebbe affatto la sinfonica partecipazione del Sommo Pontefice e del Patriarca Ecumenico al simposio teologico cattolico-ortodosso fissato a Ravenna nell'ottobre 2007.


"Lei sarà il massimo esponente della Chiesa russo-ortodossa a Ravenna, dove si è parlato di un comune intervento del Papa e del Patriarca ecumenico.

È vero, c’è la possibilità che Bartolomeo I, Patriarca di Costantinopoli, e Benedetto XVI vadano insieme a questo appuntamento. Ma io penso che sia improbabile che il Papa vada a Ravenna, perché questo creerebbe più difficoltà che benefici.
Gli altri membri della Commissione sentirebbero di lavorare con un’eccessiva pressione alla presenza di entrambi; la compresenza del Papa e di Bartolomeo I, senza quella di altri patriarchi creerebbe l’errata impressione che i due siano i capi delle due Chiese. Mentre la struttura della Chiesa ortodossa è differente da quella della chiesa cattolica: essa è fatta di chiese autocefale ognuna guidata da un primate e tutti sono uguali, c’è un certo ordine di importanza, ma nessuno è subordinato agi altri.
Noi rispettiamo la supremazia di Bartolomeo I, come Patriarca ecumenico, coordinatore delle varie chiese, ma non vi è una supremazia giurisdizionale o amministrativa. Se c’è un incontro tra i due va letto come l’incontro tra la guida della Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli. Ma non quello tra i leader della Chiesa cattolica e ortodossa."



La precedente sessione della Commissione mista cattolico-ortodossa per il dialogo teologico s’è infatti chiusa a Belgrado il 24 settembre 2006 con le vibrate proteste proprio di Hilarion, quale rappresentante del Patriarcato ortodosso "di tutte le Russie", trovatosi in minoranza rispetto all'opinione degli altri teologi ortodossi proprio sul ruolo del Trono Ecumenico.

Il tema dibattuto era storico-ecclesiologico: partendo dall'analisi di come venga convocato un "Concilio Ecumenico" si traevano le conseguenze di cosa volesse significare concretamente per una Chiesa l'essere o non essere in "comunione" con un'altra Chiesa partendo dal secondo concilio di Nicea del 787, il settimo ecumenico ( nonchè l'ultimo riconosciuto come ecumenico dagli ortodossi!) le cui decisioni furono approvate dal patriarca di Costantinopoli e dai legati papali (nonchè dai legati degli altri patriarchi ormai sotto dominio mussulmano.

Or bene: se è certo che il concilio iconodulo fu l'ultimo universalmente "Ecumenico" esso non fu certo l'ultimo concilio! Dopo lo scisma del 1054 tra i vescovi di Roma e di Costantinopoli, sia il Pontefice romano sia il Patriarca costantinopolitano continuarono a convocare concilii se non più "ecumenici" almeno "generali" per discutere e risolvere controversie ecclesiali. Concilii a cui partecipavano i gerarchi e i teologi di quelle Chiese locali che si consideravano in comunione con l'una o con l'altra Chiesa. Roma e Costantinopoli perciò sarebbero da considerare nei fatti, prescindendo da qualunque potere di infallibilità, i centri "di gravità permanente" rispettivamente di tutte le Chiese di rito latino e di tutte le Chiese di rito bizantino.

E' evidente che, come anche il patriarcato di Mosca deve ammettere, se nel 1054 Roma e Costantinopoli ruppero la comunione tra loro e pertanto tra cristianità occidentale e cristianità orientale, è quindi dovere proprio del Vaticano e del Fanar di ristabilire l’unità!
La dichiarazione teologica proposta a Belgrado sul ruolo del Trono ecumenico quale unico possibile presidente di un eventuale concilio pan-ortodosso doveva quindi essere proprio la pezza d'appoggio su cui istituzionalizzare il ruolo del Fanar quale supremo referente del Vaticano nel dialogo con la giuridicamente frantumata ortodossia bizantina.

Quando si è tratta di votare l'articolo che definiva il ruolo del Trono Ecumenico all'intero dell'Ortodossia bizantina i delegati di Mosca si sono trovati da soli ad esprimere voto contrario: 2 voti contro 30!
Hilarion ha lamentando che la commissione teologica non teneva affatto conto delle reali proporzioni delle singole Chiese autocefale e che non era accettabile che venisse approvata una decisione a cui erano invece contrari i rappresentanti della Chiesa che da sola rappresenta il 70% dei cristiani ortodossi.

Sua Eccellenza Hilarion aveva dichiarato ai tempi della visita di Benedetto XVI al Fanar, e cioè due mesi dopo l'incontro teologico di Belgrado, che:"La Chiesa ortodossa non ha un unico Primate. Essa consiste di 15 Chiese autocefale, ciascuna diretta da un proprio Patriarca, Arcivescovo o Metropolita.

In questa famiglia di Chiese, il Patriarca di Costantinopoli è “primus inter pares”, ma il suo primato è di natura onorifica, non giurisdizionale, in quanto egli non ha autorità ecclesiale sulle altre Chiese. Pertanto, quando talvolta viene presentato come “capo” della Chiesa ortodossa nel mondo, si tratta di un’immagine fuorviante. Altrettanto fuorviante è considerare il suo incontro con il Papa di Roma come un incontro tra i due vertici della Chiesa ortodossa e della Chiesa cattolica.

Storicamente, fino allo scisma del 1054, il Vescovo di Roma godeva di una posizione di preminenza tra i vertici delle Chiese cristiane. I canoni della Chiesa orientale – in particolare il famoso 28° canone del Concilio di Calcedonia – assegnano il secondo posto e non il primo al Patriarca di Costantinopoli.

Inoltre, il contesto in cui questo secondo posto è stato concesso al Patriarca di Costantinopoli era di natura puramente politica: quando Costantinopoli divenne la “seconda Roma”, capitale dell’Impero bizantino, si decise che il Vescovo di Costantinopoli dovesse occupare il secondo posto dopo quello del Vescovo di Roma.

Dopo la rottura della comunione tra Roma e Costantinopoli, il primato nella famiglia ortodossa orientale si è trasferito sul “secondo in lista”, ovvero il Patriarca di Costantinopoli. Fu pertanto attraverso un evento storico che egli divenne “primus inter pares” per la parte orientale del mondo cristiano.

Personalmente ritengo che, affianco ai rapporti con il Patriarcato di Costantinopoli, sia egualmente importante che la Chiesa cattolica romana rafforzi le relazioni bilaterali con le altre Chiese ortodosse, e in particolare con la Chiesa ortodossa russa. Quest’ultima è la seconda Chiesa cristiana più grande al mondo, i cui fedeli assommano a circa 160 milioni di persone."


Traducendo: il Patriarcato di Mosca reputa di essere il vero, unico e legittimo rappresentante dell'ortodossia bizantina, con i suoi 160 milioni di cittadini russi, cioè il 70%di tutti gli ortodossi, di contro alle poche decine di greco-ortodossi che abitano ad Istanbul.

E', ahi noi, una vecchia storia che risale al XVI secolo quando, dopo la conquista ottomana di Costantinopoli "La nuova Roma", il principe moscovita si definì l'erede dell'impero bizantino-ortodosso proclamando Mosca quale "Terza Roma" e pretendendo per la Chiesa di "Tutte le Russie" l'autonomia totale dal Patriarca di Costantinopoli (ormai divenuto un suddito degli infedeli) e per il vescovo di Mosca lo status di patriarca nonchè il titolo di "Sua Santità".

Già dall'epoca del Concilio Vaticano II l'antico attrito fra Costantinopoli e Mosca per il "primato" sugli ortodossi si è spostato in campo ecumenico, divenuto un vero campo minato per la Chiesa Cattolica dopo il crollo del comunismo sovietico.
Molti e poco edificanti "fioretti" antichi e recenti si potrebbero citare in tal proposito!
Ma ciò che a me stupisce particolarmente è la totale disinvoltura con cui il Patriarcato di Mosca dichiari "contingente" la funzione primaziale del Trono ecumenico mentre quando i greco-cattolici ucraini hanno tentato di costituire una propria struttura patriarcale questa è stata considerata un attacco alla Chiesa di Mosca che oltre mille anni or sono ebbe origine nell'attuale Ucraina.

Vorrei sapere in base a quale assunto teologicamente fondato si basa il principio che la "contingenza storica" và applicato solo quando conviene!