martedì, gennaio 13, 2009

De Obitu Theodosii /2

Dal saggio "IMPERI PARALLELI" (Mondadori, 2005) del giornalista Massimo Franco:

Il primo degli hollywoodiani
La processone delle autorità si snodava, come un elegante e festoso millepiedi, per salutare il nuovo re della repubblica americana. Prima gli ambasciatori accreditati presso il governo degli Stati Uniti; poi, in coda, il mondo variopinto degli amici celebri di Ronald Reagan: quelli che a Hollywoood , nel mondo del cinema, avevano avuto più successo, più gloria, più soldi di lui; almeno fino a quel momento. Spiccavano il volto levigato dal lifting di Frank Sinatra “the Voice”. La silhouette elegante e austera di Gregory Peck , che in gioventù aveva fatto il chierichetto in Austria. E il fascino di una Louren Bacall e di una Katherie Hepburn dalla bellezza un po’ sfiorita, ma sempre luminosa.
Era il gennaio del 1981, e Washington salutava l’inizio dei favolosi anni Ottanta con un presidente che avrebbe fatto dell’ottimismo una sorta di stella polare vincente, degna della stagione selvaggiamente “felice” che sarebbe arrivata. E quegli attori, quei registi quei produttori dell’industria californiana del cinema erano la corte del miracolo conservatore visto dal suo lato più scintillante.
Ma c’era una piccola terra di nessuno, in quella sfilata, che non si riusciva facilmente a catalogare.
A capeggiare la brigata delle troupe cinematografiche si notava un signore col cappotto scuro, sulla sessantina, quasi pelato, l’aria rilassata di chi fa sport e un’eleganza discreta, non proprio hollywoodiana.Certo, non si poteva dire che avesse un volto conosciuto, che fosse una celebrità.
Chiudeva la parata degli ambasciatori, ma si intuiva che non era uno di loro; e in parallelo apriva quello del mondo della celluloide, ma si avvertiva qualcosa che lo rendeva poco omogeneo anche al secondo gruppo.
Era l’ultimo dei diplomatici ed il primo degli amici? Bella domanda. Qualcuno che avesse conosciuto un po’ a fondo i circoli del potere washingtoniano avrebbe detto che in un certo senso era entrambe le cose.
Quel signore dal naso affilato e lo sguardo ironico, sotto indossava il clergyman d’ordinanza, e aveva apprezzato segretamente la bellezza della Hepburn. Si trattava del delegato apostolico presso i vescovi degli Stati Uniti, Pio Laghi. Era anche uno degli interlocutori più assidui di Reagan, come lo sarebbe stato in seguito di George Bush padre, prima vicepresidente e poi successore di Reagan alla Casa Bianca, diventando amico di tutto il clan dei Bush.

Laghi era diplomatico ma non Nunzio Apostolico: per questo sfilava in coda a tutti i Paesi del mondo riconosciuti come tali dal cosiddetto “Impero del Bene”. Non si trovava lì nemmeno in quanto rappresentante della Santa Sede presso i vescovi Usa, ma nella veste di osservatore permanente presso l’Organizzazione degli Stati americani: con un francese, uno spagnolo e un portoghese. La sua presenza e la sua posizione in quel corteo protocollare riflettevano il limbo nel quale rimanevano i rapporti tra Stati Uniti e Città del Vaticano. Ma anche il paradosso creato da un’incomprensione lunga, a quel tempo, ormai quasi due secoli.
Eppure Laghi, nato a Faenza, veterano della diplomazia vaticana e conoscitore profondo degli Stati Uniti, dove era già vissuto dal 1954 al 1961 e dove aveva conosciuto madre Teresa di Calcutta, alla quale avrebbe dedicato un libro, intuiva che qualcosa si stava muovendo. Non tanto in un’opinione pubblica americana ancorata ai vecchi stereotipi, ma in un’Amministrazione che aveva salutato come un miracolo geopolitico se non un regalo della Provvidenza, l’arrivo del papa polacco Karol Wojtyla: un uomo uscito dalla “Chiesa del silenzio” e un nemico acerrimo del comunismo, come tutto l’episcopato polacco.

Mentre Laghi era ancora nunzio in Argentina, chiacchierato e criticato da alcuni perché giocava a tennis con i dittatori sudamericani o comunque si riteneva che avesse troppa consuetudine con loro, ricevette da Roma l’annuncio che era destinato a Washington. Era la fine del 1980. E qualche giorno dopo, con sua grande sorpresa, gli fu anche recapitato un telegramma personale di Reagan, nominato presidente ma non ancora insediato. Con una certa dose di autoironia e understatement poco aderente al clichè che si ha degli americani, il neopresidente gli scriveva: “Pare che entrambi siamo destinati ad un incarico a Washington. Benvenuto”. Non era, non poteva essere considerato soltanto un saluto rituale: conteneva qualcosa di più. Forse una promessa, o una speranza di dialogo più ravvicinato.
3339, Massachusetts Avenue
Nell’Amministrazione repubblicana che prendeva il posto di quella di Jimmy Carter, travolta insieme al partito democratico dalla vicenda degli ostaggi Usa in Iran, si faceva strada la convinzione che i “papisti” fossero non solo interlocutori, ma alleati naturali e indispensabili nella spallata finale all’Unione Sovietica. Ma non solo. Gli uomini di Reagan ritenevano che anche nei rapporti col Centro e col Sud America, segnati dal sandinismo, dalla teologia della liberazione e dagli squadroni della morte paramilitari collegati con la destra, e a volte manovrati in accordo coi servizi segreti Usa, la Chiesa Cattolica era un elemento di equilibrio e di mediazione. Era uno dei casi nei quali riemergeva l’immagine di un Vaticano “emporio dell’intelligence”, ma non europea quanto latino-americana. La Santa Sede sapeva molto, e poteva farlo sapere e soprattutto farlo capire agli americani. Laghi ebbe la fortuna i trovarsi Washington nel momento di massima popolarità e profilo strategico del papa polacco. Si stava giungendo ad uno snodo cruciale. E quel diplomatico che era già stato lì sette anni ci sarebbe rimasto altri nove aveva l’esperienza perfetta per il ruolo assegnatogli e per quello che avrebbe rivestito da li a quattro anni. Missioni a Gerusalemme, Cipro, Nicaragua, India; poi nunzio in Argentina. Era l’uomo giusto al quale Reagan poteva trasmettere l’ammirazione degli americani per Giovanni Paolo II. E saldare un tandem strategico.
[…] E Laghi era lì per facilitare, sviluppare e portare a nuove conseguenze questa comprensione.

Era stato nominato delegato apostolico in Usa il 10 dicembre 1980: il decimo in novant’anni; il primo era stato Satolli. Risiedeva in un palazzo in stile rinascimentale-fiorentino, acquistato negli anni trenta dal primate cattolico americano, l’arcivescovo di Baltimora. Era lì, all’angolo con la 34° strada, che era stato scelto il terreno. Il primo ad abitarci fu il delegato Filippo Cicognani. La sede al 3339 di Massachusetts Avenue, aveva ed ha una caratteristica: si trova proprio di fronte a quella del Naval Observatory, l’Osservatorio navale che funge da residenza del vicepresidente degli Stati Uniti.

“Con Bush padre ci salutavamo dalla finestra” è solito dire Laghi; ma non solo dalla finestra. Con discrezione, e tuttavia con assiduità crescente, i due cominciarono a incontrasi e discutere di quello che poteva accadere. Bush era più accessibile di Reagan , in quella fase. E il dialogo con il presidente e il vicepresidente procedevano paralleli.
Il delegato vedeva in quell’Amministrazione un’America affamata di informazioni; decisa ad usare al massimo il ruolo di cuneo del pontificato nell’impero sovietico; e intenzionata a chiudere i conti con il comunismo e col proprio passato anticattolico, sebbene dal punto di vista culturale restasse una profonda difficoltà a capire cosa fosse esattamente il Vaticano.Non era chiaro nemmeno il mestiere che faceva un personaggio come Laghi.

Molti anni dopo la sua esperienza a Washington, il cardinale ricevette la visita di Bush padre a Roma, nel suo appartamento in Piazza della Città Leonina, in un palazzo in cui abitava anche Joseph Ratzinger.
L’ex presidente osservò i presepi in miniatura di terracotta bianca, posò lo sguardo sul ritratto a olio di Laghi. Scorse la collezione di icone d’argento e un piccolo vassoio di caramelle candite. E poi gli chiese candidamente: “Eminenza, ma esattamente che cosa ha fatto nei suoi quasi dieci anni da noi?”.

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