martedì, luglio 31, 2007

Sonetos Fùnebres, XV



In festo Sancti Ignatii de Loyola - Propongo qui di seguito un tornito ritratto del "Generale" Pedro Arrupe eseguito da Maurizio Crippa
(Il Foglio, sabato 28 aprile 2007)

Ovvero: IL GESUITA TROPPO OTTIMISTA

"...Nel marzo scorso (2007, ndr) la Congregazione per la Dottrina per la fede ha reso nota la condanna di alcune tesi “erronee e pericolose” di Jon Sobrino, gesuita di San Salvador di origine basca e ultimo mohicano della teologia della liberazione.
Oggi il problema principale per la chiesa latinoamericana non è certo la deriva marxista (preoccupa di più la legalizzazione dell’aborto in Messico) e la condanna di Sobrino potrebbe apparire un po’ un accanimento su un reduce. Non fosse che la marginale vicenda del professore gesuita è l’ultima eco di una stagione ecclesiale e teologica che ha sconquassato la chiesa, non solo in Sudamerica, e in modo particolare la Compagnia di Gesù, la milizia scelta dei Papi.

Sullo sfondo si staglia ancora oggi, tutta da indagare, la figura di un altro gesuita basco. Per la precisione il secondo basco a guidare l’ordine, il padre generale del quale i suoi numerosi nemici interni dicevano “un basco ha fondato la Compagnia, un basco la chiuderà”: il padre Pedro Arrupe.

Appassionato di musica, conoscitore di sette lingue, animatore infaticabile e viaggiatore pellegrino nelle più remote province, spirituale e a suo modo romantico, Arrupe era stato in precedenza missionario per ventisette anni in Giappone e testimone della bomba atomica.
Ma è all’America Latina – intesa come idealtipo della terra di missione, del continente dei poveri da privilegiare, del luogo provvidenziale in cui alla chiesa è offerta l’occasione di riscattare se stessa dai suoi compromessi con la Ricchezza e il Potere – che è legato il suo nome e molta parte del suo lungo e controverso “generalato”.


Padre Arrupe riposa dal 1993 nella chiesa del Gesù, ed è noto ai più come intestatario del Centro di accoglienza per rifugiati politici di Roma, o dell’Istituto di formazione politica palermitano da cui, negli anni bui delle guerre di mafia e della stagione degli onesti, pontificavano, nella caricatura nostrana della teologia della liberazione, i gesuiti del padre Bartolomeo Sorge.

Eppure ci fu un tempo in cui il ventisettesimo successore di Ignazio si guadagnava le copertina di Time e dello Spiegel come “uomo dell’anno”, rilasciava interviste ai giornali di tutto il mondo, parlava con l’autorevolezza (e l’audience) che si addicono a un Papa nero. Il primo Papa nero a comparire in televisione, suscitando non poche perplessità dei confratelli per una lunga intervista a ruota libera concessa, poco dopo la sua elezione, a Ugo Zatterin per “TvSette”.

Uomo mite, aperto, coinvolgente e generoso, è stato Preposto generale della Compagnia di Gesù dal 1965 al 1983.
Lo era diventato a sorpresa, eletto dalla trentunesima Congregazione generale, il “conclave” dell’ordine, il 22 maggio 1965, mentre il Concilio ancora era aperto. “Gli stessi gesuiti che lo votarono erano convinti di aver eletto un robusto conservatore”, disse anni dopo padre Sorge.
Di certo la sua elezione fu “un segno di forte discontinuità e di rottura con le aspettative e i desiderata dell’establishment curiale romano e all’interno dello stesso ordine”, scrive lo storico Gianni La Bella.
Del Vaticano II era stato protagonista vivace, seppure non di primissimo piano (intervenne sul tema della lotta all’ateismo, suscitando brividi tra i tradizionalisti e pure tra i moderati).
Dell’“attuazione del Concilio” – “il nuovo inizio” – dentro il suo ordine e nella chiesa fece la sua missione. Ne fu propugnatore spirituale indefesso, sincero, radicale, generoso, profetico. Ottimista.
Una lunga teoria di aggettivi che compaiono più volte nei ventisei saggi che compongono il corposo volume (1084 pagine) edito dal Mulino, “Pedro Arrupe – Un uomo per gli altri”. Non una biografia, ma un mosaico di voci – studiosi e gesuiti testimoni dei fatti – che dopo l’esaustiva introduzione di Gianni La Bella rileggono vita e opere del generale che ha segnato il periodo più controverso e drammatico della Compagnia dal tempo della sua ricostituzione, nel 1814.

Un contributo importante per ricostruire “una figura chiave del post-Concilio” e anche per chiarirsi un po’ le idee su come andarono le cose dentro la chiesa, scossa dalle fondamenta dal vento del Vaticano II. Perché il padre Arrupe è stato un autentico paradigma della chiesa conciliare. Così come la crisi che attraversarono con lui i gesuiti è un paradigma di quanto avvenne in pressoché tutti gli ordini religiosi.
La Bella scrive che, “contrariamente a quanto spesso sostenuto”, Arrupe non è “il liquidatore” dell’ordine, il suo “esecutore testamentario”. Ma è lo stesso autore a spiegare che “la compagnia che Arrupe eredita all’inizio del suo mandato è all’apogeo della sua forza e del suo splendore”. Trentaseimila sacerdoti, il maggior numero mai raggiunto, presenti in cento paesi, quattromila scuole, università, case editrici. Un ordine potente e influente, i cui membri sono attivi in qualsiasi campo della vita sociale, ecclesiale, culturale, dalla filosofia all’astrofisica. Eppure, quando Arrupe ne la lascerà la guida, sarà a un passo dalla catastrofe.

Non tutta colpa del generale, certo: Lo splendore degli anni Cinquanta, “questa uniformità, omogeneità e compattezza” è secondo La Bella “sotto molti aspetti soltanto apparente”. I gesuiti erano un secolare albero le cui radici iniziavano a inaridirsi. Arrupe giunse alla guida dell’ordine “dominato da un’ansia di rigorosa e pura, autentica fedeltà agli insegnamenti del fondatore” e con la determinazione di rifondarlo, perché “ciò che è inutile cessa di avere una ragione di essere”. La sua è una “spiritualità antica”, con grande energia, enfasi e sincerità sprona i suoi a tornare alla radici: “Questo bisogna fare: presentare alla Compagnia la situazione nella quale essa si trova nel mondo reale”.

Rimette al centro Ignazio, così come i padri conciliari rimettevano al centro le Scritture e il Vangelo. “Ritorno alle fonti del proprio carisma e adattarsi alle mutevoli condizioni dei tempi” è il suo programma. Una vitalità integerrima, che agisce in varie direzioni: rivitalizzare la vita spirituale dell’ordine; rafforzare il compito della missione alservizio della “nuova chiesa” del Concilio; attuare quella “scelta preferenziale per i poveri” che sembra esserne la sintesi teologico-politica.

E’ un convinto assertore dell’“apertura al mondo”. Al lavoro interno affianca iniziative di grande respiro mediatico. Si batte per la pace, fonda il Jesuit Refugee Service, è in prima fila nelle campagne internazionali contro gli armamenti e contro la povertà. E’ a favore di quella della chiesa (“il contributo più sicuro e più necessario che noi possiamo dare alla riforma della chiesa universale, dice Sant’Ignazio, è di procedere il più possibile sprovvisti di cose”).

La sua è una visione spirituale e ottimista a un tempo: “Dentro, come fuori dalla chiesa, esistono segni di un rinnovamento che condurrà a un futuro migliore per il mondo e per la chiesa”, scrive, spronando a mettersi “al servizio” di questo movimento virtuoso della storia.
Ma è proprio l’esito di questa sua visione, di questa sua cura sincera per il mondo e per i suoi che, letto con gli occhiali della storia, appare oggi anche ai più benevoli esegeti del suo generalato come una sorta di enorme fraintendimento.
Come una delle più colossali eterogenesi dei fini mai realizzatesi nella storia della chiesa.

Investito dal vento del Concilio, Arrupe ne finì travolto fino al totale fallimento, simboleggiato dalla malattia che lo colpì negli ultimi anni, ma soprattutto sancito dalla doppia censura di due Papi (Luciani e Wojtyla), costretti loro malgrado a mettere le mani dove non avrebbero voluto, pur di salvare il salvabile dell’ordine che Paolo VI considerava, nonostante i dolori e i grattacapi che gli dava, una “colonna della chiesa”.

La grande accelerazione di cambiamento che Arrupe impresse alla Compagnia portò presto alla frattura tra conservatori e suoi progressisti, ma anche il “centro moderato” rimase perplesso e divenne sempre più critico. Arrupe fu accusato, più ancora che per le idee progressiste, prima ancora che per l’eccesso di visibilità pubblica, per la mancanza di chiarezza e di energia nel governo dell’ordine. Il suo stile improntato al dialogo personale, al “discernimento comune”, all’autorità “come servizio”, ebbe in quegli anni turbolenti l’effetto di un “liberi tutti” che non avrebbe potuto essere più deleterio. E non avrebbe potuto essere più lontano, soprattutto, dallo spirito e dalla tradizione dell’ordine abituato all’obbedienza “perinde ac cadaver”.

Fu soprattutto sul fronte dell’impegno teologico-politico che il “liberi tutti” divenne devastante, in un periodo in cui il cambiamento faceva premio sulla dottrina, in cui il marxismo faceva breccia ovunque.
Per un ordine così costituzionalmente impegnato nell’evangelizzazione dei paesi lontani e poveri, la tentazione della teologia della liberazione fu forte.
Arrupe non è imputabile di aver condiviso o benedetto questa deriva, che anzi contrastò con nettezza, se non proprio con efficacia. Ma è certo che le sue prese di posizione, come la famosa “Lettera sull’apostolato sociale” indirizzata nel 1966 ai gesuiti dell’America Latina (“l’enciclica di Arrupe”, la salutarono i mass-media) furono determinanti per il clima politico ed ecclesiale di quegli anni.
Nemmeno si possono contestare la buona fede e il contributo che i gesuiti hanno dato in quei decenni nei più diversi luoghi del mondo. Anzi, colpisce notare che la storia dei gesuiti, a partire proprio dal generalato di padre Arrupe, è anche una tragica e luminosa storia di martirio.
In appendice al libro del Mulino sono elencati i padri uccisi per la loro attività di missione negli ultimi trent’anni. Sono una cinquantina. Soprattutto in Africa e in America latina. Come i sei confratelli uccisi nel 1989 nell’università del Salvador (al massacro Jon Sobrio sfuggì per puro caso), uno degli episodi più gravi subiti della chiesa cattolica negli ultimi vent’anni.

Ma fu soprattutto la sua ingenua visione ottimista, a minare alle basi la Compagnia con effetti che in pochi anni si sarebbero rivelati macroscopici.
E’ un suo stretto collaboratore, Maurice Giuliani, a ricordare: “Optava per il mondo così com’era, secolarizzato, umano a tal punto da non far apparire alcun riferimento religioso… questo è il mondo d’oggi, occorre prenderlo così com’è con atteggiamento positivo”.
L’idea della secolarizzazione come un bene e l’eterno mito dello spogliarsi di sé e della tradizione sono del resto un tratto comune di molto pensiero cattolico propedeutico e successivo al Concilio. Così
la fine degli anni Sessanta segna l’esplosione della crisi per un ex esercito della fede ormai senza controllo, in cui opposte visioni si fronteggiano.

Arrupe, nel giro di pochi anni, si vede costretto a fronteggiare la crisi della “Humanae Vitae”, con i suoi maggiori teologi e riviste che attaccano apertamente e duramente la promulgazione dell’enciclica di Paolo VI. Poi la crisi degli abbandoni: tra il 1961 e il 1970 lasciano oltre mille gesuiti, compresi alcuni padri provinciali, mentre i novizi crollano a meno della metà. A Roma, tre padri della Gregoriana si dichiarano pubblicamente a favore della legge sul divorzio prima di lasciare la Compagnia.


Arrupe è debole nel reagire
Nel 1970 un preoccupato padre Gabriele De Rosa gli scrive: “Mi sembra che i nostri giovani non vengano sufficientemente formati secondo il nostro ‘stile’, all’impegno, al lavoro duro, al sacrificio, alla rinunzia a fare ciò che piace… Tutti sognano di lavorare nel campo sociale o di consacrarsi a opere che ‘suscitino scalpore per la loro novità o orginalità’. Nessuno intende dedicarsi alla predicazione della parola, alla educazione cristiana dei fanciulli e alle opere di carità”.
Le denunce che piovono al generalato e in Vaticano sono tante e tremende: si va dai conventi dove ormai si vive come in albergo alle riviste che criticano il Papa, dalle università dove continuano a insegnare come nulla fosse preti ridotti allo stato laicale, fino al giornale dei gesuiti di Newark accusato di aver pubblicato poesie blasfeme sulla Madonna.

Ma il momento forse più drammatico è la rivolta spagnola che scoppia nel 1969 in reazione al lassismo di Arrupe.
Diciotto autorevoli gesuiti chiedono formalmente di potersi staccare dalla provincia di appartenenza per continuare a vivere secondo le antiche regole della “vera” Compagnia. E’ una svolta che arriva al limite dello scisma interno e innesta una crisi profonda anche con il Vaticano, con il segretario di Stato Jean-Marie Villot che, nei primi anni Settanta, pensa seriamente alla necessità di rimuovere Arrupe.

Il 3 dicembre 1975 Paolo VI, ricevendo una delegazione di gesuiti, tiene loro un accorato discorso. Li interroga sulla loro origine: “Chi siete? Donde venite? Dove andate?”. Ricorda loro che “essere religiosi significa ancora dedizione a una vita austera”, pone infine la domanda della fede: “E allora, perché dubitate?”.

Per paradosso, il colpo definitivo alla ormai traballante posizione di Arrupe, arrivò da papa Luciani, il pontefice sorridente cui una vulgata frettolosa ha cucito addosso soltanto l’immagine del (mancato) progressista. Invece Giovanni Paolo I, fra le prime e poche cose che poté fare, scrisse un discorso di severo richiamo ai gesuiti, che non riuscì a pronunciare. Fu il suo successore a trasmetterlo, condividendolo in pieno, alla curia generalizia dell’ordine.

Giovanni Paolo II e Arrupe si incontrarono due volte nel 1981. Furono due confronti piuttosto duri. Gli eventi precipitarono.
Il 13 maggio dell’81 l’attentato al Papa; il 7 agosto, al rientro da un viaggio in estremo oriente, padre Arrupe fu colpito da un ictus cerebrale.
Fu designato al suo posto il suo vicario, il super progressista americano padre O’Keefe, “libero pensatore del momento” (Andreotti) e fresco reduce da una pessima intervista rilasciata a un giornale olandese in tema di morale. Così il Papa intervenne personalmente e “commissariò” l’ordine imponendo come “delegato pontificio” il padre Paolo Dezza, paladino dell’ala più “tradizionale” dell’ordine, incaricato di predisporre una nuova Congregazione generale, quella che nel 1983, accettate le dimissioni di Arrupe, eleggerà il padre Peter-Hans Kolvenbach.

Quel che era stato il paradigma della rivoluzione conciliare finiva non tanto per effetto di una controrivoluzione, ma per l’esausto ricadere su se stesso dell’ottimismo di un generale basco ammaliato dal Concilio."

venerdì, luglio 27, 2007

mercoledì, luglio 25, 2007

Il terzo miracolo di Benedetto XVI


“I musulmani sono liberi di cambiare religione perché la fede è una questione esclusiva tra l’uomo e Dio”. Lo ha dichiarato il Gran Muftì d’Egitto Ali Gomaa sul 'Muslim speak forum' della rivista americana 'Washington Post-Newsweek': "Chi cambia religione compie peccato dal punto di vista dell'Islam e rispondera' a Dio nel giorno del giudizio, ma non puo' essere punito dalla giustizia terrena a meno che questa scelta non rappresenti una minaccia alle fondamenta della societa".

lunedì, luglio 23, 2007

vite parallele /12


Con l'Angelus di domenica 22 luglio 2007 il Papa sedici volte Benedetto si è ostenso al secondo ed ultimo "bagno di folla" delle sue vacanze (dal 9 al 27 luglio) a Lorenzago di Cadore, su quelle medesime Dolomiti che per sei volte videro le escursioni montanare dell'assai più sportivo predecessore polacco. Papa Ratzinger alle scarpinate per i ripidi sentieri di montagna preferisce le vespertine passaggiate alle devote chiesette di campagna.

Trovandosi in una zona di confine tra due diocesi, l'Angelus di domenica 14,svoltosi nel castello di Mirabello poco distante dall villetta che ospita il Papa, è stato particolarmente indirizzato ai fedeli della diocesi di Treviso il cui vescovo ha tenuto il discorso di benvenuto, mentre domenica 22 sul palco allestito nella piazza principale di Lorenzago è stato il turno del vescovo di Belluno-Feltre nell'omaggiare il Santo Padre.

Immancabile l'accenno ad un altro papa Giovanni Paolo, il "Primo", che in provincia e diocesi di Belluno -in un'altro paesello di montagna: Canale d'Agordo- ebbe i natali. Presente, come in una perfetta coreografia, anche Edoardo Luciani il nonagenario fratello di Papa Luciani cui Papa Benedetto ha indirizzato un grato pensiero affermando -en passaint e con nonscialance- che il mite ed umile pontefice bellunese fu: «mio grande amico».
Se l'affermazione ha prevedibilmente scaldato i cuori e bagnato il ciglio dei convenuti nella piazzetta di Lorenzago, e dei triveneti tutti, scatenando gli applausi e gli evviva, epperò non poteva non sorprendere chi ha in gran concetto l'amicizia! Non si può che rimanere piùche perplessi al pensiero di quale grande amicizia ci sia mai potuta essere tra i due futuri papi dato che prima del conclave dell'agosto 1978 il cardinale Albino Luciani e Joseph Ratzinger s'erano incontrati solamente un'altra ed unica volta! Dichiarò il Cardinal Ratzinger in una intervista a "30Giorni":
"RATZINGER: Sì, lo conoscevo personalmente. Durante le vacanze estive del ’77, ad agosto, mi trovavo nel seminario diocesano di Bressanone e Albino Luciani venne a farmi visita. L’Alto-Adige fa parte della regione ecclesiastica del Triveneto e lui, che era un uomo di una squisita gentilezza, come patriarca di Venezia si sentì quasi in obbligo di recarsi a trovare questo suo giovane confratello. Mi sentivo indegno di una tale visita. In quella occasione ho avuto modo di ammirare la sua grande semplicità, e anche la sua grande cultura. Mi raccontò che conosceva bene quei luoghi, dove da bambino era venuto con la mamma in pellegrinaggio al santuario di Pietralba, un monastero di Serviti di lingua italiana a mille metri di quota, molto visitato dai fedeli del Veneto. Luciani aveva tanti bei ricordi di quei luoghi e anche per questo era contento di tornare a Bressanone.
Prima non l’aveva mai conosciuto di persona?
RATZINGER: No. Io ero vissuto, come ho già detto, nel mondo accademico, molto lontano dalle gerarchie, e non conoscevo di persona i vertici ecclesiastici."


Immancabili all'appuntamento di preghiera col Santo Padre i dirigenti politici del Veneto "bianco": le autorità politiche regionali e provinciali e con tutti i sindaci del circondario -fascia tricolore muniti- e in primis il "devoto" sindaco di Lorenzago che solo pochi giorni prima aveva abbandonato polemicamente la sala in cui veniva presentato un libro di foto dei soggiorni di Giovanni Paolo II in Cadore perchè, essendo sindaco anche all'epoca, nel volume non vi è nemmeno una foto che lo immortali accanto al defunto pontefice "Santo Subito".

Intanto Papa Benedetto, dopo aver rivolto l'appello alla pace tra i popoli e rinnovato la definizione della "guerra" quale "inutile strage" ad imitazione del suo omonimo precedessore, così concludeva:
"Trovandomi nella Piazza di Lorenzago, desidero rivolgere il mio saluto più cordiale agli abitanti di questo bel paese, che mi hanno accolto con tanto affetto, e ringrazio nuovamente il Sindaco e l'Amministrazione comunale per la solerte ospitalità: oggi la prima Lettura e il Vangelo parlano dell'ospitalità e mi sono venute in mente le parole di san Benedetto "Accettare l'ospite come Cristo".
Mi sembra che tutti siete "benedettini" perché mi avete accettato così."
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Dovendo regnare su di un Impero su cui non tramontava mai il sole, Carlo V dovette, fino al giorno in cui abdicò, barcamenarsi su più fronti combattendo tutti i più disparati avversari del suo immenso impero.
Nel 1541 riuscito ad ottenere l'ennesima tregua nella infinita guerra con il Re di Francia, riuscito a placare la sommossa dei principi protestanti in Germania ed ottenuto dal Papa l'indizione di un Concilio che ponesse una soluzione allo scisma all'interno della cristianità (e soprattutto all'interno del "suo" Sacro Romano Impero) Carlo V si propose di spostare le sue armate nella mediterranea lotta contro i turchi.
La meta della spedizione punitiva fu individuata in Algeri cioè la base logistica di quei pirati barbareschi che al soldo del Sultano di Costantinopoli infestavano il Mediterraneo rendendo insicura la navigazione dei legni cristiani, e che mettevano sontinuamente a repentaglio l'incolumitò delle cattoliche popolazioni costiere del cantinente europeo.
Carlo V per l'ottobre 1541 radunò una flotta imponente formata da 40 galere da guerra affidata ai comandi di valorosi ed esperti condottieri quali Andrea Doria, Ferrante Gonzaga e Hernán Cortés.

La spedizione fece sosta nel porto di Alghero, la città sarda in cui più viva era rimasta la comunanza di usi e costumi con la frontaliera Catalogna. L'imperatore venne alloggiato nell'elegante palazzo gotico della nobile famiglia de Ferrera (poi degli Albis).
Acclamato dalla folla, l'Imperatore si affacciò ad una finestra e lodò la bellezza di Alghero: "Bonita, por mi fé, y bien assentada" ("Bella, in fede mia, e ben solida") e, forse divertito o forse scocciato dal fracasso della blebe ossannante, avrebbe rivolto agli algheresi la celeberrima frase "Estade todos caballeros!" cioè: "Siete -nominati- tutti cavalieri".

La Municipalità ricorderà l'evento murando la storica finestra ed apponendovi un'acconcia targa a perpetua memoria.
E'certo invece che in Alghero Carlo V concesse il cavalierato solo a tre illustri cittadini algheresi che si erano uniti alla spedizione militare.

domenica, luglio 22, 2007

LA DIVINA PASTORA [4]


Ovvero: "Modello Giuditta"

In una intervista al quotidiano romano 'Il Messaggero' , il direttore dei programmi in lingua tedesca della Radio Vaticana, il padre gesuita Eberhard von Gemmingen ha dichiarato -senza avere la minima percezione della ridicolosità delle proprie dichiarazioni- che vedrebbe bene un Collegio Cardinalizio formato dal cinquanta per cento dall'altra metà del cielo: ovvero che ad eleggere il Papa nel segreto della clausura della Cappella Sistina ci fossero sessanta Eminentissime (ac Reverendissime) "cardinalesse".

Oltra al fatto che gli "Eminentissimi" che per lo passato furono "creati" cardinali pur essendo "laici" ed addirittura maritati e con prole, essi furono in gran parte nominati "Cardinali dell'ordine dei Diaconi" e che niente vieta che un uomo sposato prenda gli ordini sacri e diventi diacono. Uomini che per il metro di giudizio contemporaneo erano "laici" avevano il diritto di eleggere il Papa (e potevano addirittura essere eletti pur non essendo nemmeno preti!) grazie all'escamotage di ricevere gli "Ordini Minori": in "illo tempore" a colui che veniva conferito il compito di "ostiario", "lettore" o "accolito" era a tutti gli effetti inserito nello "status" ecclesiastico". Se poi il novello "uomo di Chiesa" scarseggiava di vocazione sacerdotale non doveva far altro che rimandare sine die il conferimento degli "Ordini Maggiori". Ma ciò era loro possibile solo perchè erano maschi e la Chiesa Cattolica il sacramento dell'Ordine lo riserva solo ai cattolici di sesso maschile!

Il Cardinalato non è una una orificenza al pari del "cavalierato" ( si può infatti essere nominato "cavaliere" pur non sapendo andare a cavallo) poichè ogni novello Cardinale viene inserito in uno dei tre ordini: "Cardinali vescovi", "cardinali preti" e "cardinali diaconi" ed a loro viene concesso il "Titolo" di una chiesa romana (e ai cardinali vescovi la titolatità di una diocesi suburbicaria).

Dall'epoca di San Gregotio Magno i "Clerici Cardinales" sono, infatti, gli ecclesiastici più improtanti della "Sancta Romana Ecclesia" cioè della Diocesi di Roma. E se è pur vero che il cardinale Poletto arcivescovo di Torino non è veramente "il prete" di San Giuseppe al Trionfale e che il cardinale Antonelli arcivescovo di Firenze non è "il prete" di Sant'Andrea delle Fratte è pur vero che essi sono per designazione papale inseriti gerarchicamente nel tessuto giuridico della diocesi di Roma di cui debbono elleggere il vescovo.
Pertanto -Diritto Canonico alla mano- con quale autorità ecclesiastica una donna, fosse pure la Vergine Maria, fin quando esisterà il collegio cardinalizio, potrebbe poter proferire verbo in Conclave?

Prima osservazione: se la metà dei cardinali fossero donna ciò vorrebbe dire che, rispetto all'oggi, i papabili di un così roseo conclave sarebbero il cinquanta per cento in meno.

Seconda osservazione: passando dal discorso intorno all'elezione del Papa a quella del "Papa nero", il padre Eberhard von Gemmingen (Societatis Jesu) si è mai chiesto il perchè Sant'Ignazio non volle assolutamente che ci fossero delle "gesuitesse"?
A rigor di logica, se io fossi al pari di padre Eberhard von Gemmingen un gesuita devoto delle "quote rosa" cercherei di progandare la rivoluzione femminista prima di tutto all'ombra della Casa Profesa.

domenica, luglio 15, 2007

Carenza di Bosforo /4



Nell'udienza di venerdì 6 luglio 2007 accordata all' Eminentissimo Saraiva Martins Cardinale Prefetto della Congregazione per le cause dei santi, il sedici volte Benedetto ha autorizzato la promulgazione dei decrei " sui miracoli di due Beati e cinque Venerabili e riconosciuto le virtù eroiche di otto Servi di Dio. Inoltre Benedetto XVI ha riconosciuto "il martirio dei Beati Antonio Primaldo e Compagni Laici; uccisi in odio alla Fede il 13 agosto 1480 ad Otranto (Italia)".

In realtà già nel 1539 l’Arcivescovo di Otranto Pietro Antonio de Capua istruì il processo per il riconoscimento del martirio degli ottocento idruntini. Il popolo ne invocava l’intercessione come patroni, particolarmente proprio durante il pericolo di altri assedi (nel 1537 e nel 1644). Il processo canonico si concluse il 14 dicembre 1771 con il decreto del Papa Clemente XIV, che li dichiarava essere Beati.
I beati Ottocento Martiri Idruntini sono Patroni dell’Arcidiocesi e compatroni della città di Otranto, e la loro memoria liturgica si celebra il 14 agosto.
Dal 1711 le loro ossa sono custodite in una cappella della cattedrale, in sette grandi armadi mentre in piccoli armadi laterali sono conservati resti di carne ancora integri, senza alcun trattamento, dopo oltre cinque secoli; sotto all’altare vi è il ceppo della decapitazione.
In quella cattedrale e in quella cappella si recò -il 5 ottobre 1980 - "presso le tombe gloriose dei martiri d’Otranto" Papa Giovanni Paolo II in ocasione del cinquecentesimo anniversario del martirio.

Verrebbe da domandarsi il perchè di questo "tardivo" riconoscimento pontificio. In realtà, essendo quella dei beati idruntini una "causa storica", prima di poter procedere ad una canonizzazione degli ottocento beati, su richiesta dell'Arcidiocesi di Otranto, è stata rifatta l'indagine canonica per stabilire se la motivazione scatenante il massacro degli idruntini nel 1480 fu l'odio alla fede cattolica. Il nuovo processo, sia in sede diocesana sia in sede romana, ha confermando in pieno le conclusioni dell'antico processo di beatificazione ed una "ricognizione canonica" effettuata tra il 2002 e il 2003 ha ribadito l'autenticità delle reliquie.



Il "beatissimo" Foglio di Giuliano Ferrara in data sabato 14 luglio 2007 propone un acconcio articolo vergato da Alfredo Mantovano di cui qui di seguito vi sono amplissimi stralci:
"ALTRO CHE LEONESSA D’ITALIA. COSI’ OTRANTO SALVO’ ROMA.
La Chiesa rende l’onore degli altari agli ottocento martiri che nel 1480 opposero resistenza alle truppe del sultano ottomano. Il suo nome era Fatih. Voleva conquistare la città dei Papi"



"[...] L’esecuzione di massa ha un prologo, il 29 luglio 1480.
Sono le prime ore del mattino: dalle mura comincia a scorgersi all’orizzonte e diventa sempre più visibile una flotta composta da 90 galee, 15 maone e 48 galeotte, con 18 mila soldati a bordo.
L’armata è guidata dal pascià Agomath; costui è agli ordini di Maometto II (1430-1481), detto Fatih, “il Conquistatore”, cioè del sultano che nel 1451, ad appena ventun anni, era salito a capo della tribù degli ottomani, a sua volta impostasi sul mosaico degli emirati islamici un secolo e mezzo prima.
Nel 1453, alla guida di un esercito di 260 mila turchi, Maometto II aveva conquistato Bisanzio, la “seconda Roma”, e da quel momento coltivava il progetto di espugnare la “prima Roma”[...] Nel giugno 1480 valuta i tempi maturi per completare l’opera: toglie l’assedio a Rodi, difesa con coraggio dai suoi cavalieri, e punta la flotta verso il mare Adriatico.
L’intenzione è di approdare a Brindisi, il cui porto è ampio e comodo: da Brindisi progettava di risalire l’Italia fino a raggiungere la sede del Papato. Un forte vento contrario costringe però le navi a toccare terra 50 miglia più a sud, e a sbarcare in una località chiamata Roca, a qualche chilometro da Otranto.
1.Otranto, 1480: assedio alla cristianità.

Otranto era – ed è – la città più orientale d’Italia. Ha un passato ricco di
storia [...] Nella sua splendida cattedrale, costruita fra il 1080 e il 1088, nel 1095 era stata impartita la benedizione ai dodicimila Crociati che, al comando del principe Boemondo I d’Altavilla (1050-1111), partivano per liberare e per proteggere il santo Sepolcro.
Di ritorno dalla Terra Santa, proprio a Otranto san Francesco d’Assisi era approdato nel 1219, accolto con grandi onori. A Otranto, l’11 settembre 1227, era morto a seguito di malaria il langravio di Turingia, sposo di santa Elisabetta di Ungheria.
* * *
Al momento dello sbarco degli ottomani la città può contare su una guarnigione di 400 uomini in armi, e per questo i capitani del presidio si affrettano achiedere aiuto al re di Napoli, Ferrante d’Aragona (1431-1494), inviandogli una missiva.
Cinto d’assedio il castello, nelle cui mura si erano rifugiati tutti gli abitanti del borgo, il pascià, attraverso un messaggero, propone una resa a condizioni vantaggiose: se non resisteranno, uomini e donne saranno lasciati liberi e non riceveranno alcun torto.
La risposta giunge da uno dei maggiorenti della città, Ladislao De Marco: se gli assedianti vogliono Otranto – fa sapere –, devono prenderla con le armi. Al nuncius è intimato di non tornare più, e quando arriva un secondo messaggero con la medesima proposta di resa, costui viene trafitto dalle frecce; per togliere ogni sospetto, i capitani prendono le chiavi delle porte della città, e in modo visibile, da una torre, le buttano in mare, alla presenza del popolo.
Durante la notte, buona parte dei soldati della guarnigione si cala con le funi dalle mura della città e scappa.
A difendere Otranto restano soltanto i suoi abitanti.
* * *
L’assedio che segue è martellante: le bombarde turche rovesciano sulla città centinaia di grosse palle di pietra (molte sono state conservate e sono ancora oggi visibili per le strade del centro storico idruntino, all’ingresso del municipio o a fianco di ristoranti e di negozi).
Dopo quindici giorni, all’alba del 12 agosto, gli ottomani concentrano il fuoco contro uno dei punti più deboli delle mura: aprono una breccia, irrompono nelle strade, massacrano chiunque capiti a tiro, raggiungono la cattedrale, nella quale in tanti si sono rifugiati. Ne abbattono la porta e dilagano nel tempio, raggiungono l’arcivescovo Stefano, lì presente con gli abiti pontificali e con il crocifisso in mano: all’intimazione di non nominare più Cristo, poiché da quel momento regnava Maometto, l’arcivescovo risponde esortando gli assalitori alla conversione, e per questo gli viene reciso il capo con una scimitarra.
Il 13 agosto Agometh chiede e ottiene la lista degli abitanti catturati, con esclusione delle donne e dei ragazzi di età inferiore ai 15 anni.
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2. L’“amore della patria terrena” degli ottocento martiri.

Così racconta il cronista (De Marco): “In numero di circa ottocento furono presentati al pascià che aveva al suo fianco un miserrimo prete, nativo di Calabria, di nome Giovanni, apostata della fede. Costui impiegò la satannica sua eloquenza a fin di persuadere a’ nostri santi che, abbandonato Cristo, abbracciassero il maomettismo, sicuri della buona grazia d’Acmet, il quale accordava loro vita, sostanze e tutti qui beni che godevano nella patria: in contrario sarebbero stati tutti trucidati. Tra quegli eroi ve n’ebbe uno di nome Antonio Primaldo, sarto di professione, d’età provetto, ma pieno di religione e di fervore. Questi a nome di tutti rispose: “Credere tutti in Gesù Cristo, figlio di Dio, ed essere pronti a morire mille volte per lui”.
Aggiunge un altro cronista (Laggetto): “E voltatosi ai cristiani disse queste parole: “Fratelli miei, sino oggi abbiamo combattuto per defensione della patria e per salvar la vita e per li signori nostri temporali, ora è tempo che combattiamo per salvar l’anime nostre per il nostro Signore, quale essendo morto per noi in croce conviene che noi moriamo per esso, stando saldi e costanti nella fede e con questa morte temporale guadagneremo la vita eterna e la gloria del martirio”.
A queste parole incominciarono a gridare tutti a una voce con molto fervore che più tosto volevano mille volte morire con qual si voglia sorta di morte che di rinnegar Cristo”.
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Agomath proclama la condanna a morte di tutti e ottocento i prigionieri.
Al mattino seguente, costoro vengono condotti con la fune al collo e le mani legate dietro la schiena al colle della Minerva, a poche centinaia di metri dalla città. Scrive, ancora, De Marco: “Ratificarono tutti la professione di fede e la generosa risposta data innanzi; onde il tiranno comandò che si venisse alla decapitazione e, prima che agli altri, fosse reciso il capo a quel vecchio Primaldo, a lui odiosissimo, perché non rifiniva di far da apostolo co’ suoi, anzi in questi momenti, prima di chinare la testa sul sasso, aggiungeva a’ commilitoni che vedeva il cielo aperto e gli angeli confortatori; che stessero saldi nella fede e mirassero il cielo già aperto a riceverli.
Piegò la fronte, gli fu spiccata la testa, ma il busto si rizzò in piedi: e ad onta degli sforzi de’ carnefici, restò immobile, finché tutti non furono decollati.
Il portento evidente ed oltremodo strepitoso sarebbe stata lezione di salute a quegl’infedeli, se non fossero stati ribelli a quel lume che illumina ognuno che vive nel mondo. Un solo carnefice, di nome Berlabei profittò avventurosamente del miracolo e, protestandosi ad alta voce cristiano, fu condannato alla pena del palo”.

Durante il processo per la beatificazione degli ottocento, nel 1539, quattro testimoni oculari riferiscono il prodigio di Antonio Primaldo, che resta in piedi dopo la decapitazione, e della conversione e del martirio del boia.
Così racconta uno dei quattro, Francesco Cerra, che nel 1539 aveva 72 anni: “Antonio Primaldo fu il primo trucidato e senza testa stette immobile, né tutti gli sforzi dei nemici lo poter gettare, finché tutti furono uccisi. Il carnefice, stupefatto per il miracolo, confessò la fede cattolica essere vera, e insisteva di farsi cristiano, e questa fu la causa, perché per comando del Bassà fu dato alla morte del palo” (Laggetto).
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500 anni dopo, il 5 ottobre 1980 Giovanni Paolo II si reca a Otranto per ricordare il sacrificio degli ottocento.[...]Sottolinea che “i Beati Martiri ci hanno lasciato – e in particolare hanno lasciato a voi – due consegne fondamentali: l’amore alla patria terrena; l’autenticità della fede cristiana. Il cristiano ama la sua patria terrena. L’amore della patria è una virtù cristiana”.
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3. Roma “salvata” da Otranto.

Il sacrificio di Otranto non è importante soltanto sul piano della fede. Le due settimane di resistenza della città consentono all’esercito del re di Napoli di organizzarsi e di avvicinarsi a quei luoghi, così impedendo ai 18 mila ottomani di dilagare per la Puglia.
I cronisti dell’epoca non esagerano nell’affermare che la salvezza dell’Italia Meridionale fu garantita da Otranto: e non solo quella, se è vero che la notizia della presa della città inizialmente aveva indotto il pontefice allora regnante, Sisto IV (1414-1484), a programmare il trasferimento ad Avignone (Pastor), nel timore che gli ottomani si avvicinassero a Roma. Il Papa recede dall’intento quando il re Ferrante incarica il figlio Alfonso, duca di Calabria, di trasferirsi in Puglia, e gli affida il compito di riconquistare Otranto: il che accade il 13 settembre 1481, dopo che Agomath era tornato in Turchia e Maometto II era morto.
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Ciò che rende questo straordinario episodio pieno di significato, anche per l’europeo di oggi, è che nella storia della cristianità non sono mai mancate testimonianze di fede e di valori civili, né sono mai mancati gruppi di uomini che hanno affrontato con coraggio prove estreme. Mai però è accaduto un episodio di proporzioni così vaste: un’intera città dapprima combatte come può, e tiene testa per più giorni all’assedio; poi risponde con fermezza alla proposta di abiura.
Sul Colle della Minerva, al di fuori del vecchio Primaldo, non emerge alcuna individualità, se è vero che degli altri martiri non si conosce il nome, a riprova del fatto che non sono pochi eroi, bensì è una popolazione intera che affronta la prova.
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Il tutto succede anche per l’indifferenza dei responsabili politici dell’Europa dell’epoca di fronte alla minaccia ottomana.
Nel 1459 il papa Pio II (1405-1464) aveva convocato a Mantova un congresso, al quale aveva invitato i capi degli stati cristiani, e nel discorso introduttivo aveva delineato le loro colpe di fronte all’avanzata turca; benché nella circostanza venga decisa la guerra per contenere quest’ultima, poi non segue nulla, a causa dell’opposizione di Venezia e della non curanza della Germania e della Francia. Dopo che i musulmani conquistano l’isola di Negroponte, appartenente a Venezia, una nuova alleanza contro gli ottomani, proposta da Papa Paolo II (1464-1471), viene fatta arenare dai milanesi e dai fiorentini, pronti ad approfittare della situazione critica nella quale si trova la Serenissima.
Il decennio successivo, con Sisto IV che diventa pontefice nel 1471, fa assistere all’omicidio di Galeazzo Sforza, duca di Milano, all’alleanza antiromana del 1474 fra Milano, Venezia e Firenze, alla Congiura dei Pazzi del 1478, e alla guerra che ne segue, fra il Papa e il re di Napoli da una parte, e dall’altra Firenze, aiutata da Milano, da Venezia e dalla Francia. “Lorenzo il Magnifico, che aveva ammonito Ferrante di non prestarsi al gioco ed alle aspirazioni degli stranieri, fu proprio lui a sollecitare Venezia perché si accordasse con i turchi e li spingesse ad assalire le sponde adriatiche del Regno di Napoli, al fine di turbare i disegni di Ferdinando e del figlio. (…) La Serenissima, firmata da poco la pace con i turchi (1479), aderì al disegno del Magnifico nella speranza di riversare sulla Puglia l’orda musulmana che da un momento all’alto poteva abbattersi sulla Dalmazia, dove sventolava il vessillo di san Marco. (…) E gli uomini di Lorenzo il Magnifico non esitarono neppure (…) a sollecitare Maometto II a invadere le terre del re di Napoli, ricordandogli i vari torti subiti da questi. Ma il sultano non aveva bisogno di questi consigli: da 21 anni attendeva il momento buono per sbarcare in Italia, e sin allora era stata proprio Venezia, la diretta avversaria sul mare, ad impedirglielo” (Pastor).
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4. La “naturalezza” del sacrificio di
Otranto.

Se la storia non è mai identica a sé stessa, tuttavia non è arbitrario cogliere dai suoi sviluppi analogie e similitudini: esattamente mille anni dopo il 480, anno della nascita di San Benedetto da Norcia, un umile monaco alla cui opera l’Europa deve tanto della sua identità, altri umili interpretano l’Europa meglio e più dei loro capi, pronti a combattersi reciprocamente piuttosto che a fronteggiare il nemico comune.
Quando gli idruntini si trovano di fronte alle scimitarre ottomane, non invocano la distrazione dei re per motivare un proprio disimpegno; forti della cultura nella quale sono cresciuti, pur se la gran parte di loro non ha mai conosciuto l’alfabeto, sono convinti che resistere e non abiurare costituisca la scelta più ovvia, quella in qualche modo naturale.[...]
Per due settimane 15 mila pacifici idruntini hanno bollito olio e acqua, finché ne hanno avuto, e li hanno rovesciati dalle mura sugli assedianti. Quando sono rimasti in vita soltanto 800 uomini adulti e sono stati catturati,[...] ottocento teste
sono state tagliate una per una, senza che all’epoca cronisti politically correct ne abbiano censurato i dettagli; se oggi conosciamo bene questa straordinaria vicenda, è perché chi l’ha descritta è stato preciso e rigoroso.
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Oggi l’Europa è attaccata non – come nell’episodio storico richiamato – da una realtà islamica istituzionalmente organizzata, bensì dall’equivalente di più organizzazioni non governative di ultrafondamentalisti islamici. Tenuta presente questa differenza strutturale, non è fuori luogo chiedersi quanto c’è oggi in occidente, in Europa, e in Italia, di quella “naturalezza” che ha portato una intera comunità “a difendere la pace della propria terra” fino al sacrificio estremo.
Il quesito non è fuori luogo, se si riflette che nella lotta al terrorismo un elemento realmente decisivo è la tenuta del corpo sociale, o comunque di gran parte di esso, di fronte alla minaccia e ai modi più efferati di concretizzazione della stessa. E’ ovvio che la memoria di Otranto non vale soltanto a sottolineare che vi sono momenti in cui resistere è un dovere, ma prima ancora a ricordare a noi stessi chi siamo e da quali comunità discendiamo.
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Vale la pena di ricordare che nel 1571, novant’anni dopo il martirio di Otranto, una flotta di stati cristiani ferma finalmente la minaccia turco-islamica nel Mediterraneo al largo di Lepanto.
Lo scenario europeo non era migliorato: la Francia faceva lega con i principati protestanti per contrapporsi agli Asburgo e si compiaceva della pressione che i turchi esercitavano contro l’Impero nel Mediterraneo; Parigi e Venezia non avevano mosso un dito per difendere i cavalieri di Malta nell’assedio condotto contro di loro da Solimano il Magnifico. Questo vuol dire che la vittori di Lepanto non è stata il frutto della convergenza di interessi politici; al contrario, il trionfo – tale è stato – si è realizzato nonostante le divergenze.

La straordinarietà di Lepanto sta nel fatto che, nonostante tutto, per una volta principi, politici e comandanti militari hanno saputo accantonare le divisioni e unirsi per difendere l’Europa. Questa unione si è certamente realizzata per l’impegno di uomini che non hanno disdegnato il nobile esercizio della leadership – come si dice oggi –, ma soprattutto perché la politica europea del XVI secolo aveva ancora un residuo di visione del mondo sostanzialmente comune, fondata sul rispetto del cristianesimo e del diritto naturale. E se oggi tante testoline allegramente agnostiche girano liberamente, senza essere costrette ad avvolgersi nei burqa, accade anche perché qualcuno a suo tempo ha speso tempo, energie, e anche la propria vita, per la buona causa, dal momento che la vittoria degli altri avrebbe fatto cadere in mani musulmane l’Italia, e forse anche la Spagna.
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5. Otranto, città martire per l’Europa.

[...] Nel dialogo fra Dio e Abramo, Dio mette a conoscenza Abramo dell’intenzione di distruggere Sodoma e Gomorra (Gen, 18, 16 ss). Abramo tenta di intercedere e gli dice: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? Forse ci sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano?”
Ricevuta l’assicurazione da Dio che, per riguardo a quei cinquanta giusti avrebbe perdonato l’intera città, Abramo va avanti, in una sorta di ardita trattativa: e se ce ne fossero 45, 40, 30, 20, o soltanto 10?
La risposta di Dio è la medesima: “Non la distruggerò per riguardo a quei dieci”.
Ma non se ne trovarono né 50, né 45, né 30, né 20, e neanche 10; e le due città furono distrutte.
Questa pagina scritturale è terribile per la sorte di annientamento che prospetta alle civiltà che rinnegano i valori scritti nella natura dell’uomo: è una pagina che è stata dolorosamente riletta tante volte, soprattutto nel XX secolo, di fronte alle rovine del nazionalsocialismo e del socialcomunismo realizzato. Ma è altrettanto confortante per chi ritiene che la centralità dell’uomo e la coerenza con i principi costituiscano non soltanto il punto di partenza, ma pure la strategia per chiunque voglia fare politica.
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Nel 1480 quel brano del Genesi trova un’applicazione particolare: l’Europa, ma in particolare la sua città più importante, Roma, vengono risparmiate dalla distruzione non “per riguardo”, bensì “per il sacrificio” di 800 sconosciuti pescatori, artigiani, pastori e agricoltori di una città periferica. Colpisce che quanto accaduto a Otranto non abbia avuto, e ancora non abbia, il riconoscimento diffuso che merita. La stessa Chiesa ha atteso cinque secoli, e un Pontefice straordinario come Karol Wojtyla, per proclamare “beati” quegli 800.

Il decreto del quale Benedetto XVI ha autorizzato la pubblicazione il 6 luglio 2007 equivale a dire che il “martirio” deve intendersi come storicamente e teologicamente accaduto.
Il 31 luglio il decreto sarà formalmente consegnato all’arcivescovo di Otranto: è la premessa per la canonizzazione, che seguirà quando sarà accertato il miracolo.
La Chiesa, anche quella idruntina, mantiene un doveroso riserbo sul punto, ma tutti sanno che l’intercessione degli 800 di miracoli ne ha già procurati tanti; manca il riconoscimento ufficiale.
I martiri di Otranto non hanno fretta: le loro ossa accolgono chi visita la cattedrale ordinate in più teche, nella cappella situata alla destra dell’altare maggiore. Ricordano che non solo la fede, ma anche la civiltà, hanno un prezzo: un prezzo non monetizzabile, paradossalmente compatibile con l’aver ricevuto la fede e la civiltà come doni inestimabili.
Quel prezzo viene chiesto a ciascuno in modo differente, ma non ammette né saldi né liquidazioni."

giovedì, luglio 12, 2007

Padre Pio in vacanza (della Sede Apostolica)

Ovvero: E' l'ora che Pio...


Il vaticanista Andrea Tornielli animato da soda devozione triveneta ha vergato e pubblicato varie monografie agiografiche tra cui nel 2001 una dedicata a Papa Pio XII "Il Papa degli Ebrei" in risposta polemica ad una laida operetta di uno pseudo-storico inglese dedicato al "papa di Hitler". Del 2007 è invece la biografia "Pio XII. Un uomo sul Trono di Pietro" nella quale Tornielli ha potuto attingere ampiamente ai carteggi della famiglia Pacelli fino a quel punto inediti.

Da un articolo pubblicato sul Giornale di giovedì 12 luglio 2007 s'evidenzia che la passione di Tornielli per le segrete carte riguardanti il "Pastor Angelicus" non s'è quietata dopo la stesura delle biografie pacelliana poichè Tornielli vi proclama "urbi et orbi" l'esistenza di una lettera in cui si dà notizia che san Pio da Pietralcina poche ore dopo il decesso del pontefice "vide" Papa Pacelli nella gloria del Paradiso!

In verità non è il primo caso di rivelazioni di tal fatta: l'agiografia cattolica trabocca di episodi in cui si racconta che il tal santo o la tal santa ebbero per divina disposizione- la chiara percezione della sorte ultaterrena di questa o di quell'altra persona. Evidentemente la pia cuorità si sofferma sulla sorte eterna di personaggi famosi tra cui non poco interesse godono le sorti ultraterrene dei Sommi Pontefici.

La Chiesa nella sua azione pastorale ha nel passato assai utilizzati tali mistici e mortuali exempla per inculcare nel popolo cristiano la dottrina dei Novissimi e per educare i fedeli alle pie pratiche di suffragio delle anime del Purgatorio.
In questa particolare specie di "fioretti" abbiamo quindi due tipologie: la prima è quella di mistici che "in visione" hanno visto l'anima del defunto circonfuso dalla gloria divina (come ad esempio santa Maria Maddalena de'Pazzi che "vide" San Luigi Gonzaga varcare la soglia del Paradiso subito dopo la morte). La seconda, che è anche la tipologia più nutrita, è quella in cui abbondano le apparizioni di anime purganti che si rivolgono direttamente al "veggente" per chiedere suffragi e in special modo celebrazioni di sante messe per essere al più presto liberato dalle pene del Purgatorio (come ad esempio Benito Mussolini che apparve tra le fiamme alla serva di Dio Edvige Carboni chiedendo -con tono irruentemente perentorio- suffragi per la propria anima).

Per quanto poi attiene alla sorte ultraterrena dei Romani Pontefici l'agiografia è assai nutrita (ad esempio: Papa Braschi e papa Wojtyla); Innocenzo III sarebbe apparso a Santa Ludgarda rivelando di essere stato condannato a penare in Purgatorio fino al Giudizio universale.

Anche sulla collocazione ultraterrena di Eugenio Pacelli sin da quell'ottobre 1958 in cui spirò non sono mancate "voci" di private rivelazioni sulla di lui sorte beata ma ciò di cui riferisce Andrea Tornielli acquista una rilevanza particolare poichè si tratta della parola di un Santo canonizzato dall Chiesa Cattolica!
E seppure è vero che la Madre Chiesa non obbliga nessun fedele a credere alle rivelazioni private fossero anche quelle proferite da santi canonizzati e che le "rivelazioni private" debbono essere oggetto di sola "fede umana" e non appartengono pertanto al "depositum fidei". Sarebbe però ben arduo sostenere che una tale "rivelazione" fatta da Padre Pio dovrebbe essere presa colle molle più di altre sue esperienze mistiche per il solo fatto che oggetto della sua "divinazione" sia un Pontefice che -col senno di poi- è considerato poco affine a ciò che viene reputato essere lo "spirito conciliare" (anche Padre Pio era per nulla "ecumenico").

Il 9 novembre 1958, quindi, ovvero nel trigesimo della morte di Pio XII, suor Pascalina Lehnert, la suora bavarese che dall'epoca della sua nunziatura a Monaco di Baviera si prese cura della persona del futuro papa Pacelli, scrisse una lettera indirizzata a San Pio da Pietralcina in cui raccontò all'umile frate della mortale l'agonia del pontefice con la segreta speranza di ottenere dallo stimmatizzato cappuccino una autorevole conferma della fama di santità di cui -già in vita- godeva Pio XII.
La lettera fu scritta in tedesco e allo "Stimmatizzato del Gargano" fu letta e tradotta da padre Domenico da Milwaukee, un cappuccino americano che comprendeva anche il tedesco che era stato dai superiori inviato a San Giovanni Rotondo per aiutare Padre Pio nel disbrigo della corrispondenza proveniente dai cinque continenti.


"...Non possediamo la lettera di suor Pascalina. Ma il tono e le richieste si evincono benissimo dalla risposta che padre Domenico fornisce a nome di Padre Pio qualche giorno dopo, nel testo dattiloscritto con firma originale in calce. Il frate ringrazia la religiosa per aver raccontato le circostanze della morte di Papa Pacelli.

Padre Domenico informa suor Pascalina con queste parole: «Ieri sera, verso le ore 18.45, sono andato nella sua stanza. Non conosco il motivo, ma mi riceve sempre con una particolare amabilità… Poi gli ho detto tutto ciò che lei mi aveva comunicato: la pia morte del Santo padre, il Magnificat (la preghiera di lode a Dio che le suore e i collaboratori di Pacelli recitarono subito dopo la morte del pontefice, ndr), ecc. - e anche la convinzione sua e di altri che egli ora stia contemplando Dio. Padre Pio ha ascoltato tutto con grande stupore».

Poi padre Domenico racconta in quale modo ha posto la delicata domanda che stava a cuore alla religiosa bavarese e cioè quale fosse stato il destino del Pontefice subito dopo il trapasso. «Poi la sua domanda: “Cosa direbbe Padre Pio?”. Ho posto la domanda in questo modo: “Madre Pascalina domanda: che pensa Padre Pio?”. Con un volto quasi trasfigurato egli ha risposto: “È in Paradiso. Lo ho visto nella Santa messa”.
Non mi sono fidato dei miei orecchi e ho chiesto: “Lo ha visto in Paradiso?”. “Sì”, mi ha risposto con un sorriso quasi celeste».

«Cara Madre Pascalina - conclude la lettera - siamo tutti convinti che il Santo padre è un santo. Queste parole di Padre Pio, comunque, sono una conferma gioiosa e piena di consolazione. Come sono lieto di poterle comunicare tutto questo… Ancora una cosa vorrei menzionare: il giorno della morte (di Pio XII, ndr), Padre Pio ha sentito la notizia appena prima della sua Santa Messa. Poiché ogni padre celebra una Santa messa per un Papa defunto, ha potuto subito dire la messa per lui. Forse già lì ha visto il Santo padre nella sua gloria. Durante tutta la messa Padre Pio ha pianto».

Il legame fra il frate stimmatizzato e il pontefice non si era limitato dunque alla vita ma era in qualche modo andato oltre. Questa testimonianza, rimasta per quasi cinquant’anni in un cassetto, è importante, perché rappresenta la «visione» di un santo..."

sabato, luglio 07, 2007

Gaudet Mater Ecclesia! [2]

[dal "Diario del Concilio" di monsignor Neophytos Edelby (1920-1995) vescovo cattolico arabo di rito bizantino]

Lunedì 12 novembre 1962. - Oggi, a San Pietro, 17a congregazione generale del Concilio.
Gradevole sospresa: la messa è celebrata in rito romano, ma in lingua paleoslava (glagolitica) secondo l'uso secolare ancora mantenuto in sette diocesi di Croazia (in Jugoslavia). I canti erano eseguiti dal collegio russo di Roma. Questo ha fatto un'impressione enorme nei padri del Concilio. Perché è un mese che i fanatici del latino-lingua liturigica si sforzano di dimostrare ai padri del Concilio che se si adottassero nel rito romano le lingue vive, l'unità della Chiesa cattolica pericliterebbe, i dogmi sarebbero in pericolo, ecc....

"Peraltro - mi confida il mio vicino mons. Ursi, arcivescovo italiano - la Chiesa romana stessa, attraverso uno dei suoi prelati jugoslavi, ha appena dimostrato il contrario. Ecco, mi dice, una messa di rito romano al cento per cento celebrata al cento per cento in una lingua altra dal latino, a conoscenza della Santa Sede che stampa a sue spese il messale paeloslavo. Ma l'unità della Chiesa non è stata spezzata; i dogmi non hanno corso alcun pericolo; l'ostia è stata consacrata, e i canti sono molto belli.
Quello che si è appena fatto davanti a noi in paleoslavo, perché non lo si potrebbe fare in italiano, affinchè il povero popolo vi capisca qualcosa?
La gente deve farsi beffe di noi, quando ci sente discutere molto seriamente per sapere se si autorizzerà la lettura dell'epistola o del Vangelo in un'altra lingua dal latino".

Il mio vicino è sovraccitato. E' uno dei rari vescovi tra gli italiani e gli americani a essere a favore dell'adozione delle lingue vive nella liturgia.

Io gli spiego: "Voi sapete inoltre, monsignore, che i fratelli Cirillo e Metodio, che hanno adottato per i moravi il rito romano ma in lingua viva, sono stati inviati in missione da Fozio. Colui che voi considerate come il padre dello scisma bizantino è così il grande apostolo degli slavi. Fu anche un grande teologo, un uomo di Dio, pio e disinteressato. D'altronde è morto in unione con Roma...".

Il mio vicino non si capacitava. Alza le braccia al cielo e mi dice: "Occorreva dunque che un uomo pio di questo genere fosse coinvolto in uno scisma che ancora divide la Chiesa. Oh! I disegni della Provvidenza!", conclude.

domenica, luglio 01, 2007

Tristitia Christi /2


Sive:"Oremus et pro cardinale Lehmann"

Sua Eminenza Reverendissima il Signor Cardinale Karl Lehmann, Arcivescovo di Mainz(Magonza) e presidente -ad libitum- della conferenza episcopale tedesca si è reso autore di una clamorosa figuraccia "coram Santissimo"!

Il sedici volte Benedetto, infatti, con un eroico esercizio della virtù della pazienza; che lo rassomiglia a quel Cristo -di cui è Vicario in Terra- che sopportò mitemente le molestie verbali dei membri del Sinedrio; dopo mesi in cui mille obbiezioni gli sono state rivolte da molti membri del Sacro Collegio ha finalmente ravvisato che fosse arrivato il tempo favorevole acchè fosse pubblicato il "Motu Proprio" che liberalizzi la possibilità per i fedeli cattolici che lo desiderino -cioè senza più il bisogno dell'autorizzazione del vescovo diocesano- di poter celebrare pacificamente la messa secondo il rito romano detto "di San Pio V" secondo l'ultima versione del messale tridentino (cioè precedente alla riforma liturgica approvata da Paolo VI) pubblicato nel 1962 da papa Giovanni XXIII.

Tra le molte difficoltà espresse da tanti Eminentissimi -ac Reverendissi- padri porporati ha brillato quella appunto del cardinal Lehmann, che di fronte al "ritorno" della messa in latino s'era fatto voce presso la Santa Sede del vivo disagio delle comunità ebraiche per il ritorno a quella messa pre-conciliare (cioè prima di quel Concilio Vaticano II che ha assolto gli ebrei dall'accusa di deicidio), quella messa elaborata da quella controriforma che contemporaneamente rinchiudeva gli ebrei nel ghetto, messa in cui nelle preghiere del Venerdì Santo si trovava la celeberrima espressione: «perfidis judaeis».

Se certamente non possiamo pretendere dagli ambienti ebraici una approfondita conoscenza della storia antica e recente della liturgia cattolica, certamente stupisce che l'arcivescovo di Magonza prima di farsi pubblicamente portavoce del "grido di dolore" dell'ebraismo ignorasse completamente, e perciò non sia stato capace di rispondere ai suoi fratelli maggiori, che già nel 1959 nella sua prima Settimana Santa come pontefice papa Giovanni XXIII aveva dato ordine che si mutasse l'espressione: "Oremus et pro perfidis Judaeis" in "Oremus et pro Iudaeis"; la riforma venne quindi recepita nella nuova edizione del messale tridentino di tre anni dopo.
Essendo stato ordinato prete il 10 Ottobre del 1963 c'era da ritenere che Karl Lehmann non conoscesse il messale di San Pio V solo per averne letto sui libri di scuola ma che, novello sacerdote, avesse celebrato molte messe in latino!