domenica, maggio 31, 2009

Der Papst "Cciofane" /6

SIVE: Ad Deum qui laetificat juventutem meam


«Ho vissuto gli anni della scuola elementare in un piccolo paese di 400 abitanti, molto lontano dai grandi centri.
Eravamo quindi un po' ingenui e in questo paese c'erano, da una parte, agricoltori molto ricchi e anche altri meno ricchi ma benestanti, e, dall'altra, poveri impiegati, artigiani.
La nostra famiglia poco prima dell'inizio della scuola elementare era arrivata in questo paese da un altro paese, quindi eravamo un po' stranieri per loro, anche il dialetto era diverso. In questa scuola, quindi, si riflettevano situazioni sociali molto diverse. Vi era tuttavia una bella comunione tra di noi. Mi hanno insegnato il loro dialetto, che io non conoscevo ancora. Abbiamo collaborato bene e, devo dire, qualche volta naturalmente anche litigato, ma dopo ci siamo riconciliati e abbiamo dimenticato quanto era avvenuto.

Questo mi sembra importante. Qualche volta nella vita umana sembra inevitabile litigare; ma importante resta, comunque, l'arte di riconciliarsi, il perdono, il ricominciare di nuovo e non lasciare amarezza nell'anima. Con gratitudine mi ricordo di come tutti abbiamo collaborato: uno aiutava l'altro e andavamo insieme sulla nostra strada.
Tutti eravamo cattolici, e questo era naturalmente un grande aiuto. Così abbiamo imparato insieme a conoscere la Bibbia, cominciando dalla creazione fino al sacrificio di Gesù sulla croce, e poi anche gli inizi della Chiesa. Abbiamo imparato insieme il catechismo, abbiamo imparato insieme a pregare, ci siamo insieme preparati per la prima confessione, per la prima comunione: quello fu un giorno splendido. Abbiamo capito che Gesù stesso viene da noi e che Lui non è un Dio lontano: entra nella mia propria vita, nella mia propria anima. E se lo stesso Gesù entra in ognuno di noi, noi siamo fratelli, sorelle, amici e dobbiamo quindi comportarci come tali.

Per noi, questa preparazione sia alla prima confessione come purificazione della nostra coscienza, della nostra vita, e poi anche alla prima comunione come incontro concreto con Gesù che viene da me, che viene da noi tutti, sono stati fattori che hanno contribuito a formare la nostra comunità. Ci hanno aiutato ad andare insieme, a imparare insieme a riconciliarci quando era necessario. Abbiamo fatto anche piccoli spettacoli: è importante anche collaborare, avere attenzione l'uno per l'altro. Poi a otto o nove anni mi sono fatto chierichetto. In quel tempo non c'erano ancora le chierichette, ma le ragazze leggevano meglio di noi. Esse quindi leggevano le letture della liturgia, noi facevamo i chierichetti. In quel tempo erano ancora molti i testi latini da imparare, così ognuno ha avuto la sua parte di fatica da fare. Come ho detto, non eravamo santi: abbiamo avuto i nostri litigi, ma tuttavia c'era una bella comunione, dove le distinzioni tra ricchi e poveri, tra intelligenti e meno intelligenti non contavano. Era la comunione con Gesù nel cammino della fede comune e nella responsabilità comune, nei giochi, nel lavoro comune. Abbiamo trovato la capacità di vivere insieme, di essere amici, e benché dal 1937, cioè da più di settanta anni, non sia più stato in quel paese, siamo restati ancora amici. Quindi abbiamo imparato ad accettarci l'un l'altro, a portare il peso l'uno dell'altro.

Questo mi sembra importante: nonostante le nostre debolezze ci accettiamo e con Gesù Cristo, con la Chiesa troviamo insieme la strada della pace e impariamo a vivere bene.» Benedictus PP XVI

sabato, maggio 30, 2009

CASTRUM DOLORIS, XXIII

O sea: "Que bien parece, Doña Victoria Eugenia y Alfonso XIII"











IL 30 Maggio 1919 Sua Maestà Alfonso XIII di Borbone, pubblicamente, alla presenza di tutte le autorità civili e militari del Regno, recitava la preghiera mercè la quale consacrava solennemente la Spagna al Sacro Cuore di Gesù durante la cerimonia religiosa per inauguarzione del monumento nazionale al Sacro Cuore eretto sulla cima del Cerro de los Angeles, ovvero il "Colle degli Angeli", un promontorio di circa 670 metri sul livello del Mare a 10 Km a sud di Madrid.
Il "Cerro", le cui verdeggianti pendici sono occupate da una pineta; sede dell'antico santuario di Nuestra Señora de los Ángeles, patrona della vicina città (e diocesi) di Getafe; è stato sempre popolarmente considerato il centro geografico della penisola iberica: per così dire, "il cuore" della Spagna e perciò il luogo più adatto per ospitare il monumento al Cuore di Cristo realizzato con una sottoscrizione popolare (quasi ex voto per aver sottratto la cattolicissima Spagna a quella Guerra Mondiale che stava insanguinando il resto d'Europa).

Il monumento votivo, realizzato con grandi massi della calcarea pietra locale, fu eretto dall'architetto Carlos Maura Nadal e dello scultore Aniceto Marinas che idearono una piattaforma su cui si diramava una scalea alla cima del quale due gruppi scultorei rappresentano "L'umanità santificata" ovvero "La Chiesa Triofante" (Santi Canonizzati) e "L'umanità che avanza nel cammino della propria santificazione" (una suora, un giovane, una bambina nell'abito della prima comunione e una coppia di sposi) ovvero "La Chiesa militante". I due gruppi scultorei facevano ala al basamento di 18 metri sulla cui sommità il Cristo -anch'esso in pietra calcarea- alto 9 metri. Sulla cima del basamento, ai piedi della statua, l'iscrizione "Reinaré en España" (ovvero: regnerò in Spagna), con riferimento all'apparizione del 1733 del Sacro Cuore di Gesù in quel di Valladolid al santo gesuita Francisco Bernardo Hoyos che fu il principale propagatore di tal devozione in Ispagna.

Il monumento al Sacro Cuore fu solennemente benedetto dal Nunzio Apostolico Monsignor Francesco Ragonesi e il Sovrano Pontefice Benedetto XV non mancò di inviare un telegramma per manifestare il suo augustissimo compiacimento. Venne celebrata una messa solenne dall'Arcivescovo di Madrid-Alcalà sull'altare posto ai piedi del monumento votivo. Poi in piedi di fronte al Santissimo Sacramento solennemente esposto sull'altare, "El Rey" lesse la preghiera supplicatoria; il Cardinale Victoriano Guisasola y Menéndez, Arcivescovo di Toledo, impartì a Los Reyes e a tutti i presenti la benedizione papale, seguì la processione eucaristica lungo la spianata tra il monumento e l'antico santuario della Virgen de Los Angeles, davanti al quale il cardinale Arcivescovo di Toledo e Primate di Spagna, benedisse col Santissimo Sacramento il Re la regina Victoria Eugenia, le autorità politiche e militari del Regno di Spagna, ed il popolo spagnolo.

Pochi anni dopo, ancora novizia, Santa Maravillas de Jesùs ebbe l'ispirazione di fondare un monastero carmelitano proprio accanto al monumento al Sacro Cuore per ancor meglio impetrare la Misericordia divina su quella Spagna che allo scoppio della guerra civile vedrà nel Sacro Cuore del Cerro de los Angeles una delle vittime eccellenti dell'odio ideologico e della pesecuzione religiosa.


"Fucilato" (e raso al suolo) dai comunisti il venerdì 7 agosto del 1936 (era un primo venerdì del mese: giorno consacrato al culto del Sacro Cuore) sotto la dittatura franchista il monumento verrà eretto nuovamente, e di dimensioni maggiori: la statua del Sacro Cuore (realizzata sempre dallo scultore Aniceto Marinas) è alta undici metri e mezzo, il basamneto 28 metri. All'interno dell'ampia paittaforma quadrangolare che sostiene il monumento (non prevista nel progetto originario) è stata realizzata una cripta-basilica.

Oltre alle nuove raffiguarzioni della Chiesa trionfante e militante, alla base del mastodontico piedistallo sono stati aggiunti i gruppi scultorei della "Spagna difensora della Fede cattolica" e "la Spagna Missionaria". Tra i missionari illustri Isabella la Cattolica (che conquistando il regno di Granada fu evangelizzatrice dei musulmani) e Hernàn Cortès ("evangelizzatore" del Messico): poichè nella sua infinita misericordia Nostro Signore concede ad ognuno di partecipare, ciascuno con tutti i propri limiti, alla dilatazione del Regno spirituale di Cristo; perfino Re "Alfonsito" di Borbon.
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Il testo della consacrazione al Sacro Cuore di Gesù pronunziato da Sua Maestà El Rey :


"Corazón de Jesús Sacramentado, Corazón del Dios Hombre, Redentor del Mundo, Rey de Reyes y Señor de los que dominan:
España, pueblo de tu herencia y de tus predilecciones, se postra hoy reverente ante este trono de tus bondades que para Tí se alza en el centro de la península. Todas las razas que la habitan, todas las regiones que la integran, han constituido en la sucesión de los siglos y a través de comunes azares y mutuas lealtades esta gran patria española, fuerte y constante en el amor a la Religión y en su adhesión a la Monarquía.
Sintiendo la tradición católica de la realeza española y continuando gozosos la historia de su fe y de su devoción a Vuestra Divina Persona, confesamos que Vos vinisteis a la tierra a establecer el reino de Dios en la paz de las almas, redimidas por Vuestra Sangre y en la dicha de los pueblos que se rijan por vuestra santa Ley; reconocemos que tenéis por blasón de Vuestra Divinidad conceder participación de Vuestro Poder a los Príncipes de la tierra y que de Vos reciben eficacia y sanción todas las leyes justas, en cuyo cumplimiento estriba el imperio del orden y de la paz.
Vos sois el camino seguro que conduce a la posesión de la vida eterna: luz inextinguible que alumbra los entendimientos para que conozcan la verdad y principio propulsor de toda vida y de todo legítimo progreso social, afianzándose en Vos y en el poderío y suavidad de vuestra gracia, todas las virtudes y heroísmos que elevan y hermosean el alma.
Venga, pues, a nosotros tu Santísimo Reino, que es Reino de justicia y de amor. Reinad en los corazones de los hombres, en el seno de los hogares, en la inteligencia de los sabios, en las aulas de la Ciencia y de las Letras, y en nuestras leyes e instituciones patrias.
Gracias, Señor, por habernos librado misericordiosamente de la común desgracia de la guerra, que tantos pueblos ha desangrado; continuad con nosotros la obra de vuestra amorosa providencia.
Desde estas alturas que para Vos hemos escogido, como símbolo del deseo que nos anima de que presidáis todas nuestras empresas, bendecid a los pobres, a los obreros, a los proletarios todos para que en la pacifica armonía de todas las clases sociales, encuentren justicia y caridad que haga más suave su vida, mas llevadero su trabajo.
Bendecid al Ejército y a la Marina, brazos armados de la Patria, para que en la lealtad de su disciplina y en el valor de sus armas sean siempre salvaguardia de la Nación y defensa del Derecho. Bendecidnos a todos los que aquí reunidos en la cordialidad de unos mismos santos amores de la Religión y de la Patria, queremos consagraros nuestra vida, pidiéndoos como premio de ella el morir en la seguridad de Vuestro Amor y en el regalado seno de Vuestro Corazón Adorable. Así sea.
"

venerdì, maggio 29, 2009

Gaudet Mater Ecclesia! [4]

«“Popolo di Dio” significa quindi “tutti”: dal Papa fino all'ultimo bambino battezzato. ... Ciò esige un cambiamento di mentalità riguardante particolarmente i laici, passando dal considerarli "collaboratori" del clero a riconoscerli realmente "corresponsabili" dell'essere e dell'agire della Chiesa, favorendo il consolidarsi di un laicato maturo ed impegnato». Benedictus PP XVI

OVVERO: Glosse all'ecclesiologia conciliare di Neophytos Edelby (1920-1995) vescovo cattolico arabo di rito bizantino:


Chiesa del Clero?
Mi sembra che al Vaticano II, durante i dibattiti sulla Chiesa, i padri conciliari elaborarono una concezione che non riuscivo ad assimilare.
Mi sembrava che, per una larga frazione dell'opinione pubblica cattolica, la Chiesa sia fondamentalmente costituita dal clero.
I laici appartengono alla Chiesa, senza dubbio, ma non sono la Chiesa, o almeno ci si comporta praticamente come se essi non fossero la Chiesa. Essi vengono impiegati dalla Chiesa, obbediscono alla "Chiesa", collaborano con la "Chiesa" (cioè con il clero).
Quando si dice a qualcuno: la Chiesa ha detto, questi pensa invincibilmente: il clero ha detto. Si direbbe che i cattolici stessi, i fedeli (vengono chiamati laici, ma detesto questa parola), i cristiani che non sono chierici, abbiano accettato questa condizione.

Permettetemi un ricordo personale, una testimonianza presa dal vero, che vi consentirà di vedere in che modo i nostri fedeli reagiscono a causa del fatto che che si inculcato loro troppo sovente la concezione secondo la quale la Chiesa si identifica con il clero. Nel mese di maggio del 1963, in Francia, prendevo parte ad una quindicina missionaria. Il vescovo della città, volendo farmi cosa gradita, aveva invitato a colazione il decano della facoltà di scienze. Egli mi aveva avvisato che questi era un buon cattolico, ma un po' timido, soprattutto, di tendenze di sinistra. «Ciò accresce il mio piacere» gli risposi.
Durante la colazione, questo giovane decano (non aveva che trentaquattro anni, ma era un brillante specialista in elettronica) disse al vescovo: «Monsignore, la Chiesa si è occupata di tutto: d'arte, di letteratura, di diritto, di musica e che so d'altro ancora, ma essa non si occupa sufficientemente di scienza».
Allora, facendo l'ingenuo, ho detto come se fossi un estraneo:«Signor Decano, perdonatemi, siete cattolico?»
«Si» mi rispose.
«Vi occupate di scienza?» ripresi.
«Non mi occupo d'altro dalla mattina alla sera» mi rispose.
«Allora» dissi io «la Chiesa si occupa di scienza, perché voi e centinaia di migliaia di altri laici si occupano di scienza, di elettronica e che d'altro ancora. Non è necessario che vi siano dei sacerdoti-astronauti, dei sacerdoti-violinisti, dei sacerdoti-piloti ecc. Noi sacerdoti facciamo semplicemente il nostro mestiere, siamo dei sacerdoti. Noi cerchiamo di darvi il buon esempio, di predicarvi come meglio possiamo la parola di Dio, ma non è necessario che facciamo di tutto nel mondo, non è neppure un bene che il clero faccia di tutto nel mondo.»

Mi sono ricordato di una tendenza che ebbe corso sotto il pontificato di Pio X: Omnia instaurare in Christo. La formula è magnifica: rinnovare tutto in Cristo, ma ciò non significa che siano i sacerdoti a dover far tutto.
Qualche volta si sentiva chiedere dove sono i nostri sacerdoti-astronomi, i nostri sacerdoti-chimici, i nostri sacerdoti-medici. In una certa epoca ogni ordine religioso compiva grandi sforzi per avere degli astronomi, dei medici, dei radiologi, ecc. Di fatto, tutto questo non è per nulla necessario! Siamo noi tutti insieme che costituiamo la Chiesa: tanto i laici che i sacerdoti; vorrei dire perfino: un poco di più i laici, almeno quantitativamente e spero anche qualitativamente, giacché nella Chiesa il clero non rappresenta che un'infima minoranza.

Senza dubbio l'Oriente ortodosso, l'Oriente tradizionale, ha forse deviato, qualche volta, nell'altro senso, con l'accordare ai semplici fedeli un ruolo che nella Chiesa non poteva spettare loro, cioè il ruolo dei capi. No, nella Chiesa, il comandare, il reggere, non spettano ai semplici fedeli. Il ruolo dei capi nella Chiesa spetta agli apostoli e ai loro successori. Ma non è perché qualche volta l'ortodossia ha esagerato il ruolo dei laici che noi cattolici non dovremmo correggere il nostro punto di vista. Ed ecco la prima reazione: mi sembra sinceramente che la Chiesa sia ancora, nelle nostre concezioni e soprattutto nella nostra pratica, troppo identificata con il clero."

[AA.VV. "La fine della Chiesa come società perfetta"; 1968; Arnoldo Mondadori Editore]

mercoledì, maggio 27, 2009

Fra le lenzuola [2]


Sive: Unicuque Suum

Il giurista Francesco Margiotta Broglia, tra i massimi esperti dei rapporti giuridico-diplomatici tra Santa Sede e Stato italiano, perito che lavorò ottimamente alla revisione del Concordato siglato da "Benito" Craxi nel 1984, è il "Presidente della Commissione consultiva per la libertà religiosa presso il Governo Italiano". Dopo attento e scrupoloso studio- chi gli avrà mai commissionato di districare il sacro busillis: Dan Brown?- cotanto Giureconsulto è giunto alla conclusione che "L’atto di donazione di Umberto di Savoia al Papa è giuridicamente nullo. La Sacra Sindone appartiene ancora allo Stato Italiano". Poichè: "In base al terzo comma della tredicesima disposizione transitoria, i beni esistenti nel territorio nazionale degli ex Re di Casa Savoia, delle loro consorti e dei loro discendenti maschi sono avocati allo Stato."
Ergo, per Margiotta Broglia: "I trasferimenti e le costituzioni di diritti reali sui beni che siano avvenuti dopo il 2 giugno 1946 sono nulli. Ed è appunto il caso di quello che molti considerano il lenzuolo funerario di Cristo."
Epperò nei minuziosi elenchi dei beni savoiardi stilati proprio in obbedienza della tredicesima disposizione della Costituzione, la Sacra Sindone non compare tra i beni della Real Casa incamerati dalla Repubblica. Una colpevole dimenticanza cui il coscienzioso uomo di legge vuol rimediare con sessantatre anni di ritardo?
Margiotta Broglia, se proprio doveva, avrebbe dovuto sollevare la questione in occasione della revisione del Concordato di cui egli si è occuopato proprio all'epoca della morte di Umberto II e della rivelazione delle sue volontà testamentarie.

L'ultimo Re d'Italia morto nel 1983 con "sovrana" disposizione testamentaria lasciava la proprietà perpetua della Santa Sindone di Torino alla Santa Sede. Il Sacro lenzuolo era stato acquistato nel 1453 dal duca Ludovico di Savoia, marito di Anna di Lusignano, con tanto di regolare atto notarile, e d'allora in poi era stata considerata il "palladio" della dinastia sabauda tant'è vero che le ostensioni del Sacro Telo avvenivano sempre in occasione di solenni accadimenti dinastici.
Venticinque anni dopo che il capo di Casa Savoia ha ceduto il diritto di proprietà della sacra Sindone al Romano Pontefice e che l'Arcivescovo di Torino ne è divenuto il custode a nome della Santa Sede; il cardinale Severino Poletto, al presente custode pontificio del sacro lino, è stato raggiunto dalla bizzarra novella mentre si trovava in Vaticano per partecipare ai lavori della LIX assemblea generale della Conferenza Episcopale pellegrinante in Italia.
Il Porporato subalpino ha manifestato tutto il proprio stupore per le quanto meno tardive rivendicazioni, poiché: "Lo Stato italiano non ha mai contestato il lascito di Umberto II di Savoia a papa Wojtyla". L'Eminentissimo comunque assicura che, non appena rientrerà a Torino, incontrerà a quattrocchi il canonista Rinaldo Bertolino, ex rettore dell’università di Torino e tra i massimi esperti del diritto costituzionale della Chiesa, per studiare il piano di battaglia.

Il Severino arcivescovo, dopo averne subitamente richiesto lumi al cardinale Attilio Nicora Presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica, s'è mostrato comunque pienamente fiducioso dei sacri diritti della Sede Apostolica: "Il possesso della Sindone da parte dei Savoia era personale, una testimonianza di culto, quindi è come se avessero regalato a Giovanni Paolo II un altare, qualcosa di sacro, non un bene materiale. Non credo sussistessero ragioni di diritto civile che impedissero ad Umberto di lasciare in eredità al Papa la Sindone.
Ho verificato con il cardinale Nicora e mi è stato garantito che non se ne è parlato nei negoziati per la revisione del Concordato. Ritengo che la Sindone appartenesse ai Savoia come patrimonio privato e che non potesse essere incamerato dallo Stato al momento del passaggio dalla monarchia alla repubblica. E, infatti, nessun governo ha mai messo in discussione il lascito a Giovanni Paolo II"*
.

E comunque sia, bisognerà pur ricordare a Margiotta Broglia che dopo venticinque anni di possesso della Sindone , davanti alla giurisprudenza civile della Repubblica italiana, la Santa Sede potrà sempre invocarne l'uso capione.

Sive ergo Græci… V

Ovvero: glosse post-conciliari di Monsignor Neophytos Edelby (1920-1995) vescovo cattolico arabo di rito bizantino:


"...Io sono melkita.
Per coloro che lo ignorano, questo termine designa un fedele, sia ortodosso sia cattolico - giacchè ne esistono due rami- della grande Chiesa bizantina nei paesi arabi, dove essa è rappresentata dai tre patriarcati di Alessandria, Antiochia e Gerusalemme. Essa è dunque un ramo della Chiesa bizantina nei paesi arabi.
Inutile aggiungere che sono inoltre cattolico, ma è forse bene ricordarlo, dal momento che talvolta la nostra fede è stata guardata con sospetto. Questo naturalmente ci reca una grande sofferenza [...]
Evitando dunque la terminologia tecnica, dirò semplicemente che sono un orientale, convinto della necessità dell'unione con la Santa sede romana. Come tutti i cattolici, auspico che questa unione avvenga alla luce del Vangelo e che nella Chiesa cattolica tutto venga ben disposto e ben riformato alla luce del Vangelo e della tradizione patristica. Vi è molto da fare ma, per quanto riguarda l'essenziale, dobbiamo ammettere che non è possibile discostarci dal centro dell'unità quali che siano i difetti degli uomini, gli abusi, gli errori passati, presenti e futuri. Cristo ha voluto per la sua Chiesa un centro di unità; questo centro è la Sede romana.
[...]

Diaconi ammogliati

Noi siamo rimasti non già offesi - perché sono dei fratelli che parlano e ben sappiamo quanto ci amano- ma piuttosto stupiti da tutti gli attacchi mossi contro un eventuale accesso al diaconato di uomini sposati. Voglio fare l'ingenuo: credo che non si sarebbe neppure dovuto parlare, al Concilio. Questo problema esiste già in seno alla Chiesa cattolica, e cioè da noi! E noi apparteniamo alla Chiesa cattolica!
Forse non è il caso di porre la questione: può la Chiesa cattolica restaurare il diaconato? Esso è restaurato. Se, in una delle Chiese particolari, esso non lo è, libera essa di farlo.
Si da il caso che questa Chiesa particolare, sia di fatto grandissima e conti dei milioni di fedeli, ma è pur sempre una Chiesa particolare, tanto particolare quanto la Chiesa melkita, per esempio, che ha la pretesa di rappresentare una Chiesa nella Chiesa cattolica.
Dunque nella Chiesa cattolica il diaconato permanente esisteva già. In un ramo della Chiesa cattolica, cioè nella Chiesa latina, si esitava a restaurare il diaconato permanente. È tutto.

Celibato e Sacerdozio

In seguito ci si è voluti glorificare molto per la legge del celibato nella Chiesa latina e non si sono dimenticate le forme; è vero che si è detto che non si voleva offendere in nulla i nostri fratelli orientali ma per il fatto che vi glorificate per una cosa che a buon diritto io non ho mi offendete, oppure mi considerate come chi ha un clero di seconda serie, un clero cui bisogna fare concessioni particolari in quanto esso annovera degli uomini semplici, non sufficentemente evoluti. Non credo sia il caso di arrivare fino a qui.
Qual è l'atteggiamento di noi orientali?
Noi crediamo che la vocazione al diaconato - per non parlare della vocazione al sacerdozio, ma il ragionamento è identico - sia distinta dalla vocazione al celibato. Qualcuno può essere chiamato a offrire a Dio la propria castità, la propria verginità, vocazione speciale al diaconato, e viceversa.
Dunque se qualcuno sente l'appello di Dio e del proprio vescovo a servire la Chiesa come diacono, senza sentire nello stesso tempo l'appello al celibato, egli deve poter avere accesso agli ordini.
Si è detto: «Ma questo diminuirà le vocazioni, sarà come un invito ad aprire l'accesso al sacerdozio per gli uomini sposati, ecc». Non lo credo. E ritengo di potervi dare un esempio vivente.
Da noi, tutti possono essere sposati e accedere non solamente al diaconato ma anche al sacerdozio. E noi apparteniamo alla Chiesa cattolica!
Tuttavia l'80 per cento dei candidati al sacerdozio preferisce rimanere celibe, per motivi personali; grazia di Dio, appello intimo, desiderio di offrire a Dio ciò che vi è di più caro nella vita di un uomo. Non è perché ci sono dei sacerdoti sposati che non vi sono dei sacerdoti celibi. Al contrario, abbiano constatato che il numero dei sacerdoti celibi è in aumento. E questo è un esempio vivente.
Permettetemi ora di prendere un esempio tratto da voi: voi avete degli ordini religiosi e avete il clero secolare. Se non vado errato, nel clero secolare vi è un po' più di libertà; si può disporre un poco del proprio denaro, si può uscire senza dover continuamente dover chiedere dei permessi, ecc. Questa libertà, impedisce forse ai giovani di entrare negli ordini religiosi? Migliaia di giovani che debbono scegliere una vocazione e vedono benissimo che nel clero secolare possono godere di maggiore libertà, mentre negli ordini religiosi ne avrebbero meno, preferiscono non di meno la vita religiosa, dunque una minore libertà. È un appello di Dio.
Anche in America, dove la vita clericale gode di certe comodità, di una certa facilità, abbiamo constatato che le vocazioni di trappisti non facevano che aumentare. Come vi spiegate ciò?
Non è in quanto vi è data facilità che i cristiani rinunciano alle difficoltà. Credo anche che Dio faccia sentire più intensamente il suo appello a delle anime generose, le quali offriranno il loro denaro, l'amore umano, la loro libertà, tuttavia non dobbiamo temere, rispettando delle posizioni stabili e delle istituzioni che hanno fatto la loro prova in seno alla Chiesa, di veder diminuire nel clero la generosità. Non di meno il Concilio può avere motivi concreti per non ammettere il matrimonio dei sacerdoti.
Per amore di verità e per rispetto verso gli altri dirò: il matrimonio dei preti è sempre stato in vigore nella Chiesa cattolica.
A questa regola generale fa eccezione la Chiesa latina, e ciò per delle ragioni che le sono proprie. ma non capovolgiamo i dati.
Siamo noi ad avere la situazione normale ed è l'altra parte a essere eccezione.

Ritorno alle origini

Ho preso la parola durante la prima sessione [del Cocilio Vaticano II, ndr] , allorché si è trattato della comunione sotto le due specie, o della concelebrazione. Ho preso la parola per dire all'incirca questo: «Monsignori, comunicare sotto le due specie costituisce la cosa normale: è in questo modo che Cristo ha fatto. Non si può dire che ciò che ha fatto Cristo sia un'eccezione!».
Ciò che Cristo ha fatto è la cosa normale. Ora, se avete dei motivi per non comunicare sotto le due specie, siamo pronti a comprenderli, però non dite che noi seguiamo l'eccezione, e che voi seguite la regola.
Credo che nella Chiesa cattolica noi siamo stati presi in un turbine tale, in una tale evoluzione della scolastica e del diritto canonico, che abbiamo perduto di vista le istituzioni originali e autentiche della cristianità. Non ho alcuna obiezione a che venga interdetta la comunione sotto le due specie, quali che siano le ragioni addotte dai padri conciliari, valide o meno. Dal momento che Cristo si trova sotto le due specie, non vi è qui alcuna difficoltà: la Chiesa orientale stessa qualche volta somministra la comunione sotto una sola specie, a esempio quando si reca il Santo Sacramento ai malati oppure nelle carceri, come lo si faceva soprattutto nei primi secoli.
Anche oggi, quando somministriamo la Santa Eucarestia ai bambini neobattezzati, mettiamo loro una goccia di sangue [sic!] nella bocca, dato che essi non potrebbero inghiottire il pane. Somministriamo dunque loro la comunione per mezzo del solo Preziosissimo Sangue. Ma non capovolgiamo le cose, non facciamo della pratica occidentale una cosa normale."

[AA.VV. "La fine della Chiesa come società perfetta"; Arnoldo Mondadori Editore, 1968]

lunedì, maggio 25, 2009

Breve ai Principi, VI

Sive: Regimini militantis Ecclesiae

"Il consenso, francamente non cercato, che una serie di iniziative caritative adottate nell’ultimo periodo avrebbe procurato alla Chiesa, ha indotto taluno a chiedersi se non sia opportuno concentrarci sul terreno della carità, dove s’incontrano facili consensi, piuttosto che in quello assai più contrastato della bioetica. Ancora una volta veniva con ciò posto l’antico dilemma tra lo smalto dell’amore tradotto in opere e l’opacità che deriverebbe dall’affermazione di certi principi dottrinali.

All’obiezione, riproposta oggi in termini cortesi, piacerebbe rispondere rilevando come il punto germinale di entrambe queste tensioni ecclesiali – quella della carità e quella della verità sull’uomo – sia in realtà lo stesso, ossia l’esempio di Gesù, anzi la sua stessa persona, il suo essere buon samaritano della storia e per ciò stesso rivelatore della cifra inconfondibile di ogni esistenza umana. A ben guardare, la vicenda dell’umanità rivela come la persistenza di un amore effettivamente altruista sia in realtà condizionata dall’annuncio della misura intera dell’umano. Fraintendimenti e deviazioni restano incombenti, se non si è costantemente richiamati al valore incomparabile della dignità umana, che è minacciata dalla miseria e dalla povertà almeno quanto è minacciata dal disconoscimento del valore di ogni istante e di ogni condizione della vita.
Avere a cuore i temi della bioetica è un modo, non l’ultimo, per avere a cuore l’uguaglianza tra tutti gli esseri umani. Non si può assolutizzare una situazione di povertà a discapito delle altre; ma non si può nemmeno distinguere tra vita degna e vita non degna.
Non c’è contraddizione tra mettersi il grembiule per servire le situazioni più esposte alla povertà e rivolgere ai Responsabili della democrazia un rispettoso invito affinché in materia di fine vita non si autorizzi la privazione dell’acqua e del nutrimento vitale a chi è in stato vegetativo.
È una questione di coerenza.
Rispetto alle diverse stazioni della «via crucis» che l’uomo di oggi affronta, la Chiesa non fa selezioni. La sua iniziativa però non ha mai come scopo una qualche egemonia, non usa l’ideale della fede in vista di un potere. Le interessa piuttosto ampliare i punti di incontro perché la razionalità sottesa al disegno divino sulla vita umana sia universalmente riconosciuta nel vissuto concreto di ogni esistenza e per una società veramente umana."
[...]
"Se accettassimo l’accennata idea di un cattolicesimo inteso come religione civile, o come «agenzia umanitaria», e se completassimo tale visione con l’idea di una fede nuda, scevra da qualunque implicazione antropologica, allora davvero priveremmo la comunità umana di un apporto fondamentale e originale in ordine alla edificazione della stessa città dell’uomo. Saremmo più poveri noi e sarebbe più povera la società. Ma soprattutto tradiremmo la consegna del Signore Gesù che è passato per le strade della Palestina «beneficando e sanando» i bisognosi (cfr At 10,38), come dicendo anche: «Sta scritto: “Non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4).
Per niente di meno la Chiesa è nel mondo, ossia per evangelizzare, il che è «non un aspetto soltanto ma tutta la missione della Chiesa» stessa, il «migliore e più importante servizio che […] può rendere al mondo» (CEI, L’evangelizzazione del mondo contemporaneo, 28 febbraio 1974, nn. 28 e 54). Il destino della Chiesa è di «portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità e, col suo influsso, trasformare dal di dentro […]» fino a «raggiungere e quasi sconvolgere mediante la forza del Vangelo i criteri di giudizio, i valori determinanti, i punti di interesse, le linee di pensiero, le fonti ispiratrici e i modelli di vita dell’umanità, che sono in contrasto con la Parola di Dio e col disegno della salvezza» (Paolo VI, Evangelii Nuntiandi, 8 dicembre 1975, nn. 18-19).

Nella tendenza a ridurre il compito ecclesiale, e considerare le funzioni sociali come più rilevanti di quelle religiose, è difficile non vedere in azione una sorta di secolarismo edulcorato, ma non per questo forse meno subdolo, che – foss’anche senza volerlo – da una parte lusinga i cattolici e dall’altra li emargina. Alla base di una certa concezione della laicità, annotava tempo addietro Benedetto XVI, «c’è una visione a-religiosa della vita, del pensiero e della morale», che sostenendo «in particolare la marginalizzazione del cristianesimo, mina le basi stesse della convivenza umana» (Discorso al Congresso dei Giuristi cattolici italiani, 9 dicembre 2006). È un fenomeno che non lascia del tutto immuni le comunità cristiane. Fa leva infatti su un certo spiritualismo unilaterale, che può cedere facilmente il passo ad un’atrofia ecclesiale e a un vuoto del cuore.

C’è la preoccupazione che, alla base di simili posizioni un po’ disincarnate, s’annidi una cultura neo-illuministica per la quale Dio in realtà c’entra poco – forse nulla – con la vita pubblica: lo si lascia al massimo sopravvivere nella dimensione privata ed intima delle persone. Ma il vangelo annuncia che Gesù è Dio fatto uomo, è pertinente alla storia e interessato al mondo."
Dominus Angelus S.R.E. Cardinalis Bagnasco
(Prolusione dei lavori della LIX assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana; Roma Lunedì 25 Maggio 2009)

domenica, maggio 24, 2009

Ecclesia Dei afflicta, III

Ovvero: Apli stralci dalla Lettera Enciclica TRADITI HUMILITATI nel cento ottantesimo anniversario della sua promulgazione:


Accingendoci ad andare in questo giorno alla Basilica Lateranense, secondo l’usanza introdotta dai Nostri Predecessori, per prendere possesso del Pontificato concesso alla Nostra umiltà, allarghiamo con gioia il Nostro cuore su di voi, Venerabili Fratelli, che a Noi foste assegnati, come coadiutori nell’adempimento di tanto grande incarico, da Colui che possiede ogni grado di dignità e domina ogni vicenda temporale.
Non solo Ci riesce dolce e gradito esprimervi i Nostri intimi sentimenti di benevolenza, ma soprattutto, per il sommo bene della vita cristiana, Ci giova entrare in comunione spirituale con voi, e insieme conoscere quali maggiori vantaggi, giorno per giorno, si possano procurare alla Chiesa. È questo un impegno del Nostro ministero, a Noi affidato nella persona di San Pietro per divino incarico dello stesso Fondatore della Chiesa; per esso, a Noi compete pascere, guidare, governare non solamente gli agnelli, ossia il popolo cristiano, ma anche le pecore, ossia i Vescovi."
[...]
Voi sapete in che modo uomini scellerati abbiano alzato insegne di guerra contro la Religione, ricorrendo alla filosofia, di cui si proclamano dottori, e a fatui sofismi tratti da idee mondane.
Questa Romana Santa Sede del beatissimo Pietro, su cui Cristo pose le fondamenta della sua Chiesa, è soprattutto perseguitata; a poco a poco si spezzano i vincoli della sua unità. Si incrina l’autorità della Chiesa, i sacri ministri vengono isolati e disprezzati. Sono rifiutati i più virtuosi precetti, derisi i riti divini, il culto di Dio è esecrato dal peccatore (Sir 1,32); tutto ciò che riguarda la Religione è considerato come una vecchia favola e come vana superstizione. Diciamo tra le lacrime: "Davvero ruggirono i leoni sopra Israele (Ger 2,25); davvero si riunirono contro Dio e contro Cristo; davvero gli empi hanno gridato: distruggete Gerusalemme, distruggetela sino alle fondamenta" (Sal 137,7).
A questo fine mira la turpe congiura dei sofisti di questo secolo, che non ammettono alcun discrimine tra le diverse professioni di fede; che ritengono sia aperto a tutti il porto dell’eterna salute, qualunque sia la loro confessione religiosa, e che tacciano di fatuità e di stoltezza coloro che abbandonano la religione in cui erano stati educati per abbracciarne un’altra, fosse pure la Religione Cattolica. Certamente è un orrendo prodigio d’empietà attribuire la stessa lode alla verità e all’errore, alla virtù e al vizio, alla onestà e alla turpitudine.

È davvero letale questa forma d’indifferenza religiosa ed è respinta dal lume stesso della ragione naturale, la quale ci avverte chiaramente che tra religioni discordanti se l’una è vera, l’altra è necessariamente falsa, e che non può esistere alcun rapporto tra luce e tenebre. Occorre, Venerabili Fratelli, premunire i popoli contro questi ingannatori, insegnare che la Cattolica è la sola vera religione, secondo le parole dell’Apostolo: "Un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo" (Ef 4,5). Perciò sarà un profano, come diceva Girolamo , colui che mangerà l’agnello fuori da questa casa, e perirà colui che durante il diluvio non si rifugerà nell’arca di Noè. E infatti, oltre il nome di Gesù, nessun altro nome è concesso agli uomini che possa salvarli (At 4,12); chi avrà creduto sarà salvo, chi non avrà creduto sarà condannato (Mc 16,16).

Bisogna inoltre vigilare sulle società di coloro che pubblicano nuove traduzioni della Bibbia in ogni lingua volgare, contro le salutari regole della Chiesa, per cui i testi vengono astutamente travisati in significati aberranti, a seconda degli umori di ciascun traduttore.
[...]
Così, dopo aver evitato lo stravolgimento delle sacre scritture, è vostro dovere, Venerabili Fratelli, indirizzare gli sforzi contro quelle società segrete di uomini faziosi che, nemici di Dio e dei Principi, sono tutti dediti a procurare la rovina della Chiesa, a minare gli Stati, a sovvertire l’ordine universale e, infranto il freno della vera fede, si sono aperti la via ad ogni sorta di scelleratezze. Costoro si sforzano di nascondere nelle tenebre di riti arcani la iniquità dei loro conciliaboli e le decisioni che vi assumono, e per questo motivo hanno suscitato gravi sospetti circa quelle imprese infami che per la tristezza dei tempi, come da spiraglio di un abisso, eruppero a suprema offesa del consorzio religioso e civile.
[...]
Tra tutte queste società segrete, abbiamo deciso di descriverne una in particolare, costituita di recente con lo scopo di corrompere l’animo degli adolescenti che frequentano i ginnasi e i licei. Tale setta si adopera, con scaltrezza, di assumere maestri corrotti che conducano i discepoli sui sentieri di Baal, con dottrine contrarie a Dio, ben sapendo che le menti e i costumi degli alunni sono plasmati dai precetti degli insegnanti.
Siamo perciò indotti a deplorare, gemendo, che la licenza dei giovani sia giunta al punto di rimuovere il timore della Religione, di rifiutar la disciplina dei costumi, di opporsi alla santità della più pura dottrina, di calpestare i diritti del potere religioso e civile, di non vergognarsi più di alcun delitto, di alcun errore, di alcuna audacia, per cui possiamo dire di essi, con Leone Magno: "La loro legge è la menzogna, il demonio la loro religione, la turpitudine il loro culto" .
Allontanate tutti questi mali dalle vostre Diocesi, o Fratelli, e, per quanto vale la vostra autorità e il vostro ascendente, fate in modo che siano incaricati della educazione dei giovani uomini eminenti non solo per la loro cultura letteraria, ma soprattutto per purezza di vita e di pietà.

In tal senso vigilate con la più assidua sollecitudine nei seminari sui quali a voi in modo particolare è stata affidata la sorveglianza dai Padri del Concilio Tridentino . Dai seminari infatti devono provenire coloro che, compiutamente educati alla disciplina cristiana ed ecclesiastica, e ai princìpi della più sana dottrina, dimostreranno tale devozione nell’adempimento del loro divino ministero, tale dottrina nella educazione del popolo, tale severità di costumi che il ministero a loro affidato sarà apprezzato anche dai profani, ed essi potranno, con virtuose parole, rimproverare coloro che si allontanano dal sentiero della giustizia. Noi chiediamo alla vostra sollecitudine, per il bene della Chiesa, di dedicare tutto il vostro zelo nella scelta di coloro ai quali dovrà essere affidata la cura delle anime, in quanto dalla oculata scelta dei parroci deriva soprattutto la salute del popolo, e nulla contribuisce di più alla rovina delle anime quanto essere guidati da coloro che cercano il proprio bene e non quello di Gesù Cristo, o da coloro che, scarsamente imbevuti di vero sapere, si fanno volgere in giro da ogni vento e non sanno condurre il loro gregge ai salutari pascoli che non conoscono o che disprezzano.
[...]
Ma, dati i tempi in cui viviamo, abbiamo deciso di raccomandare vivamente al vostro amore per la salute delle anime, di inculcare nel vostro gregge la venerazione per la santità del matrimonio, in modo che non accada mai nulla che diminuisca la dignità di questo grande sacramento, che offenda la purezza del letto nuziale, che possa insinuare alcun dubbio sulla indissolubilità del vincolo matrimoniale; si potrà raggiungere questo intento se il popolo cristiano sarà pienamente convinto che il matrimonio non è soltanto soggetto alle leggi umane ma anche alla legge divina; che bisogna considerarlo un bene sacro e non solo una realtà terrena, e che perciò è totalmente soggetto alla Chiesa.
Infatti il vincolo coniugale che un tempo non aveva altro scopo che di procreare e di continuare la specie, ora è stato innalzato da Cristo Signore alla dignità di sacramento e arricchito di doni celesti, in quanto la Grazia ne perfeziona la natura; pertanto quel vincolo non è allietato tanto dalla prole, quanto piuttosto dall’educarla a Dio e alla sua divina Religione: così tende ad accrescere il numero degli adoratori del vero Dio. Risulta infatti che questa unione matrimoniale, di cui Dio è autore, raffigura la perpetua e sublime unione di Cristo Signore con la Chiesa, e che questa strettissima unione tra marito e moglie è un sacramento, ossia un sacro simbolo dell’amore immortale di Cristo per la Sua Sposa. In tal modo è necessario istruire i popoli (Legatur catechism. Rom. ad parochos de matrimon.) e spiegare ad essi ciò che è stato sancito e ciò che è stato condannato dalle regole della Chiesa e dai decreti dei Concilii, affinché i popoli operino in modo di conseguire la virtù del sacramento e non osino compiere ciò che la Chiesa ha condannato; e, per quanto possiamo, chiediamo al vostro zelo di prestarvi in questo con tutta la pietà, la dottrina e la diligenza di cui siete dotati.
[...]
Vogliano i potentissimi Principi, con il loro animo nobile ed elevato, favorire lo zelo e gli sforzi Nostri; quel Dio che loro ha donato un cuore docile all’adempimento delle sue prescrizioni, li rassicuri con un supplemento di sacri carismi, in modo che con tenacia compiano quelle azioni che riescano utili e salutari alla Chiesa afflitta da tante calamità.
Questo chiediamo supplichevoli a Maria Santissima Madre di Dio, che sappiamo, Lei sola, aver annientato tutte le eresie e che in questo giorno Noi salutiamo con riconoscenza col titolo di "Ausilio dei cristiani", ricordando il ritorno del Nostro beatissimo Predecessore Pio VII in questa città di Roma, dopo tribolazioni di ogni genere.
[...]
Dato a Roma, presso San Pietro, il 24 maggio 1829,
anno primo del Nostro Pontificato. PIUS PP VIII

Munificentissimus Deus [3]

Vincenzo Scittarelli sindaco di Cassino rendeva omaggio al Benedetto Pontedice a nome della cittadinanza festante raccolta nella "Piazza Miranda" per la celebrazione eucaristica nella Solennità dell'Ascensione "in occasione della Sua graditissima visita" di domenica 24 Maggio 2009. E "in segno di riconoscenza -per essersi degnato di recarsi alla città di San Benedetto- e a futura memoria" dava solenne annunzio che il Consiglio comunale aveva deliberato plebiscitariamente di intitolare al sedici volte Benedetto il medesimo spazio urbano che immantinente si mutava in “Piazza Benedetto XVI”.

venerdì, maggio 22, 2009

Quella Roma onde Cristo è romano

L'Alemanno primo cittadino capitolino si è rallegrato della congiuntura temporale in cui si è svolta la propria visita ufficiale a Gerusalemme dal 17 al 20 maggio 2009, subito dopo la partenza del "Papa tedesco", quasi a rimarcare i felici e fraterni e profondissimi legami che intercorrono tra la Roma sia religiosa sia civile con quella "Città Santa" che, a differenza della città dei papi, non trova la "conciliazione" tra la propria configurazione politica e la propria peculiarissima vocazione religiosa.

Lunedì 18 maggio il Sindaco di Roma Gianni Alemanno al fianco del sindaco di Gerusalemme Nir Barkat ha presenziato alla cerimonia di intitolazione alla Città Eterna della piazza antistante la sinagoga frequentata dagli ebrei di origine italiana, in un quartiere relativamente nuovo della Gerusalemme ebraica. E mentre una cantante israeliana deliziava l'uditorio con l'esecuzione di "Roma Capoccia" (der monno infame), il Sindaco Alemanno, quale pegno di comunione tra "Due città dalla profonda storia e dalle radici culturali e religiose come Roma e Gerusalemme [che] hanno il dovere di consolidare la loro amicizia e diventare esempio e punto di riferimento per tutti i popoli del Mediterraneo nei valori di pace e fratellanza", a nome dell'amministrazione capitolina offriva la marmorea insegna toponomastica eseguita nel medesimo stile delle targhe che si trovano nella città di Roma.
Presenti alla scopertura della targa di "Piazza Roma" l'ambasciatore italiano presso la Repubblica di Israele, il rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni, e il presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici.

A chi gli chiedeva provocatoriamente perchè non provasse imbarazzo nell'osannare il nome di Roma proprio a Gerusalemme dato che negli ultimi duemila anni da parte di Roma (pagana o cristiana) non era mai venuto nulla di buono per gli ebrei, il rabbino Di Segni ha risposto: "Forse perchè arriva sempre il momento in cui le storie si invertono e, come dicono i nostri Maestri: Proprio lei che distrusse, lei ricostruirà."

La gioiosa cerimonia è stata l'occasione propizia in cui il Sindaco di Roma ha potuto annunciare ufficialmente che il precedente 8 maggio 2009, su proposta dell'assessore alla Cultura Umberto Croppi, la Giunta capitolina aveva approvato la delibera per l'intitolazione di una piazza di Roma alla città di Gerusalemme.
Del resto un tributo di omaggio a Gerusalemme trova opportunamente concorde con la Roma civile anche la Roma cattolica poichè come infatti scriveva nel quarto secolo l'Ambrosiater: i romani ricevettero la fede in Gesù Cristo non per mezzo di convertiti provenienti da ambiente di cultura greca bensì "susceperunt fidem Christi, ritu licet iudaico"; ciò si accorda con la tradizione secondo cui il primo a predicare il cristianesimo a Roma fu san Pietro giuntovi direttamente da Gerusalemme intorno all'anno 42 dopo essere fuggito dal carcere in cui l'aveva rinchiuso il Sinedrio.

Il sito prescelto per divenire "Piazza Gerusalemme" però non è affatto una "piazza" ma trattasi del tratto finale di "via Portico d'Ottavia" che sbocca sul "Lungotevere de' Cenci" a sinistra della monumentale sinagoga, all'incrocio con la viuzza di Monte Savello: ovvero il breve e scosceso tratto di strada proprio di fronte alla chiesina di San Gregorio "alla Divina Pietà".
E del resto sfruttando la maggior larghezza di "Via Portico d'Ottavia", rispetto alle altre strette viuzze dell'antico Ghetto di Roma, solo pochi metri prima della neo-piazza gerosolimitana, una fila di grandi vasi per il decoro urbano crea artificiosamente il "Largo 16 ottobre 1943" a perpetua memoria delle vittime del vergognoso rastrellamento nazista.

Fatto salvo l'evidente difficoltà degli amministratori capitolini di modificare la toponomastica secolare di qualche piazza del centro di Roma, l'unica soluzione alla intitolazione alla città di Gerusalemme di una brutto slargo della anonima periferia romana era quello di perseguire nel più puro stile rutelliano e veltroniano: inventarsi vie e piazze delimitando artificialmente angoli del centro storico, fossero pure aiule e piazzole per la fermata dell'autobus.
Difficile per la Giunta capitolina trovare un sito da intitolare a Gerusalemme lontano dall'ombra del Tempio Maggiore e da quel Rione Sant'Angelo in Pescheria che è testimone da oltre duemila anni della presenza ebraica.

L'unica logica alternativa logistica per creare una "Piazza Gerusalemme" sarebbe potuto essere lo slargo davanti all'avveniristico museo dell' Ara Pacis, progettato dall'architetto ebreo Richard Meier: lungo quella specie di bastione ciclopico popolarmente battezzato "Muro del pianto" .

giovedì, maggio 21, 2009

Historia Ecclesiastica Anglorum, XI

"Dicevano che fosse troppo liberale "
Ovvero: Articolo di Inos Biffi sull'Osservatore Romano di mercoledì 20 Maggio 2009 in commemorazione del centotrentesimo anniversario dell'elevazione al cardinalato del santo prelato inglese John Henry Newman .



Parlando di Newman, Leone XIII lo chiamava "il mio cardinale", e aggiungeva "non è stato facile, non è stato facile. Dicevano che fosse troppo liberale, ma io avevo deciso di onorare la Chiesa onorando Newman. Ho sempre avuto un culto per lui. Ho dato prova che ero capace di onorare un tale uomo". Il Papa lo diceva a Lord Selborne che, in una udienza del 26 gennaio 1888, gli consegnava un messaggio da parte di Newman. Infatti già da nunzio in Belgio (dagli inizi del 1843 agli inizi del 1846), Pecci era ben informato sul movimento di Oxford. Ed è interessante che l'affermazione: "Ho sempre avuto un culto per lui" venga dal Papa dell'Aeterni Patris e della rinascita del tomismo.
Quella nomina, auspicata particolarmente dal laicato cattolico inglese e di cui già si vociferava, era stata piuttosto laboriosa per il fraintendimento della sua difficoltà a lasciare l'oratorio di Birmingham: intenderlo e presentarlo al Papa come un rifiuto non era dispiaciuto troppo al cardinale Manning, nel quale la porpora di Newman non suscitava un eccessivo entusiasmo. Newman poi precisò che non si trattava di un rifiuto, e il Papa stesso era disposto a una deroga.
Il duca di Norfolk, che sosteneva fortemente quella nomina, già nel dicembre del 1878 l'aveva prospettata a Leone XIII, trovando che il Papa non aveva nessun pregiudizio contro Newman e nessuna avversione nei confronti dei suoi scritti.
La questione venne risolta con la lettera del Segretario di Stato, il cardinale Lorenzo Nina, che il 15 marzo 1879 comunicava ufficialmente a Newman la decisione di Leone XIII di conferirgli la porpora.

Newman giunse a Roma il 24 aprile e vi rimase fino al 4 giugno, presso l'Hotel Bristol, in via Sistina 48, in uno stato di salute estremamente precario. Scrivendo al suo vescovo Ullathorne, il 3 luglio, mentre ricordava la "simpatia" e "gli onori" smisurati di cui era stato fatto oggetto, e in particolare la "tenerezza", l'"affettuosa tenerezza" del Papa, lo informava di non aver potuto celebrare l'Eucaristia più di tre volte, e del resto alcune sue lettere le aveva dettate dal letto.
Durante quelle settimane venne ricevuto due volte da Leone XIII, che si informava continuamente della salute del "suo" cardinale.
La prima udienza avvenne il 27 aprile. Ricordandola in una lettera del 2 maggio all'oratoriano Henry Bittleston, Newman scrive: "Il Santo Padre mi ha ricevuto molto affettuosamente, stringendo la mia mano nella sua. Mi ha chiesto: "Intende continuare a guidare la Casa di Birmingham?". Risposi: "Dipende dal Santo Padre". Egli riprese: "Bene. Desidero che continuiate a dirigerla", e parlò a lungo di questo".
Il Papa gli rivolge ancora "diverse domande" sulla casa di Birmingham, se fosse bella, sulla chiesa, sul numero dei religiosi, sulla loro età, su dove avesse studiato teologia.
Prima di congedarsi, Newman fece omaggio a Leone XIII di una copia dell'edizione romana delle sue quattro Dissertazioni Latine, e aggiunge, nella stessa lettera a Bittleston, d'aver rilevato la larga bocca del Papa, il suo ampio e gradevole sorriso, la sua "carnagione molto chiara" e il suo "parlare lento e nitido all'italiana".
La seconda udienza, di congedo, avvenne il 2 giugno, nell'imminenza del ritorno in Inghilterra. Newman sottopose al Papa varie richieste, e il 4 lasciò Roma per Livorno, dove rimase, malato, fino al 20 giugno, per arrivare a Birmingham il primo luglio.

Aveva ricevuto il Biglietto, recatogli da monsignor Romagnoli, la mattina del lunedì 12 maggio, presso il Palazzo della Pigna. Il giorno dopo il Papa gli avrebbe imposto la berretta cardinalizia, e nel concistoro pubblico del 15 seguente il galero. Insieme, tra gli altri, con Giuseppe Pecci, fratello del Papa, Tommaso Maria Zigliara, domenicano - tutt'e due eminenti studiosi di filosofia e teologia tomista - e il celebre storico Joseph Hergenröther.
Come cardinale diacono gli era stato assegnato il titolo di San Giorgio al Velabro. Il motto dello stemma, attinto a san Francesco di Sales, era suggestivo ed eloquente, Cor ad cor loquitur, e rendeva perfettamente lo spirito di Newman, per il quale la parola non si comunica per pura ed esclusiva via astratta ma per i rapporti concretamente creati da una interiore affinità; d'altra parte, si conosce non solo con la mente, ma con tutta la persona, e quindi con l'affectus, secondo l'affermazione di Gregorio Magno: Amor ipse notitia, l'amore è in se stesso fonte e principio di conoscenza, ossia amare è conoscere.
I testimoni di quel concistoro pubblico hanno riportato l'impressione e il commento che la figura diafana di Newman, dai capelli bianchi e dal marcato profilo, avvolta nella porpora, suscitava nelle dame di Roma: "Che bel vecchio! Che figura! Pallido sì, ma bellissimo!" (cfr. Sheridan Gilley, Newman and his age, p. 402).
Un oratoriano della comunità, parlando di Newman, tornato a Birmingham e presente alle celebrazioni nella chiesa di Edgbaston, osservava: "Il suo aspetto era magnifico, mentre stava seduto di fronte ai fedeli che riempivano il tempio. Il suo volto sembrava quello di un angelo, con i suoi lineamenti, ormai familiari per noi, addolciti e spiritualizzati adesso dalla salute fragile, e con la sua delicata costituzione e i capelli argentei, che contrastavano con le sfumature rosse dei suoi splendidi e insoliti vestiti" (citato da José Morales Marín, John Henry Newman. La vita).

Il cardinalato e l'accoglienza di Leone XIII, oltre che una riparazione per la diffidenza che per anni aveva circondato la vita e l'opera di Newman, erano soprattutto il riconoscimento del valore del suo ampio e lungo magistero. Ed è molto significativo che "L'Osservatore Romano" del 14 maggio, la vigilia del concistoro pubblico, pubblicasse in prima pagina il discorso pronunziato da Newman dopo la consegna del Biglietto di nomina, il 12 maggio, dove faceva un rapido bilancio della sua vita e dove trattava di un tema che appare ancora di impressionante attualità: quello del liberalismo religioso.
Newman, dopo aver iniziato a parlare "nell'armoniosa lingua" italiana, continuando in inglese, manifestava la sua "meraviglia e gratitudine profonda" per la sua nomina, dichiarando di sentirsi sopraffatto dall'"indulgenza e dall'amore del Santo Padre" nell'eleggerlo a un "onore tanto smisurato":
"È stata una grande sorpresa. Siffatta esaltazione non mi era mai venuta in mente e pareva non avere attinenza alcuna con il mio passato. Avevo incontrato molte traversie, ma erano finite, e ormai era quasi giunto per me il termine di ogni cosa. Stavo in pace". "Il Santo Padre ebbe simpatia per me, e mi disse perché mi sollevava a sì alto posto. Egli giudicava questo atto un riconoscimento del mio zelo e del mio servizio per tanti anni nella Chiesa cattolica; riteneva inoltre che qualche attestato del suo favore avrebbe fatto piacere ai cattolici inglesi e anche all'Inghilterra protestante".

Aggiungeva il neoeletto cardinale: "In un lungo corso di anni ho fatto molti sbagli. Sono lontano da quell'alta perfezione che è propria degli scritti dei santi (...) ma ciò che confido di potermi attribuire in quanto ho scritto è questo: la retta intenzione, l'immunità da interessi privati, la disposizione all'obbedienza, la prontezza a essere corretto, il grande timore di sbagliare, la brama di servire la Santa Chiesa, e, per divina misericordia, sufficiente buon successo".
E proseguiva: "Godo nel dire che a un gran male mi sono opposto fin dal principio. Per trenta, quaranta, cinquant'anni anni ho resistito, con tutte le mie forze, allo spirito del liberalismo religioso, e mai la Chiesa ebbe come oggi più urgentemente bisogno di oppositori contro di esso, mentre, ahimé, questo errore si stende come una rete su tutta la terra".
"Il liberalismo religioso è la dottrina secondo la quale non esiste nessuna verità positiva in campo religioso, ma che qualsiasi credo è buono come qualunque altro; e questa è la dottrina che, di giorno in giorno, acquista consistenza e vigore. Questa posizione è incompatibile con ogni riconoscimento di una religione come vera. Esso insegna che tutte sono da tollerare, in quanto sono tutte materia di opinione. La religione rivelata non è verità, ma sentimento e gusto, non fatto obiettivo (...) Ogni individuo ha diritto a interpretarla a modo suo (...) Si può andare nelle chiese protestanti e in quelle cattoliche; si può ristorare lo spirito in ambedue e non appartenere a nessuna. Si può fraternizzare insieme in pensieri e affari spirituali, senza avere dottrina comune o vederne la necessità. Poiché la religione è un fatto personale e un bene esclusivamente privato, la dobbiamo ignorare nei rapporti reciproci".
Newman aggiungeva: "La bella struttura della società che è l'opera del cristianesimo, sta ripudiando il cristianesimo"; "Filosofi e politici vorrebbero surrogare anzitutto un'educazione universale, affatto secolare (... che) provvede le ampie verità etiche fondamentali di giustizia, benevolenza, veracità e simili"; sennonché - osserva Newman - un tale progetto è diretto "a rimuovere e ad escludere la religione".

È difficile non riconoscere la rovinosa attualità di questo liberalismo religioso, che preoccupava Newman nel 1879: oggi si sta esattamente e largamente avverando e diffondendo la persuasione che le religioni siano equivalenti, che sia indifferente e non pertinente la questione della loro verità, che una confessione o una Chiesa si equivalgono. E che, in ogni caso, la religione appartiene esclusivamente all'ambito privato e personale, senza riflessi sociali.
A non mancare di equivocità è talora lo stesso dialogo interreligioso: quando cioè dovesse attutire la coscienza che, alla fine, a importare è la religione vera. La confusione che al riguardo si sta creando, all'interno stesso di esperienze cristiane elitarie, e "profetiche", come le chiamano, è mirabile e singolare, ma è assolutamente contraria al Vangelo e alla tradizione ecclesiale. Parlano del Popolo di Dio e ne annebbiano le certezze.
Anche l'altro, e connesso, rilievo di Newman appare di sorprendente attualità: quello relativo allo smantellamento della "cultura" cristiana e delle sue risorse educative, con il pretesto della "laicità" e dei valori "laici", come diciamo oggi: il neocardinale parlava di "giustizia, benevolenza", noi solitamente di "solidarietà". Ma una pura educazione "laica" condotta nell'indifferenza religiosa è incapace di fondare un'etica ed è fatalmente destinata a educare al nulla.
Oggi chi afferma una cosa stramba o antiecclesiale si autofregia del titolo di profeta; lo fu invece davvero Newman, le cui opere con la loro finezza storica e psicologica, con la loro bellezza poetica, e con lo splendore della loro verità, hanno impreziosito per sempre la Chiesa.

(©L'Osservatore Romano 20 maggio 2009)

sabato, maggio 16, 2009

L'aringa rosa /7

Sive: DE MYSTERIO ALTARIS

giovedì, maggio 14, 2009

Per il Pellegrinaggio Apostolico di Benedetto XVI in "Terra Santa"


MIRIAM E MARIA

"La Bibbia non spiega il significato del nome Miriam.
Durante il Medio Evo si considerava per lo più "Miriam" come avente il significato di "stella del mare", un'interpretazione puramente empirica, voluta, e che però era una fonte di ispirazione per molti.
[...] "Quando la vita diventa procellosa, quando ti senti sbattuto dalle onde, rivolgi il tuo sguardo verso il cielo, cerca la stella del mare, invoca Maria; quando le passioni ti travolgono e vanno dilaniando l'animo tuo, scruta il cielo e volgi la tua mente alla stella del mare, invoca Maria". Il pensiero pieno di pietà e di poesia di San Bernardo si riflette nella predicazione e nelle opere di San'Antonio. Questi spiega "Miriam" (Mariam) con "stella del mare" o "mare amaro" ("mar" in ebraico: amaro; "jam", mare).
Noi -così il Santo- siamo in mezzo al mare, circondati da onde, sommersi dalla tempesta ed è per ciò che eleviamo l'invocazione: Oh, Stella del mare! E' in grazia di Maria che, pur ondeggiando nell'amarezza, possiamo dirigerci, alla luce che emana dalla stella del mare, verso il porto, verso la salvezza.
Il nome "Maria" viene interpretato come "Mare amaro" con riferimento alla Passione di Gesù, ma il nome in se stesso è giubilo del cuore, miele nella bocca, nell'orecchio un canto.
Maria viene detta "Stella del mattino" perché fu data da Dio per essere luce ai popoli.

A proposito dell'interpretazione di "Miriam", "Mare amaro", ci sia concesso di notare: partendo dal Mar Rosso verso il nord s'incontrano il Grande Lago Amaro e il Piccolo Lago Amaro, che forse comunicavano per libera espansione delle onde, con il
Mar Rosso. Ad occidente delle coste dei due laghi correva un canale d'acqua dolce. Secondo Strabone questo canale attravesava i Laghi Amari e ne rendeva potabili le acque. Secondo Esodo 15,23ss., gli ebrei giunsero a Marah, "Amarezza".
A proposito della località [...] sorgenti di acqua più o meno salmastre esistono ancora sulla costa orientale della penisola sinaitica. Una di queste si chiama ancor oggi "Ajn Musa", fontana di Mosè a quasi 40 km dal punto approssimativo del passaggio del Mar Rosso; con essa può identificarsi il luogo di Mara. [...]

A proposito di Maria considerata largitrice di acqua nella tradizione popolare, va menzionato quanto segue.
Chi vuol vedere la sorgente di Miriam -così la tradizione popolare ebraica- raggiunga la cima del Carmelo e di lì potrà vedere come una specie di staccio nel mare; questa è la sorgente di Miriam.
Secondo gli antichi rabbini si tratta di una pietra in forma di staccio e che accompagnava il popolo d'Israele nel deserto e ciò per merito di Miriam. Dopo la morte di lei la sorgente cessò di fornire acqua, il che può desumersi dal fatto che la narrazione biblica avvicina nell'esposizione (Num 20) i due fatti: la morte di Miriam e la mancanza d'acqua, cioè la presenza dell'acqua è associata all'assistenza di Miriam.
Alcuni sono dell'opinione che la sorgente si trova nel mare vicino al Carmelo; secondo altri nel Lago di Genezaret presso Tiberiade.
C'è chi dice che si usa attingere acqua alla sera dell'uscita dal sabato e la ragione sarebbe: in ognuna di queste sere la sorgente di Miriam va ad incontrarsi con le consorelle. Chi attinge al momento del felice incontro, ottiene la guarigione da ogni malattia; ossia Miriam, sia pure sotto le sembianze di "sorgente", apporta sempre guarigione.

A proposito di Maria che largisce acqua e abbondanza va ricordato fra l'altro il costume che vige tuttora in Palestina tra la popolazione cristiana di cantare davanti alla sorgente di Maria ('en- el-bedrye) per invocare il suo aiuto. Va notato: il nome di Maria fu sostituito da quello di una santa islamica, el-bedrije, sepolta a Sherafat, la sostituzione mira a porre - come ebbe a notare il Kahle- la santa islamica al posto della Vergine. Il canto suona:
Oh Signora, di bedrije
abbevera la nostra semenza bagnata.

In grazia di Maria il contenuto acquoso delle olive diventa denso ed è così che si dice, riferendosi al 15 agosto:
Nella festa della Vergine (fi 'id el-'adra),
madre della luce,
affluisce l'olio alle olive
.

Varie popolazioni arabe palestinesi osservano con pratiche religiose durante l'inverno un periodo di 40 giorni in cui deve cadere la pioggia. I Beduini presso Aleppo contano la mumbaria dal Natale sino alla festa della Purificazione di Maria il 2 (o il 3) di febbraio.
Alla maturazione del grano, piuttosto che alla pioggia, si riferisce la festa che viene celebrata dai Giacobiti siriani il 15 maggio: la festa della Madre di Dio (la Theotokos). Si tratta della Festa "delle spighe" (che coincide, con la festa delle rose, da altri menzionata) e cioè del grano che matura e diventa commestibile.
(cf Dt 23,26; Mt 12,1; Mc 2,23; Lc 6,1).

Infine: la sorgente di Siloe che zampilla al lato est della parte meridionale del tempio, nella valle di Giosafat [...], a sud del Monte degli Ulivi, si chiama pure la "Sorgente di Maria" ('ain Sitti Mariam) oppure "la sorgente della Madre delle scale" perché, secondo la leggenda, la Beata Vergine vi ha attinto dell'acqua quando passò in Gerusalemme qualche tempo. Anche i Turchi -così viene riferito- prendono parte alle celebrazioni in onore di questa sorgente.

In considerazione di quanto esposto ci sia concesso di porre una domanda: Visto che sinora nessuna supposizione sul significato di Mar-jam si è affermata, non sarebbe il caso di riprendere in esame l'idea di acqua amara, amara e -forse- raddolcita?
[...]"
Eugenio Pio Zolli ( "Da Eva a Maria"; 1954)

mercoledì, maggio 13, 2009

Per la visita di Benedetto XVI a Betlemme e Territori dell'Autorità Palestinese


REBECCA E MARIA

La coesione di componenti di una famiglia, in quanto clan primitivo, è talmente forte che talvolta la consapevolezza del proprio io individuale viene assorbita dalla coscienza dell'io collettivo cioè da da tutto il clan. Ognuno vive in grazia della collettività: da solo non potrebbe che morire, ed è così che ognuno cerca di essere qualche cosa, o, per meglio dire, qualcuno, nell'organismo associato.
Lo sviluppo della civiltà e delle condizioni di vita, la spartizione dei beni, il maggiore sviluppo della coscienza di possesso privato, individuale, non più collettivo, la divisioni in famiglie, tutto ciò fa sorgere gelosie, complicazioni, odii, fratricidi.
Caino uccide Abele e, come in tutta la storia del periodo di allora, si notano sempre e ovunque le interferenze dell'elemento divino. Il primo fratricidio, che poi è il primo omicidio, fu occasionato dal fatto che il Signore ha gradito il sacrificio dell'uno più di quello dell'altro. Comunque gelosia.

Nella vita di Rebecca, la moglie di Isacco, che è sterile e che diventa madre soltanto per intercessione delle preghiere del marito, nella vita di Rebecca, diciamo, il grave dissidio tra fratelli si annuncia molto presto, cioè quando Esaù e Giacobbe si trovano ancora nel ventre materno. La madre percepisce lo stato di tensione tra i due minuscoli esseri. Le madri sono sensibili e percepiscono molto col cuore.
E' il Signore stesso che annuncia a Rebecca che la lotta fra i due piccoli esseri va proiettata sullo schermo della storia futura: i due bambini sono destinati ad essere in futuro i capi di due stirpi, fra cui non ci sarà pace e armonia. Esaù sarà capostipite degli Edomiti, Giacobbe di Israele. Ecco che lo stesso corpo della madre, della donna gestante, diventa il campo di battaglia.


Come la vita, così anche il riflesso della vita, la storia viene considerata come l'eterna contesa, un'eterna lotta, come una espressione dell'eterna necessità di affermarsi e per conseguenza necessità di negare il diritto di affermarsi, se non addirittura di vivere, ad altri.
E' così che si vive ed è così che le madri, generando figli, preparano nuove contese, nuove lotte, nuovi lottatori, nuove sconfitte, nuove uccisioni nuove vittorie; i vincitori diverranno, tosto o tardi, vittime di altri vincitori. Ecco un triste quadro della concezione della vita e della storia.
Il desiderio di rinchiudersi in sé da parte di chi è nato in una data stirpe, significa esclusione di altri, ed è così che le varie stirpi, i vari gruppi, i vari partiti, i tanti uomini non vanno più in cerca l'uno dell'altro per amarsi, ma per sopprimere l'uno l'altro e, ove ciò non fosse possibile, per reprimerlo, per comprimerlo, e -in extremis- sopprimerlo. Ed è così che gli oppressi hanno un solo sogno e un solo desiderio: diventare oppressori. Nascono le tempeste nella storia; di una di quelle tempeste parla Isaia profeta (10,33-34).


E a Betlemme vi è una madre fuggiasca, senza patria.
E' la sorte dell'antico cristianesimo, il quale per crescere ed affermarsi deve vivere così come ha vissuto il Cristo stesso: la volpe ha la sua tana, l'uccello il suo nido, ma il Figlio dell'Uomo non ha dove posar la testa. Gesù Cristo è il Figlio della Donna sublime, che non trovava un posto dove partorire il suo Divin Figliolo, e fu così che ella si avvia verso la stalla per partorire il suo Fanciullo, tra gli animali. Fra gli uomini la Madre di Dio non trovò un posto dove partorire; suo Figlio non trovò un posto dove dormire.
I primi cristiani sentivano la grandezza e la santità di essere senza patria, sempre raminghi, sempre espatriati, sempre pellegrini, pellegrini sulla terra che essi percorrono per trovare la via, che li condurrà al Padre nei cieli.
Maria è la madre di Colui che fonderà un Regno anch'Egli, ma non sarà un regno di questo mondo. Sarà perseguitato, oppresso, odiato anche Lui, e andrà incontro alla Passione e alla morte, ma non già in seguito a una contesa per dominii, ma per essere stato un lottatore strenuo contro il male, per aver vissuto per un più grande amore, per quell'amore che verso tutti si protende, che tutti chiama, che tutti ama, tutto sopporta, a tutti perdona, anche ai nemici.



[Eugenio Pio Zolli; "Da Eva a Maria"; 1954]

martedì, maggio 12, 2009

I "profeti di sventura" in Vacanza (della Sede Apostolica)

Ovvero: "Nell'ultima persecuzione della Santa Sede di Roma, il romano Pietro pascerà le pecore con molte tribolazioni. Quando morirà, la citta dei sette colli cadrà e il giudice tremendo giudicherà il suo popolo. Fine."(Profezie dello Pseudo S.Malachia)


Sono davvero troppo esagitati quei "divoti" che, furentemente dall'alto del proprio (personalissimo) pulpito, si son scagliati, prima, contro il poco brillante romanziere Dan Brown e poi contro il bravo regista Ron Howard con l'accusa di voler, mediante la strampalata trama di "Angeli e Demoni", inculcare subdolamente nell'opinione pubblica mondiale la convinzione che oscuri e torbidi misteri ed intrighi si annidino nel Cattolicesimo, e nel Vaticano in paricolare; pregiudizio del resto mai sopito della mentalità puritana anglosassone.
Certo, è pur vero -e non sarà mai ripetuto abbastanza- che se a dare lo spunto di una così abborracciata favoletta alla "Angeli e Demoni" fosse stata, ad esempio, una religione volgarmente ritenuta assi pacifista come il Buddismo le reazioni indignate e violente dei buddisti non si sarebbero fatte attendere.
Epperò rispetto al "Codice da Vinci" in cui - al lettore prima e allo spettatore poi - solleticava invereconde insinuazioni sulla sessualità di Gesù Cristo, in "Angeli e Demoni" invece l'oggetto dello scontro tra preti "oscurantisti" e laici "illumanati" è davvero per niente sexy: l'antimateria.
E così, alla fine della fiera mediatica, il pubblico glorificherà in cuor suo la bellezza della Roma barocca e la magnificenza della Controriforma cattolica.

Di trame vaticane strampalate e sconclusionate nel 1914 ne dava saggio André Gide con i suoi "Sotterranei del Vaticano" dove, si immagina, trovasi prigioniero il papa a seguito di una congiura massonica che, col benestare del governo italiano, ha posto un usurpatore sul trono pontificio. Del resto malsane fantasie di tale tenore sono state propagandate anche "negli ultimi tempi" da tradizionalisti psicopatici e sedevacantisti che per spiegare la "rivoluzione" nella Chiesa avvenuta dopo il Concilio Vaticano II non hanno trovato di meglio che appellarsi al solito complotto massonico-giudaico-plutocratico con cui, a seguito di una congiura di palazzo (ordita da Villot, Benelli e Casaroli), Paolo VI , lasciato poi morire di fame nei sotterranei vaticani, sarebbe stato sostituito da un perfetto imitatore.

A ben vedere tanta varia (e bassa) letteratura fantascentistica e fantapolitica ha avuto per protagonisti poco credibili papi Leoni quattordicesimi, Pii tredicesimi e massimamente Giovanni ventiquattresimi (non sono mancati anche i fanta-Benedetti sedicesimi). Ma volendo essere sinceri sino in fondo, spesso l'arrovellarsi intorno all'ipotesi d'una Apocalisse prossima ventura pronta ad abbattersi sul cattolicesimo, e sul Papato specialmente, non è affatto aliena nelle menti e negli scritti di persone dal punto di vista dell'ortodossia cattolica assai assennate.
Per anni Vittorio Messori ha in lungo ed in largo propagandato le sue passioni per le profezie "vandeane" e lacrimazioni mariane alla ricerca di segni premonitori di una catastrofe/catarsi del cattolicesimo. Negli ultimi tempi parrebbe giunto a più miti consigli, sostituito in quest'opera di profeta apocalittico da quel veramente arguto ed acuto Maurizio Blondet, giornalista per niente politically correct (e per questo cacciato dall'Avvenire) che purtroppo ha reso il propio sito internet l'estrema Thule di bizzarri ed inquietanti figuri di sedicente cattolici.

Giovanni Palo II ritenne fermanente che proprio lui stesso, ferito mortalmente (e miracolosamente sopravvisso) nell'attentato del 13 maggio 1981, fosse l'oggetto della profezia della Madonna Fatima. Altri più papisti del Papa sostennero e sostengono che quella profezia non si sia ancora inverata, e attendono spasmodicamente, e devotamente, l'assassinio del Papa .
Che su di un papa "scomodo" come Benedetto XVI penda costantemente un'invisibile spada di Damocle è convinzione senza remora propagandata da un giornalista cattolico come Antonio Socci del quale è arcinotorio come (a causa del proprio adamantino zelo per la Casa del Signore) abbia scassato i "santissimi" all'Eminetissimo Tarcisio Bertone contestandone la tesi secondo cui la vicenda del terzo segreto di Fatima si sia "felicemente" conclusa con il fallito attentato da parte del "lupo grigio" Alì Agca.
Dopo il famigerato discorso di Ratisbona e a seguito delle polemiche e delle minacce alla vita di Papa Ratzinger, nell'imminenza del viaggio apostolico in Turchia il buon Socci, nel novembre 2006, scriveva articoli allarmistici in cui, ricordando che nell'omelia di insediamento Benedetto XVI aveva chiesto ai fedeli cattolici preghiere affinchè -ad imitazione di Gesù Buon Pastore- egli non fuggisse davanti ai lupi, dipingeva l'assai suggestiva icona di un Benedetto Papa conscio di andare incontro al sicuro martirio per mano di quegli islamici "lupi grigi" che non erano riusciti ad uccidere il suo "amato predecessore" polacco.
Poi, nonostante le tante profezie di sventura, il viaggio si rivelò un successo politico, diplomatico e religioso.

Un pellegrinaggio papale come quello programmato dall'8 al 15 maggio 2009 in "Terra Santa" presenta altrettante, anzi maggiori complicazioni e tensioni per l'intricata selva di ferite, fratture e lacerazioni religiose del Vicino Oriente e delle inevitabili ricadute politiche. E, nonostante le alate disquisizioni spiritali sull'unicità di Dio e sulla profonda sintonia che possono trovare tramite il dialogo gli uomini seppur appartenenti ai differenti monoteismi (poichè la ragione umana è immagine riflessa della sapienza dell'unico Dio), ciò che in realtà i musulmani, cioè i palestinesi e ancor più gli ebrei, cioè gli israeliani vogliono dal "pellegrinaggio religioso" di Benedetto XVI è poterlo sfruttare e strumentalizzare politicamente.

La lettera di benvenuto al Papa Benedetto del Rabbino Capo di Haifa sulla prima pagina del quotidiano "Jerusalem Post" è parso un subdolo paradigma dottrinario di ciò che secondo i rabbini dovrebbe essere il contenuto del magistero pontificio e a cui il Papa di Roma doveva supinamente attenersi, in caso contrario minacciando velatamente l'interruzione del dialogo fraterno.
Nonostante però la buona volontà di Benedetto XVI che "fa definitivamente sua la soluzione al conflitto israelo-palestinese prospettata dalla Road Map e, per l'accesso ai luoghi santi, ripete le stesse esatte parole usate dal governo israeliano"* la pubblica opinione israeliana non ha lesianto al mitissimo pontefice le polemiche più irrazionalmente infantili.

Per alcuni severi osservatori cattolici, dunque, tutto secondo copione: un canovaccio prevedibile, addirittura un piano ben programmato; una "Via Crucis" orchetrata a monte di cui è possibile elencarne le dolorose stazioni (nonchè ipotizzarne già la drammatica conclusione!) sin dalla metà del precedente mese di aprile 2009 quando "durante l'udienza generale, due giovani palestinesi donano a Benedetto XVI una kefiah. Nello stesso giorno il Ministro israeliano del turismo (responsabile dei preparativi per la visita del Papa in Terra Santa) ingiunge al Pontefice di non ricevere il Sindaco di Sakhnin, una cittadina araba della Galilea, perché "sostenitore del terrorismo"...
Venerdì viene reso noto che la parrocchia di Gaza è stata affidata a un sacerdote argentino... Domenica, il quotidiano Haaretz annuncia che secondo i servizi di sicurezza israeliani non sarà prudente usare la papamobile a Nazareth, perché nel giorno della Naqba gli estremisti islamici potrebbero fare manifestazioni o addirittura fare un attentato al Pontefice"
.
E Poi ancora: "una intervista dell'Ambasciatore israeliano presso la Santa Sede(*), una intervista tutta da leggere, secondo il più classico stile mafioso. C'è di tutto: si parla della sicurezza del viaggio papale; delle "provocazioni" arabo-cristiane (il desiderio di una visita a Gaza, la kefiah donata a Benedetto XVI e il sindaco di Sakhnin che voleva essere ricevuto dal Papa); della preghiera del venerdì santo; della Conferenza di Ginevra sul razzismo; di Pio XII; della "guerra" di Gaza e del Card. Martino; dei colloqui fra Israele e Santa Sede per l'attuazione dell'accordo fondamentale del 1993. Dall'intervista abbiamo conferma che i cristiani di Gaza non potranno partecipare alle celebrazioni di Gerusalemme (sede del Patriarcato), ma solo a Betlemme (sotto la giurisdizione dell'Autorità Palestinese). Ci vengono anche annunciate restrizioni di movimento per i pellegrini durante la visita papale.
Dopo aver letto (o riletto) queste notizie, provate a ragionarci su. A quale conclusione giungete? Si tratta di notizie senza alcun rapporto tra loro? Si tratta di coincidenze casuali? Non vi accorgete che stiamo assistendo alla realizzazione di un copione prestabilito? Tutto è stato ben studiato a tavolino; e ora lo si sta mettendo in opera molto diligentemente.
Direte: solo un complottista può arrivare a una simile conclusione. Quale potrebbe essere lo scopo? Lo scopo è ben chiaro: il Papa deve fare solo ciò che vogliono loro. L'unica cosa che importa è che il Papa incontri le autorità israeliane per dare un ulteriore riconoscimento dello Stato ebraico, visiti lo Yad Vashem per rendere omaggio alle vittime dell'Olocausto, e vada al Muro del Pianto a chiedere scusa per le colpe della Chiesa contro gli Ebrei.
... il Papa va in Israele a ratificare la politica di quello Stato e a compiere gli atti di culto della religione dell'Olocausto. Al massimo, tanto per salvare la faccia, gli si potrà concedere di fare un privato pellegrinaggio ai Luoghi Santi.
E, se si permette di dissentire, c'è sempre qualche fanatico terrorista islamico pronto a intervenire... "



Or dunque, fin qui le speculazioni altrui.
Adesso cercherò anch'io di dare un saggio di "complottismo divoto", sperando nella benedizione di Dan Brown, indosserò i panni di un Robert Langdon tardo-barocco e proverò ad ipotizzare come il Mossad possa aver pianificato l'assassinio del "papa tedesco" facendone ricadere la colpa su qualche integralista islamico, ovviamente palestinese.

Nella così tanto evocativa data del 13 Maggio il programma del pellegrinaggio papale prevede per l'intera giornata la presenza di Benedetto XVI nei territori controllati dall'Autorità Palestinese: questa potrebbe essere l'occasione più opportuna e più propizia per armare la mano dell'inconsapevole realizzatore della profezia del terzo segreto di Fatima.

Per l'Autorità Palestinese essere il teatro dell'assassinio di un papa provocherebbe una crisi di credibilità a tutto vantaggio e giustificazione della politica unitalateralmente aggressiva dello Stato di Israele, e come diceva Caifa: "meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera".
Un Benedetto XVI morto il 13 maggio per mano islamica su mandato dell'implacabile profezia divina troverebbe infatti sorprendentemente convergenti gli interessi israeliani e iraniani. E pure gli stessi cattolici alla fin fine troverebbero opportuno per il successore di Pietro e vicario di Cristo un morte (nonchè una data del martirio) così emblematicamente pregna di richiami al patrimonio della fede cattolica.
L'apocrifa ma citatissima lista dei papi di San Malachia indica nel Benedetto Ratzinger il "De Gloria Olivae". Nel passato era stata interpreta come profezia dell'avvento di un papa di origine ebraica (Lustigè) o palestinese (Sabbah) dato che l'ulivo è simbolicamente legato ai luoghi santi: pertanto, un seppur violento transito di un pontefice dalla Terra Santa alla gloria del cielo si accorderebbe meravigliosamente con la profezia attribuita al santo monaco irlandese.

In base alla vigente legislazione ecclesiastica, l'articolo 41 della costituzione apostolica "Universi Dominici Gregis" dichiara che "Il Conclave per l'elezione del Sommo Pontefice si svolgerà entro il territorio della Città del Vaticano" . Il conclave deve iniziare quindici giorni, al massimo venti giorni, dopo l'inizio della Sede Vacante e si prescrive espressamente chi cardinali debbono svolgere l'elezione papale unicamente all'interno della Cappella Sistina.
Supervisionare lo svolgersi dei preparativi del conclave, ed accertarsi che tutto si svolga nel più assoluto rispetto della normativa canonica, è compito che spetta al Cardinale Camerlengo di Santa Romana Chiesa. E dato che tra i menbri del seguito papale c'è anche il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, che è anche Camerlengo, di fronte ad una tragica dipartita del pontefice, trovandosi in loco il Camerlengo Bertone avrebbe tutta la piena autorità per disbrigare nel più breve tempo tutte le pratiche ufficiali per obbedire alla prima incombenza della Vacanza della Sede Apostolica: "disporre tutto il necessario per una degna e decorosa traslazione della salma nella Basilica di San Pietro in Vaticano"N.29.

Morto mercoledì 13 maggio 2008 -seppur considete la tragicità delle circostanze- ipotizzarne le solenni esequie per la seguente domenica 17 maggio verrebbe da molti considerato inopportuno, seppur ciò sia possibile in base alle norme canoniche che prescrivono la tumulazione della salma del defunto pontefice "fra il quarto e il sesto giorno dopo la morte". Il 17 Maggio sarebbe il quarto giorno, il primo giorno utile, ma proprio per questo darebbe all'opinione pubblica l'impressione che i cardinali vogliano velocizzare i tempi, col rischio di alimentare il sorgere subdole leggende nere. E poi perchè non voler dar alle masse popolari -del mondo intero!- la possibilità di manifestare la propria devozione all'autorità pontificia mediante le interminabili e massacranti code alla Basilica Vaticana per porgere l'estremo saluto alla salma del papa solennemente esposta? E del resto la "Univesi Dominici Graecis" prevede espressamente l'esposizione della salma del papa nella basilica di San Pietro, senza far deroghe in base al tipo di morte, più o meno violenta, di cui il pontefice sia stato vittima.

La data delle solenni esequie pontificali, dopo tre interi giorni di esposizione della salma, verrebbe fissata al martedì 19 maggio. Col senno di poi e con grande sorpresa e commozione, i fedeli cattolici si accorgeranno che il 19 maggio è la festa di San Celestino V (quel santo e mite pontefice tolto di mezzo perchè scomodo per la Chiesa e la società del suo evo) cui Benedetto XVI solo pochi giorni prima all'Aquila, nella devastazione della terremotata basilica di Collemaggio, ne aveva venerato le spoglie, donando al santo predecessore il pallio ricevuto il giorno della messa dell'insediamento. Quale divina premonizione!
Quale mirabile segno! Lo stesso devastante terremoto aquilano, assurgerebbe così, da circoscritto e feriale dramma italico, ad ammonimento spirituale per la cattolicità tutta. San Celestino V, avrebbe legato così la sua veramente tragica figura di pastore incompreso dalla stessa Chiesa Romana a quella di Benedetto XVI che si inginocchia a pregare tra le macerie di una chiesa, simbolica e profetica immagine di quell'altra Chiesa, che và in rovina.
Per inscrutabile disegno della Provvidenza, proprio a L'Aquila Benedetto XVI era stato quel vescovo vestito di bianco che prega camminando tra le macerie di una città (proprio come nel terzo segreto di Fatima).



PS: Se poi domani lo ammazzano veramente come farò a spiegare che la mia era solo una "Ucronia" di pessimo gusto?