martedì, dicembre 29, 2009

Carenza di Bosforo / 6

Ovvero: "Il basileus che siede a Costantinopoli vince sempre."
_____ Cecaumeno, Strategikon (XI secolo d.C.)


L’archimandrita Tichon Sevkunov del monastero moscovita della Presentazione al Tempio, è il padre spirituale di Vladimir Putin.
Racconta l'archimandrita: "è venuto da noi in Chiesa, poiché il nostro monastero è situato non lontano dal suo precedente posto di lavoro". Il monastero della Presentazione è, infatti, vicino al palazzo della Lubjanka, sede del Kgb.

L'archimandrita Tichon salì all'onore delle cronache quando nell'anno Domini 2000 si mise alla testa di una campagna contro l'introduzione del codice fiscale considerato come l'apocalittico marchio dell'Anticristo. Ci fu bisogno di un solenne intervento del Santo Sinodo del Patriarcato di Mosca che negò ogni legame tra i codici a barre e il numero della bestia dell'Apocalisse.
Nell'aprile 2002, in un periodo di forti tensioni tra il Vaticano e il Patriarcato Moscovita, la rivista 30 Giorni dava conto di un'intervista al quotidiano Izvestija in cui l'archimadrita Tichon definiva Putin: "un cristiano ortodosso vero, e non solo per modo di dire. Un uomo che si confessa, fa la comunione ed è consapevole della responsabilità che ha dinanzi a Dio per l’alto compito affidatogli e per la salvezza della sua anima". E accompagnando l'ascesa dell'anima di Putin, Tichon Sevkunov è divenuto il punto di riferimento dei "teo-con" russi.
Per lo slavista Adriano Dell'Asta si tratta niet'altro che dei vecchi ideologhi sovietici riciclati: "I neoconservatori rivendicano una parentela con Solzenicyn, ma le loro posizioni sono agli antipodi. Questi autori parlano di espansione della Russia, invece la prospettiva che Solzenicyn indicava al potere era di rinunciare al perseguimento della via imperiale e di rivolgersi a uno sviluppo interno politico e umano, vero ambito della grandezza russa."

Or dunque: telegenico, sorridente, con lunghi capelli chiari raccolti in un codino, e con tanto di diploma in cinematografia, l'archimandrita Tichon in un cortometraggio realizzato nel 2008 con la benedizione del Cremlino, espone e pubblicizza l'ideologia "teo-con" imperialista russa di stampo putiniana. E del resto, l'imperialismo russo -anche quello sovietico- ebbe sempre come proprio ideale l'impero ortodosso di Costantinopoli: si deve a Stalin il potenziamento gli studi bizantini nelle università sovietiche.
Nel proprio saggio "Lo Stato Bizantino" la bizantinologa Silvia Ronkey osservava che non è un caso che la bizantinistica russa sia la più suggestiva del Novecento: "Il sospetto che l'analisi del passato bizantino sia debitrice di un'osservazione del presente sovietico riaffiora continuamente negli studi della generazione che fu annunciata da Levcenko. Il che non ne compromette la validità e lucidità. Anzi, l'attualizzazione dei problemi, la loro proiezione nel presente, ha fatto sì che gli studiosi dell'ex Urss abbiano nutrito verso Bisanzio un interesse meno casuale e meno marginale di altre culture europee."


Propongo di seguito ampli stralci del commento che (la Stampa 25 Marzo 2008), con la perfidia degna di una basilissa, Silvia Ronchei fa delle tesi dell'archimandrita:

« “La distruzione dell’impero: una lezione bizantina” è il titolo del cortometraggio di 45 minuti in cui Sevkunov passa dalle cupole innevate di Mosca a quelle di Santa Sofia a Istanbul e di San Marco a Venezia. Qui, davanti al celebre tesoro che include il bottino della conquista crociata di Costantinopoli nel 1204, il regista-narratore lancia l’accusa centrale: fin dal protocapitalismo delle repubbliche mercantili il rapace Occidente ha dissanguato il millenario impero bizantino, custode dei valori dell’ortodossia e della tradizione antica. Ha arraffato e predato quel che poteva — “Guardate, guardate, qui tutto è bizantino”, mostra Tichon alla cinepresa — per abbandonare poi Costantinopoli all’orda islamica del 1453.

L’equazione è chiara. Lo stesso accade oggi alla Terza Roma, Mosca, erede dell’autocrazia bizantina fin da quando il matrimonio del Gran Principe Ivan III con l’ultima erede dei Paleologhi trasmise al nascente impero russo il DNA di Bisanzio. Ma è altrettanto “genetico”, secondo il film, l’odio antibizantino degli occidentali. Se il primo errore di Bisanzio era stato fidarsi dell’Occidente [...] lo stesso può accadere alla Russia di oggi, insidiata dallo “spirito giudaico dell’usura” che anima il demone del capitalismo americano.

Bisanzio è caduta perché si è lasciata contagiare dalla modernizzazione importata dai mercanti genovesi e veneziani, infiltrare dal “satanico spirito del commercio” e del profitto. Oggi rischia lo stesso la Russia, minacciata dagli imprenditori americani e tradita dagli avidi oligarchi loro alleati.

“Lotta contro gli oligarchi” è chiamata senza mezzi termini la campagna vittoriosa di Basilio II contro i “ricchi e potenti” dell’impero. [...] Perché i veri traditori dell’impero, quelli che lo consegnarono all’Occidente, si annidavano all’interno della classe dominante, esattamente come oggi in Russia. Solo dimostrando che neppure la ricchezza può proteggerli dalla prigione gli oligarchi possono essere domati e trasformati in apparatciki, come nell’XI secolo i “ricchi e potenti” dell’impero erano stati costretti nei ranghi della burocrazia di corte al servizio dell’autocrator.
[...]
Così, mentre Solgenitsin è ormai uno sbiadito revenant che nessuno ascolta, è il fantasma di Stalin nell’immaginario dell’intelligencija, e nei talk show televisivi una vecchia leva di bizantinisti direttamente passati dalla fede nel partito a quella nella chiesa proclama apertamente: “L’Occidente è sempre stato contro Bisanzio così come è oggi contro la Russia”. E mentre nelle librerie di Mosca e Pietroburgo i libri di storia bizantina vanno a ruba, l’antico antioccidentalismo dei grandi reazionari contagia in versione mediatica le masse.»

lunedì, dicembre 28, 2009

DEVOTIO MODERNA [15]

Ovvero: "A meno che si possa fare il viaggio in modo più sicuro e con minor rischio su più solida nave, ossia affidandosi ad una divina rivelazione" (PLATONE)

"La prima "crociera cattolica", con la presenza di alcuni vescovi e di un noto sacerdote cantante è stata lanciata in questi giorni in Brasile.
«Non si tratta di una semplice crociera a tema, ma è un vero e proprio pellegrinaggio - spiega Otacilio de Melo, l’imprenditore che ha lanciato l’idea - Il progetto, concepito per non banalizzare la fede, è stato valutato e approvato dai vertici della Chiesa in Brasile».

La 'Crociera Cattolica - Navigando con Nostra Signora' si svolgerà nel febbraio del 2010, e percorrerà la costa brasiliana dal porto di Santos fino alla località balneare di Buzios, con sosta a Rio de Janeiro. Ognuno dei 1.800 «turisti della fede» pagherà 2.040 real (815 euro) per due settimane a bordo del transatlantico di lusso Grand Celebration. Ci saranno sessioni di preghiera condotte dalla nota attrice di telenovelas Myrian Rios, e serate allietate dal sacerdote cantante Fabio de Melo, uno dei fenomeni della musica cattolica in Brasile, con oltre dieci milioni di copie di CD vendute negli scorsi anni.
Secondo il maggior quotidiano brasiliano,la Folha de S.Paulo, che ha dato la notizia, per la crocierà è già confermata la presenza di una decina di vescovi, mentre il nunzio apostolico a Brasilia, Lorenzo Baldisseri, non ha ancora risposto all’invito."

["In crociera per fede" del vaticanista "Giacomo Galeazzi]

Carenza di Bosforo / 5

Dall'alto delle colonne della Stampa di domenica 27 dicembre 2009, con la perfidia degna di una basilissa, la bizantinologa Silvia Ronchey recensisce il saggio del politologo statunitense esperto di strategie militare Edward Luttwak, definendo benevolmente il tomo, tradotto e pubblicato dalle edizioni Rizzoli: "un esercizio di erudizione di più di 500 pagine, in cui prenda a parlare non più dell’impero romano, su cui a suo tempo ha scritto un libro molto discusso, ma di un impero studiato da pochi e conosciuto da ancora meno: l’impero bizantino."

"La grande strategia dell’impero bizantino" è stato un ingegnoso esercizio di attualizzazione della politica bizantina attraverso attraverso cui Luttwak paradgmaticamente interpreta l'insuccesso statunitense nell'esportazione armata della democrazia occidentale nei paesi islamici: "così da spiegare da un lato il fallimento della recente strategia di quest’ultima e predire dall’altro la sua continuazione quale massimo impero mondiale. Ecco che Bisanzio diventa la ricetta per il futuro dell’America[...]".

Per la "basilissa" Ronkey: "L’idea di Luttwak di studiare la strategia di Bisanzio è geniale oltre che attuale, poiché il fantasma di quel millenario impero multietnico aleggia sulle aree geopolitiche interessate dai conflitti del XXI secolo, e non solo su quelli scatenati dalle dottrine strategiche dell’amministrazione Bush — Iraq, Afghanistan, Pakistan — ma di fatto su tutte le zone nella cui odierna proliferazione bellica la strategia militare americana (e non solo) è intervenuta dopo la fine della Guerra Fredda: dai Balcani al Medio Oriente, dalla Mesopotamia al Caucaso.
Per questo, e per molte altre ragioni, le riflessioni di Luttwak sarebbero più che legittime. Se non partissero, tuttavia, da premesse sbagliate.
"Se fa come Bisanzio, l’impero americano durerà ancora a lungo”.
Ma l’America non è mai stata un impero.
Del particolare e peraltro desueto sistema di governo del territorio basato sulla dialettica fra centro e periferie anche remote, dunque sulla reciproca interazione di culture, geografie, etnie, linguaggi, élites, l’America non ha la storia, le tradizioni, l’apertura, che sono state invece proprie di poteri oggi in declino e in passato più o meno funzionali, ma certamente imperiali, come la Gran Bretagna o la Francia, la Turchia o la Russia. Ancora meno ha quelle di Bisanzio.

Conferire all’America status di impero significa da un lato alimentare un equivoco storico e dilatare un paragone incongruo fino al paradosso, dall’altro implicitamente giustificare ex post proprio quel ruolo di invadente gendarme internazionale che è stato causa dei fallimenti e dell’impopolarità dell’amministrazione Bush nel mondo e presso i suoi stessi cittadini.
Oltre all’equivoco di fondo, vari equivoci più circostanziati contribuiscono alla deformazione generale di un quadro che per altri versi Luttwak ha còlto (l’uso delle armi per contenere o punire piuttosto che per attaccare con spiegamento di forze; l’alleggerimento del potenziale militare e l’uso della diplomazia o della “dissuasione armata”; le varie forme di incentivo date agli stati satelliti sotto forma di sussidi, doni, onori, e così via). Ma, ad esempio, affermare che il punto di forza dei governanti bizantini sia stata “la fiducia indiscussa di essere gli unici difensori dell’unica vera fede”, presentare i rapporti con il nascente mondo arabo in termini di accesa contrapposizione religiosa, parlare addirittura, a proposito del califfato, di “offensiva jihadista”, spingersi a considerare “guerre sante” le iniziative militari bizantine — tutti questi sforzi di attualizzazione sono arbitrari e dunque insidiosi.
Non può essere certo paragonato all’islamismo odierno il tollerante e multireligioso mondo arabo ommayyade e abbaside preso in considerazione da Luttwak.

E, anzi, proprio nella periodizzazione si registra il maggior limite del libro, che lo colloca, come quello sull’impero romano, nel peraltro interessante genere dell’esercitazione storiografica praticata dal personale politico di ogni epoca. Nel definire quello che chiama il “codice operativo” della strategia di Bisanzio, Luttwak si basa su una “continuità” effettiva, che tuttavia attinge ai vari periodi in modo incostante. Se avesse approfondito di più l’età macedone, e quella comnena e paleologa, si sarebbe dovuto misurare con paradossi strategici ancora più significativi per il presente: ad esempio, l’ambiguo rapporto tra la potenza marittima bizantina e le repubbliche mercantili, la compenetrazione con i turchi osmani e così via. Come scrive nel suo Strategikon un bizantino dell’XI secolo, Cecaumeno: “Se prendi un libro, leggi tutte le pagine e non limitarti a estrarre solo le cose che ti piacciono di più”.

venerdì, dicembre 25, 2009

martedì, dicembre 22, 2009

Gran Rabbi nato /11

Sive: Ecclesia Dei afflicta

Il film sulla leggenda nera di Pio XII continuerà ad andare in onda perché frutto di un’antica partita interna al mondo cattolico. Lo ha spiegato il rabbino americano David G. Dalin
in appendice al volume di Burkhart Schneider, “Pio XII”.
“Quasi nessuno degli ultimi libri su Pio XII e sull’Olocausto” spiega “parla di Pio XII e dell’Olocausto.
Il vero tema di questi libri risulta essere una discussione interna al cattolicesimo circa il senso della chiesa oggi, dove l’Olocausto diviene semplicemente il bastone più grosso
di cui i cattolici progressisti possono disporre come arma contro i tradizionalisti”.

[Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro: "Gli attacchi a Pio XII nascono nella Chiesa"; Il Foglio, martedì 22 dicembre 2009]

lunedì, dicembre 21, 2009

La Ceremonia del Besamanos [4]

O sea: Entre todas las mujeres













Munificentissimus Deus [4]


Lo Stato della Città del Vaticano, nato con i Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929, ha rivendicato il diritto di battere moneta: privilegio che il Diritto intenazionale attribuisce ad ogni legittima autorità statuale. Con la convenzione monetaria siglata nel 1930, il Regno d'Italia concedeva al novello Stato Vaticano di batte moneta ma soltanto metallica. E nasceva, così, la Lira vaticana: coniata nella Zecca italiana, avente il medesimo valore nominale e lo stesso taglio delle monete circolanti nello Stato italiano.
Nel 1998, la Commissione Europea , in vista dell'entrata in vigore della moneta unica europea, dava mandato allo Stato italiano di ratificare una nuova convenzione monetaria poiché "è opportuno convenire che la Città del Vaticano utilizzi l'euro come sua moneta ufficiale e dia corso legale alle banconote e alle monete in euro emesse dal Sistema europeo di banche centrali e dagli Stati membri che adottano l'euro".

La Convenzione Monetaria tra la Santa Sede e la Repubblica Italiano, per conto della Comunità Europea, venne siglata il 29 dicembre dell'anno 2000. Nulla cambiava, tranne il bacino (continentale e non più nazionale) di circolazione della moneta vaticana. Gli Euro del Vaticano pertanto continuano ad esser coniati dalla Zecca di Roma, al pari degli Euro Italiani; il valore complessivo delle emissioni monetarie vaticane venne fissato ad un milione e 74 mila euro annui, circa la stessa cifra che precedentemente veniva coniata in lire
Le monete in Euro del Vaticano come quelle di tutti i paesi membri della Comunità europea, e di San Marino e del Principato di Monaco, vengono coniate in 8 pezzi (2 Euro, 1 Euro, 50, 20, 10, 5, 2 e 1 Eurocent) che adottano sul verso l'immagine utilizzato in tutta l'Unione Europea mentre il "recto" (che è quello che cambia da Stato a Stato) riporta, al pari di tutti gli Stati monarchici dell'Unione europea, l'effigie del capo di Stato ovvero del Pontefice regnante.

La prima serie di euro vaticani venne coniata nel 2002, e si trasformò immediatamente in un souvenir di lusso. Infatti, non solo la serie "fior di conio" ma tutto l'intero conio è divenuto oggetto delle brame dei patiti della numismatica. De facto è divenuto impossibile che l'Euro vaticano abbia una reale circolazione monetaria e tanto più che venga scambiato al valore nominale: una intera serie di monete coniate sotto il regno di Giovanni Paolo II può avere un valore che supera i mille euro! Lo stesso Pier Paolo Francini capo dell'ufficio filatelico e numismatico dello Stato della Città del Vaticano , intervistato dall'Osservatore Romano nell'agosto 2008, ammetteva con imbarazzo che gli euro vaticani coniati nel 2002 "hanno raggiunto quotazioni inopportune e improprie".

Ancor più "inopportune" le quotazioni della intera serie coniata nell'aprile 2005 durante la Sede Vacante con sul "recto" le insegne della Camera Apostolica e lo stemma del cardinale Camerlengo. Ad aumentare esponenzialmente la brama dei collezionisti è la peculiarità dell'emissione della Sede vacante del 2005 è che, unico caso nella pur breve storia dell'euro, l'anno non è espresso con le cifre arabe ma in numeri romani.
E poiché come attesta la scrittura "lo zelo per la tua casa mi divora" molti eurodeputati si sono fatti un punto d'onore di mettere fine a questa anomalia del sistema monetario europeo, trascinando la questione sul tavolo della Consiglio d'Europa.
I rappesentanti della Santa Sede hanno replicato che per lo Stato del Vaticano il conio durante la vacanza della Sede Apostolica è ritenuta necessario per rimarcare la continuità dell'esercizio dell'autorità statale e, di tale continuità dell'autorità il battere moneta è la manifestazione più rilevante. Ma il responso dei ministri delle Finanze dell'Unione in seduta comune è stato avverso. Le norme previste per il conio delle monete prescrive espressamente che il lato "nazionale" degli euro possa cambiare solo quando cambino i capi di Stato rappresentati sulla moneta: una temporanea vacanza o l'occupazione provvisoria della funzione di capo di Stato non può dare il diritto a cambiare il lato nazionale delle normali monete che vengono coniate per la libera circolazione.

I negoziati tra Vaticano e Commissione europea hanno portato ad un compromesso firmato l'11 febbraio 2009, nel fatidico anniversario dell'ottantesimo anniversario della fondazione della Città del Vaticano: gli Stati monarchici europei sono autorizzato a modificare l'effigie del capo di Stato ogni quindici anni per tener conto del cambiamento del suo aspetto; se un capo di Stato viene effigiato sulla moneta, nel momento in cui ci fosse un vuoto di potere o l'occupazione ad interim della funzione di capo di Stato - nel caso specifico: la Sede Vacante- ciò non dà diritto a modificare la faccia dei pezzi ma può coniare un solo pezzo commemorativo, e non un'intera serie. Quindi la Città del Vaticano potrà continuare a coniare la moneta "commemorativa" della Sede Vacante con tanto di insegne araldiche del Camerlengo, purché su di un solo pezzo e non su tutti ed otto monete.

Il Consiglio dell'Unione Europea in data 26 novembre 2009 decretava che l'Italia rinegoziasse gli accordi monetari con lo Stato della Città del Vaticano e che tale negoziazione avvenisse quanto prima nell'incombenza dell'entrata in vigore il primo gennaio 2010 delle nuove e generali disposizioni in materia di scambi monetari approvata dall'Unione europea. Pertanto, giovedì 17 dicembre 2009 a Bruxelles è stata siglata la nuova Convenzione monetaria tra lo Stato della Città del Vaticano e l’Unione Europea. A nome della Santa Sede, ha firmato monsignor André Dupuy, Nunzio apostolico presso l’UE, mentre per conto dell'Unione Europea non ha firmato un rappresentante del Governo italiano bensì lo spagnolo Joaquín Almunia, Commissario europeo per gli Affari Economici e Monetari.

Le disposizioni della nuova Convenzione monetaria (fonte Zenit, ndr) entreranno in vigore a partire dal primo gennaio 2010.
La Convenzione eleva a 2.300.000 euro fissi, più una quota supplementare variabile, il valore nominale della massa monetaria che può essere battuta dal Vaticano. Inoltre, d’ora in poi, almeno il 51% della moneta vaticana dovrà essere obbligatoriamente immessa in circolazione.
"Con la firma della Convenzione, il Vaticano recepisce tutte le normative comunitarie contro il riciclaggio di denaro, la frode e la falsificazione delle banconote."
"La Convenzione prevede infine l’istituzione di un Comitato misto che si riunirà annualmente per verificare l’applicazione della stessa Convenzione monetaria."

domenica, dicembre 20, 2009

Ecclesia Dei afflicta, V

Sive: Pascendi Dominici graegis


Sapido saggio di ecclesiologia offerto dal cardinale Godfried Danneels, l'Eminentissimo Primate del Belgio sul viale del tramonto, estratto dall'intervista rilasciata a Gianni Valente per il numero di Ottobre/novembre 2009 della benemerita rivista "30 Giorni":


Lei proprio quest’anno ha avuto modo di celebrare i 450 anni dalla fondazione della sua diocesi. Così la sua vicenda personale di arcivescovo ha avuto modo di incrociare i tempi lunghi della vita della Chiesa. Nei suoi discorsi, all’inizio delle celebrazioni giubilari, ha anche valorizzato la scelta del Concilio di Trento di istituire diocesi più piccole.
DANNEELS: Dal Concilio di Trento in poi c’è stata la scelta di diminuire l’estensione delle diocesi e fare diocesi più piccole, per favorire la prossimità. La mia arcidiocesi ancora adesso è abbastanza grande, ma prima lo era ancora di più: anche Anversa faceva parte di Malines-Bruxelles. Mi sembra importante, soprattutto adesso, nelle circostanze attuali, in cui la Tradizione sembra dissiparsi. Il pastore deve conoscere un po’ il suo gregge.

Lei, di questa prossimità, quale esperienza ha avuto? DANNEELS: I momenti più importanti sono sempre stati quelli vissuti andando il sabato sera e la domenica mattina in parrocchia, dove la gente va alla messa, per celebrare la liturgia eucaristica con loro, impartire le cresime, e poi rimanere lì a parlare per un’oretta. L’ho fatto per trent’anni. Per me è stata la cosa più confortante. Così ho sperimentato la comunione del vescovo con la sua Chiesa. Si prega insieme, c’è la liturgia, l’omelia, si celebrano i sacramenti. In questa realtà ordinaria della vita delle parrocchie, dove la Chiesa si raggiunge facilmente, fa parte del vicinato, e non bisogna fare percorsi complicati per raggiungerla e prender parte alla vita di fede. Dove magari vai e non trovi “truppe scelte”, persone dotte e sottili ragionatori, ma solo anziani, donne e bambini, qualche poveretto. Come accadeva già a san Paolo, che scrive ai cristiani di Corinto: tra di voi non ci sono molti sapienti secondo la carne, molti potenti, molti nobili. Ma è stato Dio stesso a scegliere i piccoli e i poveri, perché «nessun uomo possa gloriarsi» davanti a Lui. Per questo è il popolo che col suo sensus fidelium porta la Chiesa, e non il clero.


Questa prossimità ordinaria, questa raggiungibilità della Chiesa, tanti la sperimentano quando vanno a chiedere il battesimo per i propri figli piccoli. Lei, di recente, ha spiegato che in questa pratica non è in gioco solo il rispetto delle consuetudini.
DANNEELS: Quando Tertulliano ha detto a un certo punto della sua vita che non si sarebbero più battezzati i bambini, che chi voleva il battesimo doveva aspettare di diventare adulto, Roma ha risposto: no, perché è stato Gesù stesso a dire agli apostoli: «Lasciate che i piccoli vengano a me». L’argomento fondamentale a favore del battesimo dei bambini è che lo chiede Gesù stesso. Mi pare importantissimo. La presenza dei bambini battezzati nella Chiesa è una ricchezza che non possiamo mai dimenticare. È una grazia e un privilegio immenso, quello di vivere già dalla prima infanzia in un’atmosfera di preghiera, ma anche di culto, partecipando alla messa. [...]
DANNEELS:Il battesimo dei piccoli mostra fino a che punto la Chiesa crede che il venire alla fede è l’opera di Cristo in noi. E nello stesso tempo manifesta che la Chiesa è il luogo dove i piccoli e i poveri hanno il primo posto. La Chiesa non è un’assemblea di perfetti, tutti consapevoli e autonomi. Non è una riserva d’élite. Spesso noi crediamo che l’opera di Dio in noi si misuri in base al grado di consapevolezza che ne abbiamo: quanto più noi saremo consapevoli, tanto più la grazia potrà impregnarci. Ma non è così che funziona. Il lavoro della grazia non si manifesta in una presa di coscienza psicologica. La grazia precede la coscienza, e non ne è condizionata. Dio ama la sua creatura così com’è, cosciente o meno. Lui sa come lavorare le anime, anche quelle di chi non ne è consapevole. Quella del bebè come quella del moribondo o del malato terminale che ha perso coscienza. Solo la volontà malvagia prova a fare resistenza alla grazia. Non l’incoscienza innocente. E poi, chi può resistere alla mano di Dio, quando Lui ci vuole attirare a sé? Paolo, con tutta la sua volontà negativa, non è riuscito a resistere, alle porte di Damasco.
[...]
DANNEELS: La Chiesa ha bisogno di sant’Agostino. Che dice che la grazia fa tutto. Anche noi dobbiamo collaborare. Ma è Dio che opera, e noi cooperiamo. Invece ci siamo votati troppo a un certo pelagianesimo, pensiamo che le cose in fondo dipendono da noi, e che ci basta solo un piccolo aiuto da parte di Dio. E così neghiamo l’onnipotenza della grazia.
Proprio come succedeva ai tempi di Agostino.

Questa tentazione dove l’ha vista affiorare, nella Chiesa?
DANNEELS: Negli anni Sessanta e Settanta, questa tendenza ha assunto un colore più politico. Molti avevano in mente di realizzare il Regno di Dio inteso come rivoluzione sociale. Adesso, alcuni della Teologia della liberazione sono passati a fare l’ecologia. Sono gli stessi combattenti, hanno solo cambiato armamentario… Poi, negli anni Ottanta e Novanta, è prevalso un certo modo di interpretare l’evangelizzazione come impresa della Chiesa, come frutto del suo protagonismo nella società.
Oggi la stessa tendenza un po’ pelagiana ha assunto forme più restauratrici. Ci sono quelli che dicono: dopo il Concilio c’è stato un certo smarrimento, si sono dissipate tante cose buone, ma adesso ci pensiamo noi a rimettere a posto le cose, a raddrizzare il cammino. Chiamano sempre in causa cose essenziali: la liturgia, la dottrina, l’adorazione eucaristica… Ma a volte, nei loro discorsi, queste cose sembrano solo parole d’ordine di un nuovo corso, usate come bandiere. Cambiano gli slogan, ma la linea di fondo rimane sempre la stessa.

Quale?
DANNEELS: Siamo sempre tentati di fare da noi stessi. Prima nell’Azione cattolica, e dopo nei movimenti. Prima nel rinnovamento conciliare, e adesso nella restaurazione. Gli attori siamo sempre noi. Rimandiamo sempre a noi stessi: guardate me, come faccio bene le cose. Invece non serve a niente essere un grande predicatore, se l’attenzione del mondo si ferma sul predicatore. Vedere l’uomo di Chiesa non conta nulla, anzi, quell’uomo di Chiesa fa da schermo se dietro di lui non s’intravvede Gesù. San Paolo dice: potreste avere anche diecimila pedagoghi in Cristo, ma non certo molti padri. Ecco, questo è un tempo in cui ci sono tanti pedagoghi che parlano a nome di Cristo, danno lezioni a tutti nel nome di Cristo, ma non danno la loro vita. Non sono padri in Cristo, perché non sono figli.

Vorrei farle qualche domanda su questioni specifiche. Come ha vissuto dal Belgio la liberalizzazione dell’uso del Messale di san Pio V?
DANNEELS: Tutti i riti sono buoni quando sono riti cattolici. Ho sempre pensato che attraverso le disposizioni di tolleranza liturgica contenute nel motu proprio Summorum pontificum, il Papa abbia voluto mostrare la sua disponibilità affinché tutti i tradizionalisti rientrino nel seno della Chiesa cattolica. Non sono sicuro che sia sufficiente a risolvere la questione, perché il problema coi lefebvriani non è il rito, il problema è il Concilio Vaticano II.
La questione della liturgia è come la locomotiva. Bisogna vedere cosa c’è dentro i vagoni che essa trasporta."

martedì, dicembre 08, 2009

La [piccola] Peste di Milano [2]


EMINENZA REVERENDISSIMA, UFFA!

Ovvero:
amplissimi stralci della lettera aperta che Luigi Amicone, dalle pagine del Foglio di martedì 8 dicembre 2009, ha indirizzata all'Eminentissimo (ac Reverendissimus) Dionigi, Arcivescovo Metropolita della Chiesa Ambrosiana nonchè della Santa Romana Chiesa Cardinale Tettamanzi.


"Eminenza carissima, cardinale Dionigi Tettamanzi,
permetta qui una confessione pubblica: sono un cattivo cattolico, le parole del mio Vescovo mi parvero negli ultimi tempi come l’eco lontana di un pastore salito sull’Alpe e rimasto lassù, mentre noi qui, pecore smarrite restiamo a brucare terra nera, spazzata dalle fatiche della quotidianità e dalle angosce per il futuro nostro e, soprattutto, dei nostri figli.
“La nostra Città oggi è una città solidale, all’altezza della sua tradizione? E’ difficile rispondere con poche parole”. No, non è difficile rispondere in poche parole e con dati alla mano alla domanda contenuta nella sua omelia. Milano potrebbe figurare in cima a una enciclopedia della solidarietà in Italia. E non c’è bisogno delle ricerche del Censis per misurare questa realtà, basta la notizia di esempi che abbiamo qui sottomano.
Per esempio, in quest’anno di acuta crisi economica e sociale, in una sola giornata di “spesa per i poveri”, il Banco Alimentare ha raccolto nei supermercati di Milano città 375 tonnellate di alimenti contro le 360 tonnellate dello scorso anno, incrementando la raccolta del 4 per cento rispetto al 2008 e superando di un punto la media nazionale che è stata comunque superiore di 3 punti rispetto al 2008.
Per esempio, dall’Opera Nomadi alla Casa Famiglia tutti gli operatori milanesi impegnati sul fronte zingari possono confermare alla Curia di Milano che, nonostante le difficoltà e i conflitti presenti nei quartieri più periferici e popolari (sono infatti i più poveri che soffrono il problema degli accampamenti rom), gli sgomberi di questi giorni non sono ceauseschiani, non passano i carriarmati sulle bidonville e nessun bambino rom viene sacrificato sugli altari del consumismo e di una amministrazione politica che, secondo certa visione ecclesiastica, lucrerebbe consenso investendo sulla pura immagine. Qui a Milano gli zingari prendono voucher, i bambini rom sono scolarizzati, il patto di legalità funziona e non c’è città o paese d’Italia che abbia investito in conoscenza, risorse economiche e progettualità sociale, come il capoluogo lombardo.

E’ vero che le ruvide accuse della Padania bruciano e che non ha senso dare dell’imam al cardinale arcivescovo di Milano. Ma c’è disorientamento quando dal Duomo si diffonde il sospetto che nella diocesi più grande del mondo Cristo si è fermato nei modi in cui non si è fermato neanche a Eboli.

Eminenza carissima, quando qualche anno fa lei invitò a Milano Adriano Sofri perché, assieme ad altri scrittori e poeti, animasse con la lettura della Ballata del carcere di Reading i giorni della settimana santa, Lei forse non sapeva che dal carcere di Pisa Sofri aveva riflettuto sulla possibilità che la Lega Nord divenisse l’alternativa protestante alla chiesa cattolica. Sotto molti aspetti questa visione è corretta. Quanti fedeli lombardi hanno trovato nel partito di Bossi l’ascolto e la difesa identitaria che non trovano più nei Principi della chiesa? [...]
Eminenza, lo sappiamo, lo viviamo male, ma non possiamo sfuggire alla verità che il cattolicesimo è, per definizione, “annuncio a tutte le genti”, ecumenico, universale, slegato da ogni provenienza di razza, censo, cultura e religione. Ma allora perché stiamo diventando cattivi cattolici? Perché il popolo non ha quasi più sentore dell’esistenza di una chiesa locale?
Perché le Sue parole suscitano discussione quasi esclusivamente politica e vengono largamente ignorate dall’uomo della strada? Milano, la più grande diocesi del mondo, sembra subire silenziosamente il destino di un declino e di una protestantizzazione del cristianesimo.

Quest’anno, dopo non so quanti anni, Milano ospiterà un grande presepe in piazza del Duomo. Ma l’iniziativa proviene dalle istituzioni laiche, dal comune, non dalla Curia.
Grazie all’iniziativa delle Ferrovie dello Stato la Caritas ritroverà le sue sedi nelle stazioni e nuove risorse arriveranno per accogliere e sfamare gli ultimi, gli sbandati, i barboni.
Grazie all’opera di un’infinità di benemerite associazioni (anche vip e consumistiche) il Natale conoscerà ancora una volta un proliferare di iniziative per i poveri e di eventi di beneficenza.
Eminenza, non è l’attenzione agli ultimi e il senso della solidarietà che mancano. Semmai ciò di cui si sente la mancanza è una presenza piena di ragioni, di metodo e di speranza cristiana.
Sentiamo il generico richiamo a Cristo, ma non lo vediamo affermato in una proposta puntuale, che irradi intelligenza, conoscenza, fascino, e, perché no, potenza vitale.

Che ne è delle chiese e degli oratori ambrosiani dove una volta la gioventù incontrava il prete che lo trascinava in un’avventura esistenziale, piena di ragioni e di vita?
Oggi gli oratori vengono dati in affitto ai club calcistici e al posto dei biliardini degli anni sessanta offrono party umanitari e discoteche allo scopo di attirare una certa “clientela”.
Oggi i catechismi vengono spalmati per anni e anni, e sacramenti come la cresima vengono rinviati perché, pensano i preti, così almeno si riuscirà a tenere i ragazzini un po’ più impegnati e a trattenere più giovani in chiesa. Il risultato naturalmente contraddice i programmi: ragazzini e giovani se ne vanno anche a costo di perdere la confermazione e tutti gli altri sacramenti.
Ma esiste una valutazione serena di tutto ciò?
Cosa ne è della fede, della speranza e della carità vissuti dentro un orizzonte non genericamente umanitario e moraleggiante?
Oggi si deve andare nei grandi santuari per ritrovare quel popolino minuto e semplice che è stato il cuore pulsante del cristianesimo lumbard. Vai alla Madonna di Caravaggio e ogni domenica troverai come parte cospicua dei fedeli qualche vecchio agricoltore benestante e una marea di filippini che fanno pic nic e vi trascorrono l’intera giornata.

Il vecchio capo della comunità cinese a Milano ha voluto farsi tumulare nel cimitero Monumentale. Ma quali presenze cattoliche si stanno muovendo per portare la buona novella a Chinatown?
Si parla dell’immigrazione e, giustamente, si concentrano attenzioni e ansie nella questione islamica. Ma che senso pastorale c’è nell’affrontare il problema islam con gli appelli al dialogo interreligioso, gli incontri con imam che si fanno competizione interna e sono sul libro paga dei diversi stati mediorientali, la ripetizione dell’ovvio principio che la libertà di coscienza e di religione sono gli antemurali di tutte le libertà?
La fortuna e l’originalità del cristianesimo è che, a differenza dei musulmani, cristiani non si nasce, cristiani si diventa. Si diventa con il Battesimo e si sceglie di rimanere cristiani con un atto di libertà e di ragione. Da un certo punto di vista dovremmo riconoscere che nella secolarizzazione e nella globalizzazione c’è un processo che aiuta il cristianesimo. Quando tutte le identità e le tradizioni crollano sotto il vento della morte di Dio e della società liquida, il Cristo emerge con la sua pretesa che “nemmeno un capello del tuo capo andrà perduto”. Ma come è colta questa opportunità? Quali pastorali sono fondate non tanto sulla consolazione all’ombra dei più “poverini” quanto piuttosto sull’offensiva fondata su Colui che dice di sé: “Non sono venuto a portare pace, ma una spada”?

Di solidarietà e sobrietà, Eminenza carissima, lei parlò all’omelia di Natale dello scorso anno, ci tornò sopra in una prima serata di primavera televisiva in cui fu ospite di Fabio Fazio e infine ne ha parlato di nuovo nella sua predica di Sant’Ambrogio. Lei ripete che “la comunità cristiana può e deve diventare molto più sobria”. Che “c’è uno stile di vita costruito sul consumismo che tutti siamo invitati a cambiare per tornare a una santa sobrietà”. Che “con la sobrietà è in questione un ‘ritornare’” perché “ci siamo lasciati andare a una cultura dell’eccesso, dell’esagerazione” e “soprattutto la sobrietà è questione di ‘giustizia’, siamo in un mondo dove c’è chi ha troppo e chi troppo poco e…”. Uffa. Ma quanto ancora sentiremo la volgarizzazione delle tesi di Erich Fromm, delle confetture di Medici senza frontiere, delle denunce antimafia contro i pericoli delle infiltrazioni per qualunque cantiere aperto per modernizzare la città e dare lavoro alla gente?

Piuttosto, qualche anno fa, per iniziativa della Curia di Milano venne promossa in tutta la diocesi una ricerca sullo stato di salute della fede praticante.
Anche il sottoscritto, come tutti i frequentatori delle messe festive, fu chiamato a esprimersi su una batteria di domande che indagavano sulla pratica religiosa. Come mai a distanza di oltre un lustro i risultati di quella inchiesta non sono ancora stati noti? La sensazione diffusa è che nella più grande diocesi del mondo il tasso di disaffezione al precetto festivo e a tutti gli altri sacramenti abbia raggiunto percentuali da paesi del nord Europa.
Forse la diocesi di Milano non sarà un “cimitero”, come dicono le statistiche sul cristianesimo in Belgio o in Olanda. Ma tutto lascia supporre che la strada imboccata è quella di una pace senza vita. Senza contare che in quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno, la mezzaluna di Maometto ha preso stabile dimora. Ma se Muhammad è il nome più diffuso tra i neonati di Milano..."

martedì, dicembre 01, 2009

Pro Missa bene cantata [12]

Sive: DEVOTIO MODERNA
«Il latino non è una vittima del Concilio Vaticano II,
ma dell’introduzione del microfono.
Molta gente, inclusa la gerarchia, si lamenta della scomparsa del latino nella chiesa cattolica senza capire che è stata il risultato della stessa innovazione tecnica da loro accolta con tanto entusiasmo. Il latino liturgico è una forma molto cool di espressione verbale, nella quale il bisbiglio e il mormorio giocano un ruolo importante. Ora, il microfono rende insostenibile un “borbottare” indistinto, ed accentua e intensifica tutti i suoni al punto da togliere loro ogni portata». (Marshall McLuhan)

lunedì, novembre 30, 2009

Pro Missa bene cantata [11]

«Milano, 30 novembre 1969.
Messa nella chiesa di San Gottardo. Ci sono andato per salutare don Ernesto Pisoni, che per la prima volta tornava a officiare dopo il grave infarto che lo ha condotto tre mesi fa in fin di vita. L’ha officiata secondo il nuovo rito che dovrebbe, dicono, favorire una più spontanea partecipazione dei fedeli. Infatti è stata una di essi che lo ha iniziato leggendo qualcosa ad alta voce davanti all’altare. Ma quando si è voltata, ho visto che si trattava di Eva Magni [nota attrice dell'epoca, ndr ].
Poi, per farla completa, è subentrato Enzo Ricci [l'attore Renzo Ricci , ndr]. Ha letto un’epistola di San Paolo da par suo, cioè da pari di San Paolo, anzi come se San Paolo fosse stato lui stesso, tanto che mi sono stupito che non si fosse presentato addirittura in costume romano. Hai voglia a dare la spontaneità ai fedeli cattolici! Essi non sapranno che “recitarla” »

["I conti con me stesso" diario di Indro Montanelli (1909-2001) a cura di Sergio Romano; Ed. Rizzoli 2008]

giovedì, novembre 26, 2009

Ecclesia Dei afflicta, IV


Sive: PRO MISSA BENE CANTATA

Piero Marini persevera nell'errore.
In data 25 novembre 2009 l'Osservatore Romano pubblica l'articolo (dal titolo quanto mai comicamente inappropriato) "La liturgia al tempo di Benedetto XVI" a firma dello stesso emerito curatore delle liturgie papali prima che il Benedetto sommo liturgo lo promuovesse a responsabile dell'organizzazione dei Congressi Eucaristici internazionali.
L'articolo altro non è che un veloce excursus incensatorio dell'opera plasmatrice di Monsignor Maestro sulle liturgie pontificie all'alba del pontificato ratzingeriano. Il testo, pubblicato dal foglio vaticano, denuncia d'essere un estratto dalla Lectio Magistralis pronunciata dall'emerito cerimonie pontificio in occasione nella sua propria incoronazione con le apollinee fronde, tributatagli dalla Facoltà Teologica della Università di Friburgo, quale solenne atto di riconoscimento e di riconoscenza "per il contributo decisivo dato all'attuazione della riforma liturgica del concilio Vaticano II nel corso del suo servizio di responsabile delle celebrazioni liturgiche papali".

Piero Marini persevera nell'errore, scientemente e contro ogni evidenza storico critica: ne aveva già dato testimonianza nel suo anglico libello "A challenging Reform" per i tipi della Liturgical Press pubblicato nel 2007 sostenendo che i padri conciliari approvando prima di ogni altro documento la costituzione liturgica "Sacrosantum Concilium" per la semplice ragione che da quei venerabili padri «la riforma liturgica non era intesa o applicata solo come riforma di alcuni riti» ma era «la base e l’ispirazione degli obiettivi per cui il Concilio era stato convocato»!
Lo ripete pertinacemente ricevendo la laurea honoris causa in teologia: «La riforma liturgica è il fondamento delle altre riforme. La riforma della Chiesa, l'ecumenismo, la missione, il dialogo con il mondo contemporaneo dipendono cioè dalla riforma liturgica. Si può dunque a ragione affermare che la Sacrosanctum concilium è stata la prima costituzione conciliare non solo in senso temporale ma anche come fons e matrice delle altre costituzioni e di tutte le riforme promosse dal concilio».

Quindi per il Monsignore, qualunque passo avanti nelle buone relazioni con ebrei, buddisti o scintoisti deve necessariamenre essere il frutto di una riforma liturgica, ed al contempo deve generare ulteriori riforme litugiche. Ecco quindi che il "Summorum Pontificum" sarebbe un "tornare indietro" un "volgere le spalle" non solo al dialogo ecumenico ma ad interessarsi delle problematiche planetarie quali la pace, la povertà e la fame dei popoli.
Or bene, siccome il prete che celebra in vernacolo rivolto verso il popolo, quale immagine di un cattolicesimo dialogante ed amico del mondo contemporaneo, continua imperterrito a ripetere gli stessi no (al divirzio, all'aborto, al sacerdozio alle donne etc) del prete preconciliare volgente le spalle al popolo: bisogna dedurne che una tale teoria sia inconciliabile con la realtà sia della lettera e sia dello spirito dei padri conciliari e tanto più dei padri post-conciliari.

Qualunque storia seppur sommaria del Concilio Vaticano II deve ammettere che non ci furono affatto motivazioni ideologiche che spinsero a trattare per primo l'argomento liturgico, quasi che sulla creazione di nuove norme liturgiche avrebbe dovuto poggiare tutta l'architettura dottrinaria a seguire. Lo schema sulla liturgia fu il primo ad essere trattato proprio perchè era quello che creava meno spaccature ideologiche: "Che, poi, questo testo sia stato il primo a essere esaminato dal Concilio non dipese per nulla da un accresciuto interesse per la questione liturgica da parte della maggioranza dei Padri, ma dal fatto che qui non si prevedevano grosse polemiche e che il tutto veniva in qualche modo considerato come oggetto di un’esercitazione, in cui si potevano apprendere e sperimentare i metodi di lavoro del Concilio." (Joseph Ratzinger "LA MIA VITA - Ricordi")
Insomma: come poteva l'episcopato essere contrario alle riforme liturgiche? Se ne ereno sempre fatte: l'appena concluso pontificato pacelliano era stato zeppo riforme liturgiche! E sotto il pontificato roncalliano il lavorìo dei liturgisti vaticani non era venuto certo meno: producendo prima la semplificazione delle rubriche del messale tridentino e poi la nuova edizione del medesimo messale.
Lo schema sulla liturgia fu pertanto l'unico redatto da una commissione preparatoria della Curia Romana a non subire la bocciatura dall'Assise Ecumenica: tutti erano daccordo sulla necessità che la Santa Sede proseguisse nell'opera già intrapresa della revisione dei libri liturgici.
I venerabili padri si accalorarono soltanto intorno al maggior o monore uso delle lingue volgari nei riti.

Nelle proprie memorie Joseph Ratzinger, "perito" al Concilio, porta lo stesso Papa della riforma liturgica post-conciliare a testimonio del fatto che (a differenza di ciò che vuol far credere Piero Marini!) nessun vescovo presente al Vaticano II era lucidamente convinto di essere giunto a Roma per approvare quella capitale riforma liturgica che avrebbe generato niente di meno che la palingenesi del Cattolicesimo stesso: "Per la maggioranza dei padri conciliari la riforma proposta dal movimento liturgico non costituiva una priorità, anzi per molti di loro essa non era nemmeno un tema da trattare. Per esempio, il cardinale Montini, che poi come Paolo VI sarebbe divenuto il vero papa del Concilio, presentando una sua sintesi tematica all’inizio dei lavori conciliari aveva detto con chiarezza di non riuscire a trovare qui alcun compito essenziale per il Concilio"!
Monsignor Marini Senior prosegue nella recita del suo mantra: "La riforma liturgica è il fondamento delle altre riforme". Persevera nel recitare la propria professione di fede in una riforma bugniniana teogona! Ecco la blasfemia per cui la rifoma liturgica post-conciliare avrebbe generato il Cattolicesimo stesso! Ma diradatisi, ormai, le cortine d'incenso dell'ideologia bugniniana (di cui monsignor Marini senior è l'epigono) appare, con raccapriccio, il parto della fantasia post-conciliare al potere: una vero e proprio mostro mitologico nutrito e carezzato per un quarantennio da tutta la compagine del mondo ecclesiale.
Ben tenuta al guinzaglio dal monsignor Piero, la fantastica chimera pretende ancora di scorrazzare da padrone nella vigna del Signore, colpevolmente incurante della presenza del Benedetto vignaiolo.

mercoledì, novembre 18, 2009

SPES AEDIFICANDI, IV


Ovvero: "La Cattedrale dall'architettura romanica a quella gotica, il retroterra teologico"

"La fede cristiana [...] ispirò anche una delle creazioni artistiche più elevate della civiltà universale: le cattedrali, vera gloria del Medioevo cristiano. Infatti, per circa tre secoli, a partire dal principio del secolo XI si assistette in Europa a un fervore artistico straordinario.
Un antico cronista descrive così l’entusiasmo e la laboriosità di quel tempo: “Accadde che in tutto il mondo, ma specialmente in Italia e nelle Gallie, si incominciasse a ricostruire le chiese, sebbene molte, per essere ancora in buone condizioni, non avessero bisogno di tale restaurazione. Era come una gara tra un popolo e l’altro; si sarebbe creduto che il mondo, scuotendosi di dosso i vecchi cenci, volesse rivestirsi dappertutto della bianca veste di nuove chiese. Insomma, quasi tutte le chiese cattedrali, un gran numero di chiese monastiche, e perfino oratori di villaggio, furono allora restaurati dai fedeli” (Rodolfo il Glabro, Historiarum 3,4).

Vari fattori contribuirono a questa rinascita dell’architettura religiosa. Anzitutto, condizioni storiche più favorevoli, come una maggiore sicurezza politica, accompagnata da un costante aumento della popolazione e dal progressivo sviluppo delle città, degli scambi e della ricchezza. Inoltre, gli architetti individuavano soluzioni tecniche sempre più elaborate per aumentare le dimensioni degli edifici, assicurandone allo stesso tempo la saldezza e la maestosità. Fu però principalmente grazie all’ardore e allo zelo spirituale del monachesimo in piena espansione che vennero innalzate chiese abbaziali, dove la liturgia poteva essere celebrata con dignità e solennità, e i fedeli potevano sostare in preghiera, attratti dalla venerazione delle reliquie dei santi, mèta di incessanti pellegrinaggi.

Nacquero così le chiese e le cattedrali romaniche, caratterizzate dallo sviluppo longitudinale, in lunghezza, delle navate per accogliere numerosi fedeli; chiese molto solide, con muri spessi, volte in pietra e linee semplici ed essenziali. Una novità è rappresentata dall’introduzione delle sculture. Essendo le chiese romaniche il luogo della preghiera monastica e del culto dei fedeli, gli scultori, più che preoccuparsi della perfezione tecnica, curarono soprattutto la finalità educativa. Poiché bisognava suscitare nelle anime impressioni forti, sentimenti che potessero incitare a fuggire il vizio, il male, e a praticare la virtù, il bene, il tema ricorrente era la rappresentazione di Cristo come giudice universale, circondato dai personaggi dell’Apocalisse. Sono in genere i portali delle chiese romaniche a offrire questa raffigurazione, per sottolineare che Cristo è la Porta che conduce al Cielo. I fedeli, oltrepassando la soglia dell’edificio sacro, entrano in un tempo e in uno spazio differenti da quelli della vita ordinaria. Oltre il portale della chiesa, i credenti in Cristo, sovrano, giusto e misericordioso, nell’intenzione degli artisti potevano gustare un anticipo della beatitudine eterna nella celebrazione della liturgia e negli atti di pietà svolti all’interno dell’edificio sacro.

Nel secoli XII e XIII, a partire dal nord della Francia, si diffuse un altro tipo di architettura nella costruzione degli edifici sacri, quella gotica, con due caratteristiche nuove rispetto al romanico, e cioè lo slancio verticale e la luminosità.
Le cattedrali gotiche mostravano una sintesi di fede e di arte armoniosamente espressa attraverso il linguaggio universale e affascinante della bellezza, che ancor oggi suscita stupore. Grazie all’introduzione delle volte a sesto acuto, che poggiavano su robusti pilastri, fu possibile innalzarne notevolmente l’altezza. Lo slancio verso l’alto voleva invitare alla preghiera ed era esso stesso una preghiera. La cattedrale gotica intendeva tradurre così, nelle sue linee architettoniche, l’anelito delle anime verso Dio. Inoltre, con le nuove soluzioni tecniche adottate, i muri perimetrali potevano essere traforati e abbelliti da vetrate policrome. In altre parole, le finestre diventavano grandi immagini luminose, molto adatte ad istruire il popolo nella fede. In esse - scena per scena – venivano narrati la vita di un santo, una parabola, o altri eventi biblici. Dalle vetrate dipinte una cascata di luce si riversava sui fedeli per narrare loro la storia della salvezza e coinvolgerli in questa storia.

Un altro pregio delle cattedrali gotiche è costituito dal fatto che alla loro costruzione e alla loro decorazione, in modo differente ma corale, partecipava tutta la comunità cristiana e civile; partecipavano gli umili e i potenti, gli analfabeti e i dotti, perché in questa casa comune tutti i credenti erano istruiti nella fede. La scultura gotica ha fatto delle cattedrali una “Bibbia di pietra”, rappresentando gli episodi del Vangelo e illustrando i contenuti dell’anno liturgico, dalla Natività alla Glorificazione del Signore.

In quei secoli, inoltre, si diffondeva sempre di più la percezione dell’umanità del Signore, e i patimenti della sua Passione venivano rappresentati in modo realistico: il Cristo sofferente (Christus patiens) divenne un’immagine amata da tutti, ed atta a ispirare pietà e pentimento per i peccati. Né mancavano i personaggi dell’Antico Testamento, la cui storia divenne in tal modo familiare ai fedeli che frequentavano le cattedrali come parte dell’unica, comune storia di salvezza.
Con i suoi volti pieni di bellezza, di dolcezza, di intelligenza, la scultura gotica del secolo XIII rivela una pietà felice e serena, che si compiace di effondere una devozione sentita e filiale verso la Madre di Dio, vista a volte come una giovane donna, sorridente e materna, e principalmente rappresentata come la sovrana del cielo e della terra, potente e misericordiosa. I fedeli che affollavano le cattedrali gotiche amavano trovarvi anche espressioni artistiche che ricordassero i santi, modelli di vita cristiana e intercessori presso Dio. E non mancarono le manifestazioni “laiche” dell’esistenza; ecco allora apparire, qua e là, rappresentazioni del lavoro dei campi, delle scienze e delle arti. Tutto era orientato e offerto a Dio nel luogo in cui si celebrava la liturgia.

Possiamo comprendere meglio il senso che veniva attribuito a una cattedrale gotica, considerando il testo dell’iscrizione incisa sul portale centrale di Saint-Denis, a Parigi: “Passante, che vuoi lodare la bellezza di queste porte, non lasciarti abbagliare né dall’oro, né dalla magnificenza, ma piuttosto dal faticoso lavoro. Qui brilla un’opera famosa, ma voglia il cielo che quest’opera famosa che brilla faccia splendere gli spiriti, affinché con le verità luminose s’incamminino verso la vera luce, dove il Cristo è la vera porta”.

Cari fratelli e sorelle, mi piace ora sottolineare due elementi dell’arte romanica e gotica utili anche per noi. Il primo: i capolavori artistici nati in Europa nei secoli passati sono incomprensibili se non si tiene conto dell’anima religiosa che li ha ispirati. Un artista, che ha testimoniato sempre l’incontro tra estetica e fede, Marc Chagall, ha scritto che “i pittori per secoli hanno intinto il loro pennello in quell'alfabeto colorato che era la Bibbia”. Quando la fede, in modo particolare celebrata nella liturgia, incontra l’arte, si crea una sintonia profonda, perché entrambe possono e vogliono parlare di Dio, rendendo visibile l’Invisibile.
[...]
Il secondo elemento: la forza dello stile romanico e lo splendore delle cattedrali gotiche ci rammentano che la via pulchritudinis, la via della bellezza, è un percorso privilegiato e affascinante per avvicinarsi al Mistero di Dio. Che cos’è la bellezza, che scrittori, poeti, musicisti, artisti contemplano e traducono nel loro linguaggio, se non il riflesso dello splendore del Verbo eterno fatto carne? Afferma sant’Agostino: “Interroga la bellezza della terra, interroga la bellezza del mare, interroga la bellezza dell’aria diffusa e soffusa. Interroga la bellezza del cielo, interroga l’ordine delle stelle, interroga il sole, che col suo splendore rischiara il giorno; interroga la luna, che col suo chiarore modera le tenebre della notte. Interroga le fiere che si muovono nell'acqua, che camminano sulla terra, che volano nell'aria: anime che si nascondono, corpi che si mostrano; visibile che si fa guidare, invisibile che guida. Interrogali! Tutti ti risponderanno: Guardaci: siamo belli! La loro bellezza li fa conoscere. Questa bellezza mutevole chi l’ha creata, se non la Bellezza Immutabile?” (Sermo CCXLI, 2: PL 38, 1134).
BENEDICTUS PP XVI

venerdì, novembre 06, 2009

Gaudet Mater Ecclesia! [5]

OVVERO: IL TRONETTO DOVE LO METTO?



[dal "Diario del Concilio" di monsignor Neophytos Edelby (1920-1995) vescovo cattolico arabo di rito bizantino]

"Venerdì 6 novembre 1964, - 116a congregazione generale.
Questa mattina il papa ha voluto presiedere di persona la riunione conciliare. Molti si chiedevano, in effetti, perchè il papa non prendesse mai parte alle deliberazioni conciliari, come se non fosse membro del Concilio. E' vero che il papa tende a non restringere, con la sua presenza, la libertà d'espressione dei padri. Ma non è bene, non più, che il papa appaia come estraneo al Concilio, avendo solo il ruolo di confermare, se lo vuole, le decisioni del Concilio, inteso come assemblea dei vescovi separata dal papa.

Questa mattina, dunque, il papa ha dato una manifestazione concreta della collegialità episcopale al Concilio, perchè vi ha semplicemente preso parte, al tavolo del consiglio di presidenza, in mezzo ai cardinali. Egli ha semplicemente occupato il posto del card. Tisserant, su una poltrona un po' più dorata e un po' più elevata.
Collera di mons. Dante, cerimoniere pontificio, che non può comprendere come il papa possa sedersi in mezzo agli altri vescovi!

Il papa ha assistito, per cominciare, alla messa di rito etiope, celebrata con tam-tam e cetre.
Ha fatto il suo ingreso nella basilica accompagnato soltanto da due cardinali e da quattro segretari. E' venuto a piedi, senza sedia gestatoria, e camminando così veleocemente che la sua scorta faticava a seguirlo. Allora nella sala conciliare sono scattati degli applausi frenetici. Sono state ascoltate delle voci: «Viva il papa democratico!». Era una battuta di spirito. Ma è certo che i vescovi sono rimasti molto toccati da questo gesto del papa che, poco a poco. senza rivoluzioni e senza dichiarazioni incendiarie, si sta spogliando delle apparenze di un'apoteosi non evangelica.
I vescovi e il mondo cristiano lo rispetteranno di più.

Questa mattina, sotto la presidenza del papa, si è cominciata la discussione dello schema sulle missioni. Il papa, con la sua presenza e con il suo discorso inaugurale, ha sottolineato l'importanza di tale questione. Il card. Agagianian, prefetto della congregazione di Propaganda, gli ha risposto in termini commossi, evocando il lavoro, le lacrime e il sangue dei missionari attraverso il mondo.
Poi il papa è teornato a casa, non senza salutare i cardinali presenti, i cardinali moderatori, e ciascuno dei patriarchi personalmente.
Di nuovo applausi entusiasti. [...]"

mercoledì, ottobre 07, 2009

Non sono Mosè, chiamatemi Patriarca! 5


Ovvero: Il PAPA NERO.

Dall'allocuzione di Sua Santità Abuna Pauolos, " Patriarca e Catholicos di Etiopia, Ichege della Sede di San Tekle Haymanot, Arcivescovo di Axum", in apertura della terza sessione del secondo Sinodo per l'Africa:

"Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, Dio Uno, amen!
Cari partecipanti a questo grande incontro di cardinali e vescovi,
è per me un onore e un privilegio essere stato invitato a questo grande Sinodo e tenere un breve discorso sull'Africa e sulle Chiese in questo continente. Sono grato in particolar modo a Sua Santità, Papa Benedetto XVI, che ha voluto che fossi fra voi oggi e che mi ha testimoniato personalmente il suo amore per l'Africa e il suo rispetto per la Chiesa etiopica ortodossa ...

Antropologi, filosofi e accademici hanno confermato che l'Africa in generale e l'Etiopia in particolare sono in effetti la culla del genere umano. E la Sacra Bibbia conferma questa profonda convinzione. La storia, secondo il calendario etiopico, comincia da Adamo e da Noè. Vale a dire che, per gli etiopi, l'inizio del genere umano, il nostro presente e il nostro futuro sono segnati oggi e per sempre da Dio e dalla sua salvezza.
L'Africa, del cui popolo l'antica dignità è incisa sulle pietre dell'obelisco di Axum, delle piramidi egizie, dei monumenti così come nei manoscritti, non è stata solo una sorgente di civiltà. Secondo la Sacra Bibbia, l'Africa è stata anche rifugio per persone colpite dalla fame: è questo il caso degli Ebrei ai tempi di Giacobbe, quando trascorsero sette anni in Egitto.
La Sacra Bibbia afferma che gli ebrei e il profeta Geremia, che soffrirono molto per l'invasione dei babilonesi, trovarono rifugio in Etiopia e in Egitto. Quanti vivevano nella parte mediorientale del mondo trovarono sollievo dalla fame in Etiopia e in Egitto.
Lo stesso Gesù Cristo e Maria Santissima furono accolti in Egitto, mentre fuggivano dalla crudele minaccia di Erode. È evidente che gli africani si prendono cura dell'umanità!
L'Africa continua a essere un continente religioso i cui popoli hanno creduto in Dio onnipotente per secoli. La regina di Saba aveva insegnato ai suoi compatrioti l'Antico Testamento che aveva appreso da Israele. Da allora l'Arca dell'Alleanza si trova in Etiopia, nella città di Axum.
Il figlio della regina di Saba, Menelik I, aveva seguito il suo esempio ed era riuscito a portare l'Arca dell'Alleanza di Mosè in Africa, in Etiopia.
La storia dell'eunuco etiope e della Legge forte e ben organizzata di Mosè, e delle profonde pratiche e culture religiose esistenti in Etiopia, indicano che la Legge di Mosè in Etiopia veniva messa in pratica meglio che in Israele. Se ne può avere una testimonianza ancora adesso, studiando la cultura e lo stile di vita degli etiopi.
È ad Alessandria, in Egitto, che la Sacra Bibbia è stata tradotta in lingue non ebraiche. Questa traduzione africana è conosciuta come la "Versione dei Settanta saggi" (Sebeka Likawunt).
La Sacra Scrittura indica che, come ai tempi remoti dell'Antico Testamento, gli africani hanno l'abitudine di adorare Dio secondo la legge di coscienza del periodo del Nuovo Testamento.
L'allora re dei re etiope, l'imperatore Baldassarre, fu uno dei re che si recò a Betlemme per adorare il Bambino Gesù.
Il Vangelo ci dice che fu un africano, un uomo proveniente dalla Libia di nome Simone di Cirene, a prendere la croce di Gesù, mentre saliva sul Golgota.
E osservate: un eunuco etiope si era recato a Gerusalemme nell'anno 34 per adorare Dio secondo la Legge di Mosè. Per ordine dello Spirito Santo l'eunuco fu battezzato da Filippo. Al suo ritorno in Africa, egli predicò il cristianesimo alla sua nazione. L'Etiopia divenne quindi la seconda nazione dopo Israele a credere in Cristo; e la Chiesa etiopica divenne la prima Chiesa in Africa.
Grandi storie di fede hanno caratterizzato i primi secoli del cristianesimo in Africa, poiché gli africani hanno sempre vissuto una profonda carità e una grande devozione per il Nuovo Testamento.
L'Africa è la regione da cui provengono eminenti studiosi e Padri della Chiesa come sant'Agostino, san Tertulliano, san Cipriano, come pure sant'Atanasio e san Kerlos. Questi Padri vengono venerati sia nel continente che nel mondo.
San Yared, che ha composto bellissimi inni sacri e che il mondo onora per la sua straordinaria creatività, era parimenti originario dell'Africa. San Yared è un figlio dell'Etiopia. I suoi inni rappresentano una delle meraviglie del mondo per cui l'Etiopia è conosciuta ovunque. Le opere di tutti questi Padri caratterizzano l'Africa.
Secondo gli studiosi, è in Africa che è stato definito il primo canone della Sacra Bibbia.
La storia ci ricorda anche il martirio dei cristiani in Nordafrica, quando il loro re, un non credente, alzò la spada contro di loro nel tentativo di distruggere completamente il cristianesimo. Allo stesso tempo cristiani che venivano maltrattati e perseguitati in diverse parti del mondo sono andati in Africa, specialmente in Etiopia, e hanno vissuto in pace in quella regione.
Devoti fedeli etiopi hanno offerto la loro straordinaria ospitalità ai nove santi e ad altre decine di migliaia di cristiani che erano stati perseguitati in Europa orientale e fuggivano in Africa a gruppi. Le abitazioni e le tombe di questi cristiani perseguitati sono state custodite come santuari in diverse parti dell'Etiopia.
In Africa e in Etiopia conserviamo pezzi della Santa Croce. La parte destra della Croce si trova in Etiopia, in un luogo chiamato la Montagna di Goshen.
Anche i cristiani in Africa si sono fatti carico della Croce di Cristo. Penso alla mia Chiesa che ultimamente ha subito una dura persecuzione durante la dittatura comunista, con molti nuovi martiri, tra cui il patriarca Teofilo e, prima di lui, Abuna Petros durante il periodo coloniale. Io stesso, che allora ero vescovo, ho trascorso diversi anni in prigione prima dell'esilio. Quando sono diventato patriarca, al termine del periodo comunista, c'era molto da ricostruire. È stato questo il nostro compito, con l'aiuto di Dio, le preghiere dei nostri monaci e la generosità dei fedeli.
L'Africa è un continente potenzialmente ricco, con un suolo fertile, risorse naturali e una grande varietà di specie vegetali e animali. Ha un buon clima e possiede molti minerali preziosi. Poiché è un continente con molte risorse naturali non ancora sfruttate, molti le tengono gli occhi addosso. È inoltre innegabile che i progressi nella civiltà in altre parti del mondo siano il risultato delle fatiche e delle risorse dell'Africa. Gli africani hanno fatto tante opere sante per il mondo. Cosa ha fatto il mondo per loro? ..."
(©L'Osservatore Romano - 7 ottobre 2009)

domenica, ottobre 04, 2009

Parigi val bene una messa?

OVVERO: "SGUARDI ROMANI SULLA CAPITALE FRANCESE NEL TERZO MILLENNIO, TRA ANIMAZIONE LITURGICA E MUSEALE... " (ALMANACCO ROMANO)

"Animazione liturgica - Nella chiesa di Saint Marri, alle spalle del Beaubourg, alle sei di sera di un dì di festa, un gruppo è seduto intorno al tavolinetto da bar che sostituisce l’altare maggiore. Cuscini e candeline fuor dalle regole anche per la disinvolta Chiesa gallica, una specie di party mogio. Nel programma affisso sulla porta del tempio, la funzione che sta per cominciare è indicata come «animazione liturgica». Dopo aver visto quella fastidiosissima del Petit Palais si è pronti a tutto, ma ci si chiede ugualmente perché mai la liturgia abbia bisogno di animatori piuttosto che di sacerdoti, predicatori e officianti, di fedeli oranti e meditanti.
Un giovanotto pallido va al microfono e annuncia che questa è una liturgia di omosessuali cristiani. Santificherà il tempo alla maniera di quella delle Ore? Come il vizio possa conformare una comunità di preghiera è davvero un mistero. Naturalmente non vale solo per gli omosessuali, sarebbe altrettanto insensato per i peccatori della carne eterosessuali che si riunissero in quanto peccatori della carne o di seguaci del peccato di gola. Basterebbe recitare il vecchio Confiteor per dire della miseria creaturale: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. Non mancano invece in questa chiesa riti per immigrati, disoccupati e altre vittime di questioni sociali.
Un tempo si ricorreva alle Rogazioni e alle Litanie per tenere lontano i malanni di questo mondo, peste o carestia, temporali o siccità: «A peste, fame et bello - Libera nos Domine». La questione di fondo del cattolicesimo essendo la vita eterna.

Nelle chiese parigine, comunque, successe anche di molto peggio nei secoli scorsi. La parrocchia di Saint Eustache, per esempio, fu trasformato dai rivoluzionari in tempio dell’Agricoltura, Notre-Dame in quello della Ragione. Neppure la stupidità umana può essere valutata con il metro progressista: talvolta in passato si sono commesse atrocità più inique.

Esotismi monastici - A Saint Gervais e Saint Protais, a pochi passi dall’Hôtel de Ville, una chiesa che con la sua facciata seicentesca sovrapposta a un edificio goticheggiante, svela l’anima di Parigi, eternamente medioevale nonostante le mode susseguitesi nella storia, all’ora di pranzo di un giorno feriale, si può assistere a una ‘liturgia monastica’ ben cantata e devota, con tanto di prostrazione, con i corpi cioè distesi davanti all’altare, sia pure con la piccola eccentricità della presenza fianco a fianco di monaci e monache, un tempo divisi dalle rispettive clausure, che cantano insieme.
Tace l’antico organo dove si alternò la dinastia dei Couperin, organo affiancato da una copia della Morte della Vergine di Caravaggio, la spiritualità trionfante attualmente pretende canto senza accompagnamento strumentale e icone sull’altare, prestiti del cristianesimo bizantino. Si cercano anche in questo campo modelli esotici, si prova quasi vergogna per gli antichi riti, ormai difficilissimi da trovare, del cattolicesimo romano.

Nella chiesa manzoniana - A Saint Roch, dove Alessandro Manzoni si sarebbe convertito dall’illuminismo familiare al cattolicesimo – complice forse il nimbo barocco che sovrasta il pulpito, con un angelo e per di più dorato che esce da un tendaggio marmoreo come fa lo scheletro berniniano nella tomba papale, e che si libera il braccio non per agitare la clessidra, come nella statua romana, ad annunciare che l’ora del singolo è suonata, bensì per dar fiato alla squillante tromba apocalittica che abolisce il tempo – ebbene in questa chiesa si è ora colpiti da una vastissima predella in legno con su un cubo egualmente ligneo, autentico contraltare, senza neanche una tovaglia, né un cero, men che mai una croce, insomma un palcoscenico modernista di marca protestante, un vuoto leggermente angosciante, con le sedie intorno in forma assembleare.
Chissà se Henriette Blondel, la moglie calvinista di don Lisander, davanti a questo altare si sarebbe convertita?
Probabilmente si sarebbe convinta nel luogo comune, opportunamente arredato, che tutte le religioni sono uguali.

Una messa in latino - A Saint Germain l’Auxerrois, la parrocchia dei re di Francia che si apre nella piazza del Louvre, di fronte al brutto palazzo di chi, per miopia e per sciovinismo, respinse l’eccelso progetto di Gian Lorenzo Bernini, salito fin quassù per illuminare anche Parigi dell’arte romana (così come respinse quello pure incantevole del rivale, Pietro da Cortona), si resta sorpresi leggendo gli orari delle messe, quando accanto a quelle vespertine vi si trova tra parentesi la scritta: San Pio V. Sì, ogni sera, nell’immensa Saint Germain, gotica soprattutto per i restauri di Viollet-le-Duc, si celebra una messa in latino, secondo il rito tridentino, quello promulgato appunto dall’austero papa Ghislieri.
Proprio a Parigi, nell’anno turbinoso, si arrivò a inventare riti – se ne dava conto in un numero di «Christianisme social» (Paris, 1968, nn.7-10) – con un messale senza tradizione, la liturgia della parola incentrata sulla politica, i con-celebranti cattolici e protestanti, la predica di Paul Ricoeur, le musiche di Xenakis. Eppure non sembrava esserci intento provocatorio, quanto il tentativo di dare corpo alla sensazione di vivere un’ora ‘profetica’; gli ‘eventi del maggio’, i miti della primavera, i Calendimaggio d’ogni folklore parevano annunciare come una ricomparsa del sacro nel nuovo mondo della tecnocrazia in via di affermazione a quell’epoca. Candore e furore. Gli studenti si prodigavano in riti vudù – diceva Edgar Morin – per risvegliare gli spiriti della rivoluzione.
Oggi torna sommessa la tradizione liturgica, quella millenaria. Nella chiesa dove Lacordaire tentò di rilanciare l’arte sacra.

Fermo-immagine con Bloy - Un sabato mattina, prima comunione nella chiesa di Saint Paul al Marais, dal pulpito della quale predicava Bossuet, un fermo-immagine anni Cinquanta: famiglie numerose e all’apparenza liete, donne con la gonna ed eleganti. Il pane e il vino eucaristici possono avere una risonanza unica nel paese che celebra a tutte le ore il pane e il vino terreni. Ne era convinto Léon Bloy che trovava in questi beni tipicamente francesi l’essenza della cattolicità della ‘Figlia prediletta della Chiesa di Roma’, e che imprecava contro i luterani danesi che non mangiavano pane e non bevevano vino.

[...]

Una santa liberatrice - L’otto maggio, anniversario della liberazione di Parigi dall’occupazione tedesca, cittadini e autorità portano mazzi di fiori e corone ai piedi di Giovanna d’Arco, la santa giovinetta che svetta nella sua statua dorata in Place des Pyramides.
Che succederebbe da noi se per celebrare la liberazione si ringraziasse un santo e lo si omaggiasse? ..."

venerdì, ottobre 02, 2009

veleni e vecchi merletti

Sive: IN CAUDA VENENUM


Suddeutsche Zeitung:Williamson, dice di averla conosciuto durante un pranzo?

Cardinale Castrillón Hoyos: In quel tempo ero appena divenuto Presidente di Ecclesia Dei. E lì ho osservato in piena estate un gruppo di persone in abito talare, perciò ho chiesto al mio segretario chi fossero.
Lui mi ha detto che erano Lefebvriani. Così li ho invitati a pranzo.

Suddeutsche Zeitung:Che inpressione le hanno fatto?

Cardinale Castrillón Hoyos: L'impressione che sono brava gente, ma talvolta un po' troppo fissata sull'idea che tutto il male del mondo ha la sua fonte nella riforma del Concilio. Così cercai di rilassare l'atmosfera e scherzai dicendo che se avessi voluto scegliere una lingua per la Messa avrei preferito l'Aramaico, la lingua di Cristo, dal momento che non sapevo chi avesse avuto la cattiva idea di cambiare la lingua del Signore con quella dei Suoi persecutori.
Loro la trovarono una pessima battuta.

lunedì, luglio 13, 2009

lunedì, giugno 29, 2009

Sive ergo Græci… VI

OVVERO: Glosse alla ecclesiologia della Chiesa latina da parte di Neophytos Edelby (1920-1995) vescovo cattolico arabo di rito bizantino:


"Mi sembra che la concezione occidentale e quella orientale della Chiesa partano da due opposti punto di vista. Naturalmente, quando, per semplificare, parlo di tendenza occidentale, penso alla tendenza più tipicamente occidentale, cioè a quella che spinge le sue deduzioni fino all'estremo limite della logica e perfino al di là di essa.
Se comprendo bene, la tendenza occidenale considera le cose in questo modo: Cristo ha insediato Pietro. Poi, Eli ha dato dei collaboratori, che sono soprattutto dei sottoposti: gli apostoli. Infine, a Pietro e agli apostoli, ma soprattutto a Pietro, Egli ha dato dei sottoposti (giacché é inutile essere capi se non si hanno dei sottoposti). Questi sono dei semplici fedeli, la cui ragion d'essere è soprattutto -sembra- quella di fornire una materia ai comandamenti, alla santificazione e al magistero dei capi.
Questa concezione estremista occidentale parte dalla cima: Cristo ha insediato Pietro; gli ha dato dei collaboratori; poi a Pietro e ai suoi collaboratori Egli ha dato dei fedeli.
Ecco tutta la Chiesa passata in rassegna.

In Oriente noi partiamo da da un punto di vista diametralmente opposto. Per noi, innanzi tutto, Cristo si congiunge ai credenti, ai fedeli, come ai suoi fratelli e membri del suo corpo. Ecco l'essenziale: far parte di Cristo. Ecco tutta la Chiesa.
Per unire i suoi fedeli e assicurare loro la permanenza nella sua grazia e nella sua predicazione e anche per lanciarli nella predicazione del Vangelo - che, per il fatto stesso che sono cristiani, appartiene loro di diritto senza alcuna missione canonica speciale da parte della gerarchia - egli ha dato loro una èlite: i suoi apostoli, i quali sono i primi cristiani, i primi fedeli e coloro che sono maggiormente impegnati. E affinché il collegio degli apostoli non sia un semplice aggregato di individui, di franchi tiratori che lavorano ognuno a proprio modo, Egli ha dato loro una testa, un capo, un "Corifeo" (come diciamo noi), un fratello maggiore: Pietro e i suoi successori.
In questo modo noi ritroviamo tutta la Chiesa, partendo però da due punti di vista opposti. Ciò che vi è di importante e di essenziale nella Chiesa sono tutti coloro che credono in Cristo.
A coloro che credono in Lui, il Signore ha dato degli apostoli ed agli apostoli ha dato un capo, un corifeo, una testa affinché tutto sia nell'ordine e nell'armonia."

[AA.VV. "La fine della Chiesa come società perfetta"; Arnoldo Mondadori Editore, 1968]

sabato, giugno 27, 2009

Vite Parallele /17

Ovvero: Dell' arguta esposizione, ad opera di Stefano Di Michele sul Foglio di sabato 27 giugno 2009, intorno alle concordanze semiserie tra le vite del "Re Sole" e di Silvio Berlusconi (nell'era di Patrizia D'Addario).


"Bisogna diffidare di se stessi, sorvegliare le proprie inclinazioni e stare sempre in guardia contro la propria natura"
(Memorie di Luigi XIV)

"Quando si assume un ruolo come questo la vita cambia. I cattolici la chiamano Grazia dello Status..."
(Silvio Berlusconi, primavera 1994)



" Dell’inizio.

Si comincia così: c’era (una volta) un re. Poi si continua così: e c’è (ancora) un presidente del Consiglio. Uno era francese, l’altro è italiano; quello si chiamava Luigi, questo Silvio. Il primo fu noto (e una certa notorietà, diciamo, ha ancora) come il Re Sole; il secondo più democraticamente ondeggia tra Presidente Operaio e Presidente Imprenditore – e a tacer del resto. Ma un primo indizio – traccia labile, impronta leggera, criptico enigma: sorta di “Codice da Arcore” – che riconduce il rutilante Silvio all’abbagliante Luigi del XVII secolo è possibile rintracciarlo nell’antica raccomandazione che il Cavaliere usava indirizzare ai seguaci: “Bisogna sentirsi con il sole in tasca!”. [...]
L'intreccio tra l'uomo che protesse Moliere e quello che valorizzò Apicella corre di secolo in secolo: passione per passione, atto per atto, fobia per fobia.
La grandeur come un laurà de la Madona.

Dell'inizio, avec Dieu.

Alla nascita avvenuta nello stesso mese di settembre, pur se in anni diversi, s'intende: il 5 per il francese, il 29 per l'italiano - il piccolo Luigi fu subito appellato Dieudonnè o Deodatus: insomma, Dio c'è l'ha dato. "Si disse anche - scrive Antonia Frazer ne "Gli amori del Re Sole" (Mondadori)- che il sole era eccezionalmente vicino alla terra, come per salutare il futuro sovrano", praticamente alla portata della tasca del futuro Presidente del Consiglio.
Nel momento in cui vide la luce il piccolo Silvio, nessuno ebbe pubblicamente una tale opportuna prontezza di riflessi, ma in seguito il richiamo all'Unto del Signore ha perlomeno, prima di qualunque finale di partita, riallineato nella volontà celeste i due destini. Fatto sta che Luigi mai venne in mente di farsi chiamare, neanche per scherzo (e mica aveva manifesti da fare stampare ad ogni elezione) Re Operaio o Re Villano. Fu Deodatus e Sole, e basta. La funzione di Unto quindi si applica meglio alla società moderna.

Della nobiltà della caduta (dei capelli).

"Il Re, quindi, a venticinque anni portava i capelli lunghi, sparsi sulle spalle e sulla schiena, com qualche ciocca a tirabaci sulla fronte: ed è in questo modo che Le Brun l'ha dipinto, come un re galante, che il Bernini l'ha scolpito, come un eroe, e sempre in questo modo che Nocret o Werner l'hanno rappresentato, come l'Apollo: perché un Dio può anche essere nudo, ma non avere i capelli corti. Così nel quadro Luigi XIV scopre il petto ma non il cranio. Orbene, il Re fu colpito, poco dopo che Le Brun l'ebbe dipinto, da una calvizie precoce. Suo nonno Enrico si sarebbe adattato. Il suo avo Francesco avrebbe potuto inaugurare per due o tre secoli un'Europa rasata. Luigi scelse la parrucca. Che l'avrebbe avuta vinta su tutte le capigliature." Questo è possibile leggere nel bel libro di Philippe Beaussant "Anche il Re Sole sorge al mattino" (Fazi).
E ciò letto, è possibile intendere quale fraternità, quantomeno tricologia, possa ancora a distanza di secoli legare Sovrano e Cavaliere nella dura tenzone contro l'avanzata delle calvizie.
non avendo Sua Maestà a disposizione copertine di Panorama, doveva necessariamente ricorrere alla bravura dei mastri parrucchieri di corte, e del resto Berlusconi non può certo entrare a Palazzo Chigi con in testa un trionfo di boccoli e cipria. Dunque una comune pena che attraversa i secoli e travalica le Alpi. La guerra ai capelli (intesa come all'assenza degli stessi) unisce simbolicamente il Donato e l'Unto: ove Luigi innalzò la parrucca, Silvio impiantò nuovo pelo; dove uno si protesse con la regalità, l'altro scelse la bandana. La sommità della testa appare il punto più vulnerabile, e insieme il più considerato, dai due uomini di Stato.
Se le Chevalier ha avuto modo di lodare il pettinino a maglie fitte, che meglio valorizza la deprecabile penuria, le Roi fece infinitamente meglio. "La parrucca si vede, deve vedersi. Cessa di essere un ripiego, un riempitivo, diviene un ornamento. Si afferma come parrucca e non si dissimula più come capelli finti. Poiché Luigi XIV era il Re Sole avrebbe fatto della parrucca il segno della sua grandezza e il suo lascito al mondo(...) Di un trucco, Luigi faceva una verità, e ogni uomo degno di questo nome avrebbe portato ormai sulla testa un giardino all'italiana, invece di un semplice orto" (Beaussant "Anche il Re Sole sorge al mattino").
Così dovrebbe funzionare un maggioritario ben fatto. Nell'indeterminatezza attuale, Silvio invece non riuscirebbe ad imporre un tirabaci nemmeno al ministro Ronchi: identica volontà tricologica, condizioni politiche troppo diverse.

Della danza, della musica e di altre sciocchezze

Protettori entrambi delle arti - da quella di La Fontaine a quella delle Veline, dal canto alla danza - tanto Luigi quanto Silvio hanno dato prova di eccellenza, pur nelle mutate situazioni. Le gazzette reali del XVII secolo sapevano certamente apprezzare e raffigurare gli sforzi reali. Ecco il resoconto di un ballo del sovrano: "Senza pari eleganza! Gloriosissima andatura! Quale mai del ciel creatura si vedrà a sua somiglianza?"
Per Silvio, nelle vesti di appassionata vocazione di stornellatore apicelliano,le cronache sono state incomprensibilmente più caute pur vantando egli un intero cd. Anzi ecco l'Espresso che lo visualizza in giacca bianca "come Tony Manero" in compagnia di Simon Le Bon e bone varie mentre al microfono attacca con "L'ultimo amore", subito dopo si catena in pista al grido di "Gioca juer".
Ma come Silvio si traveste da John Travolta, Sua Maestà si abbigliava come Giove, come Alessandro, come Apollo, "quando danza Apollo è se stesso, ed è se stesso che espone agli sguardi di chi assiste" - comunque sempre lucente Sole, "con jetès-batùs, tombès-batùs, scivolate a capo, passi in controtempo" - una faticaccia che si fa prima a far ministro la Brambilla.
In soli nove anni dal 1661 al 1670, si registra nel volume di Beaussant, "il Re Sole danza una dozzina di balletti, in tutto ventinove ruoli". Parimenti, quando canta con Apicella, la stessa identica cosa si può dire di Silvio,"è se stesso ed è se stesso che espone agli sguardi di chi assiste". Chi assiste è la corte - che sempre una corte accompagnò il real ballerino nei suoi balli non meno del presidente canterino nei suoi acuti.
Nessuno dei due nega protezione all'arte e agli artisti.
Stoico il tentativo del Signor Presidente di portarne illustri rappresentanti nelle istituzioni, storica la battuta con cui Sua Maestà avvertì Molìere dei malumori dei bigotti per le sue commedie: "Non irritate i devoti, è gente implacabile".

Della presa del potere e della salita sul predellino

Il 10 Marzo 1661 Luigi XVI che è già re da quando aveva cinque anni - ora ne ha ventidue ed ha ancora i capelli - prende il potere. Letteralmente, come racconta un vecchio bellissimo film televisivo di Roberto Rossellini: appunto "La presa del potere da parte di Luigi XVI". Quasi un colpo di Stato. A favorirlo la morte del cardinale Mazzarino, potentissimo primo ministro.
Scriverà in seguito nelle sue memeorie: "La morte del cardinale mi obbligò a non differire più quello che desideravo e insieme temevo da tanto tempo: la presa del potere". Per lo storico Pierre Goubetr di questo si trattò: "tutto rimase come prima, non cambiò nulla, tranne l'uomo che era al comando".
Il cadavere del cardinale primo ministro è ancora caldo. I potenti del regno -cancelliere, ministri, nobili- si affollano attorno al giovane re cercando di sapere chi sarà il successore. "A chi dovremo rivolgerci ora, maestà?" E quello: "A me!"
Li convoca nella camera della regina madre: "Voi mi aiuterete con i vostri consigli, quando ve lo domanderò... Signori vi diffido dal firmare anche un solo salvacondotto o passaporto senza mio ordine; vi ordino di rendere conto ogni giorno a me in persona, e di non favorire nessuno dei vostri incarichi..." E dunque: "Ora voi sapete le mie volontà. Tocca a voi adesso, signori, eseguirle".
Ha scritto Guido Gerosa nel suo "Il Re Sole" (Mondadori): "Diventavano dei sorvegliati speciali dopo aver goduto per anni di un potere e di un'autonomia illimitati".
Silvio III (ma è sempre lo stesso) prese il potere (o almeno ci provò) il 18 Novembre 2007. Ha già settantun anni, è stato già due volte primo ministro, ha già dei nuovi capelli. Più prosaicamente - non disponendo né di un castello né di un cadavere di cardinale né di ministri da intimorire - sale sul predellino di una macchina a piazza San Babila e annuncia che sta per arrivare il terremoto: scioglimento di Forza Italia, un partito nuovo "per tutti quelli che ne vogliono far parte". Perciò: chi c'è c'è.
[...]

Della Corte e dei cortigiani

Dell'inutilità di tante chiacchere e di troppi poteri intorno, le Chevalier non ne è meno convinto di quanto lo fu le Roi. E se Luigi pose a fondamento del suo potere la riduzione della nobiltà a Corte, dei potenti del regno a cortigiani - tutti trasferiti in massa nello splendore abbagliante e inutile di Versailles, costretti a combattersi tra di loro per un sorriso o un posto a tavola accanto al sovrano, oziosi e rammolliti, ridotti a spettatori di un'altra grandezza- Silvio ha sempre avuto ben chiaro (e avendo ben presente il teatrino della politica) che se voleva combinare qualcosa gli seviva un partito di nome ma non di fatto, una classe dirigente delle più varie attitudini e intelligenze, ma sempre con gli occhi puntati sull'Apollo di Arcore.
[...]

Del cardinal Giulio e del cardinal Gianni

A due prelati di gran classe, tanto il Re di Francia quanto il primo Ministro d'Italia, devono le loro fortune. Quello di Luigi era in tonaca reale (anche se poco praticata: "Si dice che il Signor Cardinale voglia diventar Papa e che per questo scopo si farà prete", si ironizzava quando cominciò a circolare la voce che il cardinale Giulio Mazzarino mirasse al papato), e se per lunghi anni cercò di mantenerlo in una sorta di limbo adolescenziale, negli ultimi mesi, prima di morire, fu fondamentale nell'indicare al giovane Re come sopravvivere politicamente e come radicare il suo potere. Gli lasciò persino il suo intero patrimonio, immenso - denari,abbazie, titoli e centinaia e centinaia di capolavori d'arte.
"Era un ministro assi abile e assai accorto che mi amava e che io amavo, e che mi aveva reso grandi servigi ma i cui pensieri e i cui modi erano naturalmente molto differenti dai miei". Parole che al Presidente vanno bene anche per il suo personale cardinale - non in tonaca reale ma di sicuro praticata: Gianni Letta.
I due non potebbero essere più diversi, e pure se Letta fu una volta ripreso in calzoncini mentre lo seguiva in una corsetta salutista, preferirebbe chiaramente trovarsi più in una Casa del Popolo che a Villa Certosa. Ma nonostanti tali differenze non è un caso che Silvio l'abbia così consacrato agli occhi della nazione: "è un dono di Dio all'Italia". Ma principalmente è un dono di Dio al Cavaliere, per non finire ramingo tra Capezone e Quagliariello. Come Mazzarino fu dono di Dio (poi che Dio lo sapesse e tutta un'altra questione) per il suo Re.

Della villa e del castello

Sia Sua Maestà che Sua Eccellenza hanno cercato di creare un luogo di stupori
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