lunedì, giugno 29, 2009

Sive ergo Græci… VI

OVVERO: Glosse alla ecclesiologia della Chiesa latina da parte di Neophytos Edelby (1920-1995) vescovo cattolico arabo di rito bizantino:


"Mi sembra che la concezione occidentale e quella orientale della Chiesa partano da due opposti punto di vista. Naturalmente, quando, per semplificare, parlo di tendenza occidentale, penso alla tendenza più tipicamente occidentale, cioè a quella che spinge le sue deduzioni fino all'estremo limite della logica e perfino al di là di essa.
Se comprendo bene, la tendenza occidenale considera le cose in questo modo: Cristo ha insediato Pietro. Poi, Eli ha dato dei collaboratori, che sono soprattutto dei sottoposti: gli apostoli. Infine, a Pietro e agli apostoli, ma soprattutto a Pietro, Egli ha dato dei sottoposti (giacché é inutile essere capi se non si hanno dei sottoposti). Questi sono dei semplici fedeli, la cui ragion d'essere è soprattutto -sembra- quella di fornire una materia ai comandamenti, alla santificazione e al magistero dei capi.
Questa concezione estremista occidentale parte dalla cima: Cristo ha insediato Pietro; gli ha dato dei collaboratori; poi a Pietro e ai suoi collaboratori Egli ha dato dei fedeli.
Ecco tutta la Chiesa passata in rassegna.

In Oriente noi partiamo da da un punto di vista diametralmente opposto. Per noi, innanzi tutto, Cristo si congiunge ai credenti, ai fedeli, come ai suoi fratelli e membri del suo corpo. Ecco l'essenziale: far parte di Cristo. Ecco tutta la Chiesa.
Per unire i suoi fedeli e assicurare loro la permanenza nella sua grazia e nella sua predicazione e anche per lanciarli nella predicazione del Vangelo - che, per il fatto stesso che sono cristiani, appartiene loro di diritto senza alcuna missione canonica speciale da parte della gerarchia - egli ha dato loro una èlite: i suoi apostoli, i quali sono i primi cristiani, i primi fedeli e coloro che sono maggiormente impegnati. E affinché il collegio degli apostoli non sia un semplice aggregato di individui, di franchi tiratori che lavorano ognuno a proprio modo, Egli ha dato loro una testa, un capo, un "Corifeo" (come diciamo noi), un fratello maggiore: Pietro e i suoi successori.
In questo modo noi ritroviamo tutta la Chiesa, partendo però da due punti di vista opposti. Ciò che vi è di importante e di essenziale nella Chiesa sono tutti coloro che credono in Cristo.
A coloro che credono in Lui, il Signore ha dato degli apostoli ed agli apostoli ha dato un capo, un corifeo, una testa affinché tutto sia nell'ordine e nell'armonia."

[AA.VV. "La fine della Chiesa come società perfetta"; Arnoldo Mondadori Editore, 1968]

sabato, giugno 27, 2009

Vite Parallele /17

Ovvero: Dell' arguta esposizione, ad opera di Stefano Di Michele sul Foglio di sabato 27 giugno 2009, intorno alle concordanze semiserie tra le vite del "Re Sole" e di Silvio Berlusconi (nell'era di Patrizia D'Addario).


"Bisogna diffidare di se stessi, sorvegliare le proprie inclinazioni e stare sempre in guardia contro la propria natura"
(Memorie di Luigi XIV)

"Quando si assume un ruolo come questo la vita cambia. I cattolici la chiamano Grazia dello Status..."
(Silvio Berlusconi, primavera 1994)



" Dell’inizio.

Si comincia così: c’era (una volta) un re. Poi si continua così: e c’è (ancora) un presidente del Consiglio. Uno era francese, l’altro è italiano; quello si chiamava Luigi, questo Silvio. Il primo fu noto (e una certa notorietà, diciamo, ha ancora) come il Re Sole; il secondo più democraticamente ondeggia tra Presidente Operaio e Presidente Imprenditore – e a tacer del resto. Ma un primo indizio – traccia labile, impronta leggera, criptico enigma: sorta di “Codice da Arcore” – che riconduce il rutilante Silvio all’abbagliante Luigi del XVII secolo è possibile rintracciarlo nell’antica raccomandazione che il Cavaliere usava indirizzare ai seguaci: “Bisogna sentirsi con il sole in tasca!”. [...]
L'intreccio tra l'uomo che protesse Moliere e quello che valorizzò Apicella corre di secolo in secolo: passione per passione, atto per atto, fobia per fobia.
La grandeur come un laurà de la Madona.

Dell'inizio, avec Dieu.

Alla nascita avvenuta nello stesso mese di settembre, pur se in anni diversi, s'intende: il 5 per il francese, il 29 per l'italiano - il piccolo Luigi fu subito appellato Dieudonnè o Deodatus: insomma, Dio c'è l'ha dato. "Si disse anche - scrive Antonia Frazer ne "Gli amori del Re Sole" (Mondadori)- che il sole era eccezionalmente vicino alla terra, come per salutare il futuro sovrano", praticamente alla portata della tasca del futuro Presidente del Consiglio.
Nel momento in cui vide la luce il piccolo Silvio, nessuno ebbe pubblicamente una tale opportuna prontezza di riflessi, ma in seguito il richiamo all'Unto del Signore ha perlomeno, prima di qualunque finale di partita, riallineato nella volontà celeste i due destini. Fatto sta che Luigi mai venne in mente di farsi chiamare, neanche per scherzo (e mica aveva manifesti da fare stampare ad ogni elezione) Re Operaio o Re Villano. Fu Deodatus e Sole, e basta. La funzione di Unto quindi si applica meglio alla società moderna.

Della nobiltà della caduta (dei capelli).

"Il Re, quindi, a venticinque anni portava i capelli lunghi, sparsi sulle spalle e sulla schiena, com qualche ciocca a tirabaci sulla fronte: ed è in questo modo che Le Brun l'ha dipinto, come un re galante, che il Bernini l'ha scolpito, come un eroe, e sempre in questo modo che Nocret o Werner l'hanno rappresentato, come l'Apollo: perché un Dio può anche essere nudo, ma non avere i capelli corti. Così nel quadro Luigi XIV scopre il petto ma non il cranio. Orbene, il Re fu colpito, poco dopo che Le Brun l'ebbe dipinto, da una calvizie precoce. Suo nonno Enrico si sarebbe adattato. Il suo avo Francesco avrebbe potuto inaugurare per due o tre secoli un'Europa rasata. Luigi scelse la parrucca. Che l'avrebbe avuta vinta su tutte le capigliature." Questo è possibile leggere nel bel libro di Philippe Beaussant "Anche il Re Sole sorge al mattino" (Fazi).
E ciò letto, è possibile intendere quale fraternità, quantomeno tricologia, possa ancora a distanza di secoli legare Sovrano e Cavaliere nella dura tenzone contro l'avanzata delle calvizie.
non avendo Sua Maestà a disposizione copertine di Panorama, doveva necessariamente ricorrere alla bravura dei mastri parrucchieri di corte, e del resto Berlusconi non può certo entrare a Palazzo Chigi con in testa un trionfo di boccoli e cipria. Dunque una comune pena che attraversa i secoli e travalica le Alpi. La guerra ai capelli (intesa come all'assenza degli stessi) unisce simbolicamente il Donato e l'Unto: ove Luigi innalzò la parrucca, Silvio impiantò nuovo pelo; dove uno si protesse con la regalità, l'altro scelse la bandana. La sommità della testa appare il punto più vulnerabile, e insieme il più considerato, dai due uomini di Stato.
Se le Chevalier ha avuto modo di lodare il pettinino a maglie fitte, che meglio valorizza la deprecabile penuria, le Roi fece infinitamente meglio. "La parrucca si vede, deve vedersi. Cessa di essere un ripiego, un riempitivo, diviene un ornamento. Si afferma come parrucca e non si dissimula più come capelli finti. Poiché Luigi XIV era il Re Sole avrebbe fatto della parrucca il segno della sua grandezza e il suo lascito al mondo(...) Di un trucco, Luigi faceva una verità, e ogni uomo degno di questo nome avrebbe portato ormai sulla testa un giardino all'italiana, invece di un semplice orto" (Beaussant "Anche il Re Sole sorge al mattino").
Così dovrebbe funzionare un maggioritario ben fatto. Nell'indeterminatezza attuale, Silvio invece non riuscirebbe ad imporre un tirabaci nemmeno al ministro Ronchi: identica volontà tricologica, condizioni politiche troppo diverse.

Della danza, della musica e di altre sciocchezze

Protettori entrambi delle arti - da quella di La Fontaine a quella delle Veline, dal canto alla danza - tanto Luigi quanto Silvio hanno dato prova di eccellenza, pur nelle mutate situazioni. Le gazzette reali del XVII secolo sapevano certamente apprezzare e raffigurare gli sforzi reali. Ecco il resoconto di un ballo del sovrano: "Senza pari eleganza! Gloriosissima andatura! Quale mai del ciel creatura si vedrà a sua somiglianza?"
Per Silvio, nelle vesti di appassionata vocazione di stornellatore apicelliano,le cronache sono state incomprensibilmente più caute pur vantando egli un intero cd. Anzi ecco l'Espresso che lo visualizza in giacca bianca "come Tony Manero" in compagnia di Simon Le Bon e bone varie mentre al microfono attacca con "L'ultimo amore", subito dopo si catena in pista al grido di "Gioca juer".
Ma come Silvio si traveste da John Travolta, Sua Maestà si abbigliava come Giove, come Alessandro, come Apollo, "quando danza Apollo è se stesso, ed è se stesso che espone agli sguardi di chi assiste" - comunque sempre lucente Sole, "con jetès-batùs, tombès-batùs, scivolate a capo, passi in controtempo" - una faticaccia che si fa prima a far ministro la Brambilla.
In soli nove anni dal 1661 al 1670, si registra nel volume di Beaussant, "il Re Sole danza una dozzina di balletti, in tutto ventinove ruoli". Parimenti, quando canta con Apicella, la stessa identica cosa si può dire di Silvio,"è se stesso ed è se stesso che espone agli sguardi di chi assiste". Chi assiste è la corte - che sempre una corte accompagnò il real ballerino nei suoi balli non meno del presidente canterino nei suoi acuti.
Nessuno dei due nega protezione all'arte e agli artisti.
Stoico il tentativo del Signor Presidente di portarne illustri rappresentanti nelle istituzioni, storica la battuta con cui Sua Maestà avvertì Molìere dei malumori dei bigotti per le sue commedie: "Non irritate i devoti, è gente implacabile".

Della presa del potere e della salita sul predellino

Il 10 Marzo 1661 Luigi XVI che è già re da quando aveva cinque anni - ora ne ha ventidue ed ha ancora i capelli - prende il potere. Letteralmente, come racconta un vecchio bellissimo film televisivo di Roberto Rossellini: appunto "La presa del potere da parte di Luigi XVI". Quasi un colpo di Stato. A favorirlo la morte del cardinale Mazzarino, potentissimo primo ministro.
Scriverà in seguito nelle sue memeorie: "La morte del cardinale mi obbligò a non differire più quello che desideravo e insieme temevo da tanto tempo: la presa del potere". Per lo storico Pierre Goubetr di questo si trattò: "tutto rimase come prima, non cambiò nulla, tranne l'uomo che era al comando".
Il cadavere del cardinale primo ministro è ancora caldo. I potenti del regno -cancelliere, ministri, nobili- si affollano attorno al giovane re cercando di sapere chi sarà il successore. "A chi dovremo rivolgerci ora, maestà?" E quello: "A me!"
Li convoca nella camera della regina madre: "Voi mi aiuterete con i vostri consigli, quando ve lo domanderò... Signori vi diffido dal firmare anche un solo salvacondotto o passaporto senza mio ordine; vi ordino di rendere conto ogni giorno a me in persona, e di non favorire nessuno dei vostri incarichi..." E dunque: "Ora voi sapete le mie volontà. Tocca a voi adesso, signori, eseguirle".
Ha scritto Guido Gerosa nel suo "Il Re Sole" (Mondadori): "Diventavano dei sorvegliati speciali dopo aver goduto per anni di un potere e di un'autonomia illimitati".
Silvio III (ma è sempre lo stesso) prese il potere (o almeno ci provò) il 18 Novembre 2007. Ha già settantun anni, è stato già due volte primo ministro, ha già dei nuovi capelli. Più prosaicamente - non disponendo né di un castello né di un cadavere di cardinale né di ministri da intimorire - sale sul predellino di una macchina a piazza San Babila e annuncia che sta per arrivare il terremoto: scioglimento di Forza Italia, un partito nuovo "per tutti quelli che ne vogliono far parte". Perciò: chi c'è c'è.
[...]

Della Corte e dei cortigiani

Dell'inutilità di tante chiacchere e di troppi poteri intorno, le Chevalier non ne è meno convinto di quanto lo fu le Roi. E se Luigi pose a fondamento del suo potere la riduzione della nobiltà a Corte, dei potenti del regno a cortigiani - tutti trasferiti in massa nello splendore abbagliante e inutile di Versailles, costretti a combattersi tra di loro per un sorriso o un posto a tavola accanto al sovrano, oziosi e rammolliti, ridotti a spettatori di un'altra grandezza- Silvio ha sempre avuto ben chiaro (e avendo ben presente il teatrino della politica) che se voleva combinare qualcosa gli seviva un partito di nome ma non di fatto, una classe dirigente delle più varie attitudini e intelligenze, ma sempre con gli occhi puntati sull'Apollo di Arcore.
[...]

Del cardinal Giulio e del cardinal Gianni

A due prelati di gran classe, tanto il Re di Francia quanto il primo Ministro d'Italia, devono le loro fortune. Quello di Luigi era in tonaca reale (anche se poco praticata: "Si dice che il Signor Cardinale voglia diventar Papa e che per questo scopo si farà prete", si ironizzava quando cominciò a circolare la voce che il cardinale Giulio Mazzarino mirasse al papato), e se per lunghi anni cercò di mantenerlo in una sorta di limbo adolescenziale, negli ultimi mesi, prima di morire, fu fondamentale nell'indicare al giovane Re come sopravvivere politicamente e come radicare il suo potere. Gli lasciò persino il suo intero patrimonio, immenso - denari,abbazie, titoli e centinaia e centinaia di capolavori d'arte.
"Era un ministro assi abile e assai accorto che mi amava e che io amavo, e che mi aveva reso grandi servigi ma i cui pensieri e i cui modi erano naturalmente molto differenti dai miei". Parole che al Presidente vanno bene anche per il suo personale cardinale - non in tonaca reale ma di sicuro praticata: Gianni Letta.
I due non potebbero essere più diversi, e pure se Letta fu una volta ripreso in calzoncini mentre lo seguiva in una corsetta salutista, preferirebbe chiaramente trovarsi più in una Casa del Popolo che a Villa Certosa. Ma nonostanti tali differenze non è un caso che Silvio l'abbia così consacrato agli occhi della nazione: "è un dono di Dio all'Italia". Ma principalmente è un dono di Dio al Cavaliere, per non finire ramingo tra Capezone e Quagliariello. Come Mazzarino fu dono di Dio (poi che Dio lo sapesse e tutta un'altra questione) per il suo Re.

Della villa e del castello

Sia Sua Maestà che Sua Eccellenza hanno cercato di creare un luogo di stupori
...

mercoledì, giugno 24, 2009

Vite Parallele /16

Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro , sul Foglio di mercoledì 24 giugno 20O9, fanno panegirico del commentatore giornalistico più influente d'Italia.
Ovvero: "CAPOVOLGETE BORDIN A RADIO RADICALE E AVRETE PADRE LIVIO A RADIO MARIA"


"Lungi dal voler essere irriverenti, se si definisce "programma di culto" una trasmissione condotta da un sacerdote, lo si fa solo per rendere omaggio alla realtà in linguaggio corrente. Perché non si può dire nulla più obiettivo a proposito del "Commento alla stampa" di padre Livio Fanzaga, in onda tutti i giorni su Radio Maria alle 8.45.
Se il maturo professionista ferma la macchina e manda subito qualche decina di sms per avvisare che padre Livio le ha cantate come bisognava cantarle, se la casalinga le suona verbalmente secondo i canoni di padre Livio al marito laicizzato, se il camionista radioamatore catechizza i fratelli di onde corte con le ultime di padre Livio sulla bioetica, allora siamo al cospetto dì un "programma di culto". Se poi il clero progressista butta fanghiglia sul "Commento" di padre Livio e mostra disprezzo verso i cristiani-infanti che lo ascoltano tutte le mattine, allora siamo al cospetto di un "programma di culto" e pure cattolico.

Chi non avesse ancora un’idea di che cosa siano padre Livio e il "Commento alla stampa" di Radio Maria, deve andare su Radio Radicale, prendere Massimo Bordin e il suo "Stampa e regime" e poi capovolgere con decisione.
Padre Livio sta al Papa come Bordin sta, o forse stava, a Pannella. Lo si può verificare nel giro di tre quarti d’ora: appena terminato il "Commento" su Radio Maria, ci si sintonizza su Radio radicale, dove sta andando in onda la trentesima replica di "Stampa e regime", e se ne avrà la prova.
Classe, professionalità e, dedizione da vendere in entrambi i casi, una spanna sopra tutte le altre rassegne. Poi, però, bisogna scegliere e ci spiace per Bordin, ma noi scegliamo senza indugio il direttore di Radio Maria.

Il "Commento" di padre Livio è qualche cosa di veramente unico nelle frequenze radiofoniche in quota a parrocchie, diocesi e associazionismo cattolico, dove, quando va bene, si moraleggia o si spiritualeggia. Il motivo di questa differenza è presto detto. Intanto, perché Radio Maria non appartiene a nessuna diocesi, a nessun movimento religioso, a nessuna conferenza episcopale.
A tenerla in piedi sono gli ascoltatori, che la sostengono versando il loro libero contributo. Padre Livio aggiungerebbe che la radio vive se piace alla Madonna. E poi, questa emittente è unica perché in una radio cattolica difficilmente si trova qualcuno che legga veramente i giornali e non solo Avvenire, e quando questo pure avvenga, si finisce sempre per parlare di ecologia, di sociologia, di psicologia, per dare in testa al consumismo e, naturalmente, a Berlusconi. A meno che non si sia scelto di ritrarsi dal mondo, che è così brutto perché si stanno sciogliendo i ghiacciai, si estinguono le foche monache, è invaso dai centri commerciali e, naturalmente, è governato da Berlusconi.
Così si è formato un popolo
Da una ventina d’anni, padre Livio ha scelto un’altra strada, quella che il cattolico aveva fruttuosamente percorso prima di praticare la cosiddetta opzione spirituale: giudicare la storia, la politica e la cronaca alla luce del Vangelo e del Magistero della chiesa, E, quando è necessario, dare anche un buon cazzotto in testa a chiunque se lo meriti, fosse anche Berlusconi, ma non per partito preso.

Padre Livio è un prete che non ha alcun pregiudizio clericale contro il centrodestra. E questa, scusate se è poco, è già una notizia. Il direttore di Radio Maria non ha paura di sistemare sulla graticola le derive laiciste del cattoprogressismo e di quanti lo rappresentano nel mondo politico. Peccato gravissimo, secondo lo svirilizzato mondo cattolico contemporaneo che non osa nemmeno chiamare omicidio l’aborto e si appresta a benedire un compromesso legislativo sul testamento biologico che porterà diritto filato all’eutanasia. Peccato gravissimo per uno svirilizzato mondo cattolico abituato, quando è tosto, a giudicare il mondo secondo l’ultima circolare della Conferenza episcopale invece che secondo i Dieci comandamenti. Eppure, questa lettura, diciamo pure brutale secondo i canoni correnti, ma diremmo franca secondo quelli perenni, dà frutto.

Con gli anni, attorno a Radio Maria e al suo "Commento alla stampa" si è formato un popolo cattolico che ha preso gusto a ragionare cattolicamente e a farlo in pubblico. Se in un luogo di lavoro uno si alza a difendere la chiesa o il Papa durante una discussione, otto volte su dieci è un ascoltatore di Radio Maria. Oppure appartiene a un movimento apertamente cattolico, certo: ma le due cose spesso si sovrappongono.
Padre Livio fa, via onde medie, quello che facevano i parroci fino a qualche decennio fa con omelie, catechismo e conferenzine. Forma il laicato che, una volta uscito di chiesa, ha il compito di testimoniare la sua fede nel mondo argomentando e resistendo. E lo fa con un di più perché, attraverso Radio Maria, si formano anche tanti sacerdoti usciti un po’ stortignaccoli da seminari che, magari, hanno le piscine per attirare i giovanotti, ma scarseggiano di dottrina quando li devono mandare a nuotare in mare aperto.
Un operato come quello di padre Livio, lo svirilizzato mondo cattolico d’oggi lo chiama clericalismo e non capisce che è il suo esatto contrario.
Non si troverà mai in castagna il direttore di Radio Maria su argomenti opinabili. Sui tassi d’interesse, il pil, il ponte sullo Stretto di Messina, le beghe per la composizione delle liste elettorali, padre Livio sa di poter dire solo ciò che pensa in proprio. E siccome sa anche che questo, con tutto il rispetto, interessa sì e no i suoi ascoltatori, di solito se ne astiene.

Coloro che gli danno del clericale, invece, quando intervengono nel mondo da cattolici, lo fanno proprio sull’opinabile, massimamente sulla composizione delle liste elettorali. E misurano il loro successo sui punti percentuali di cattolicità di una legge fatta approvare dal politico sponsorizzato fin dentro le aule di catechismo. Clericali che vivono e si alimentano di "male minore" e di "maggior bene possibile", mentre la rassegna stampa di Radio Maria tiene la rotta guidata da una sola stella polare: il bene. Il bene e basta, senza aggettivi e senza sconti comitiva.
E’ difficile immaginare padre Livio computare i punti percentuali di cattolicità davanti a una legge strombazzata dalla stampa laica come una nuova conquista di civiltà, Basta ascoltarlo quando le polemica entra nel vivo. Un vero e proprio spettacolo che rinfranca tanti sani cattolici dopo anni trascorsi con rassegnazione sulle panche a sorbirsi omelie che, in nome del dialogo col mondo, non dicevano più nulla di cattolico. In questi casi, il direttore di Radio Maria dà il meglio di sé perché usa volentieri uno strumento caro a Gioppino, la maschera della sua terra bergamasca: il randello.
Mettetegli sotto il naso un editoriale di "Repubblica" o dei "Corriere" sulla famiglia o sul testamento biologico e ne sentirete delle belle. Perché l’uomo è così, ha uno spirito rustico, che magari non farà ridere i salotti radical e clerical-chic, ma lascia il segno.

Detto questo, non bisogna pensare che padre Livio ritenga, come sosteneva Hegel, che la preghiera del mattino dell’uomo moderno sia la lettura del giornale. No: padre Livio Fanzaga prega in cappella, celebra la Messa e dopo, solo dopo, legge i giornali. Forse, proprio per questo non moraleggia e non spiritualeggia. Legge i giornali alla luce del Vangelo e non il Vangelo alla luce dei giornali.
In due parole, è cattolico."

martedì, giugno 02, 2009

Ratzinger in Vacanza (della Sede Apostolica)/2

Ovvero: mirabile disamina del vaticanista Luigi Accattoli intorno alla dichiarazione -durante l'udienza benevolmente concessa ai pargoli della "Pontificia Opera dell'Infanzia Missionaria" - con cui il sedici volte Benedetto Ratzinger confessa la propria mancanza di preveggenza del papato non soltanto nella lontana fanciullezza ma pur anco il perdurante stupore per la propria esaltazione al' supremo pontificato.
Benchè da quasi un lustro cciosamente regnante: "...ancora oggi ho difficoltà a capire come il Signore abbia potuto pensare a me, destinare me a questo ministero..."

Ben intuendo quanta gente di poca fede abbia maliziosamente ritenuto l'esternazione dell'umile lavarotore nella mistica vigna nient'altro che -forse doverosa, dato il puerile uditorio- una pia bugia, il conciliante Accattoli invece attesta e conferma la limpidezza dell'umiltà del sedici volte umile e vieppiù Benedetto:
"...Ma davvero il "cardinale decano" che tutti i media davano tra i "papabili", nell'aprile del 2005, restò sorpreso dall'elezione, avvenuta al quarto scrutinio e a sole 24 ore dall'inizio del Conclave? Io sono convinto della sorpresa e provo ad argomentarla partendo dal maglione nero sotto l'abito bianco con cui si presentò alla folla un'ora dopo l'elezione.

L'emozione sul volto e le braccia in nero sono stati i due primi messaggi al mondo, quando si affacciò al balcone della Sala delle Benedizioni. Quel maglione stava a dire che il "decano"non aveva con sé in Conclave neanche una camicia, non pensando di essere eletto. Uno dei cerimonieri gli disse: «Santità le do la mia camicia ». Ma il neoeletto rispose: «Vado così». Come «umile lavoratore nella vigna del Signore », quale appunto si presentò. Che egli non vedesse l'ora di tornare in Baviera per godersi in pace un'ultima stagione con il fratello don Georg nella casa tra i prati che si erano acquistati - dividendo la spesa - alla periferia di Regensburg, è cosa nota. Ci sono decine di occasioni pubbliche in cui espresse quel "sogno": quando compì 15 anni di "servizio" curiale e poi venti, e al settantesimo e poi al settantacinquesimo compleanno. Ma Papa Wojtyla non lo lasciava andare ed egli ubbidiva.

Meno noto è che in un volumetto intitolato Immagini di speranza pubblicato in Germania nel 1997 - cioè al compimento dei settanta e tradotto in italiano dalla San Paolo nel 1999 - egli avesse scritto, dando per imminente il ritorno in patria, queste parole rivelatrici: «Durante gli anni da me trascorsi a Roma...». Sempre del 1997 è il volume autobiografico La mia vita (anch'esso pubblicato in italiano dalla San Paolo), che si chiude con la rievocazione della leggenda dell'orso di Corbiniano, che era nel suo stemma cardinalizio e che è ancora in quello papale. Il monaco bavarese in cammino per Roma si imbatte in un orso che gli uccide la cavalcatura, forse una mula; e il santo ordina all'orso di prendere il posto della bestia uccisa. Così concludeva il cardinale: «Di Corbiniano si racconta che a Roma restituì la libertà all'orso. Se questo se ne sia andato in Abruzzo o abbia fatto ritorno sulle Alpi, alla leggenda non interessa. Intanto io ho portato il mio bagaglio a Roma e ormai da diversi anni cammino con il mio carico per le strade della città eterna. Quando sarò lasciato libero, non lo so, ma so che anche per me vale il detto di Sant'Agostino: sono divenuto una bestia da soma, e proprio così io sono vicino a te».

Il Papa teologo tornò sulla leggenda dell'orso il 9 settembre 2006 parlando alla folla di Monaco di Baviera: «L'orso di san Corbiniano, a Roma, fu lasciato libero. Nel mio caso, il "Padrone" ha deciso diversamente ».Trovo qualcosa di biblico, del Signore che porta qualcuno dove non vorrebbe, nella chiamata al pontificato che "sorprende" Ratzinger a 78 anni. In questo sobbarcarsi un peso non cercato vedo l'aspetto più avvincente della missione di papa Benedetto: qualcosa come il segno di una disponibilità totale che si fa totale apertura. Oltre le attese, oltre le vedute coltivate."


[ © Copyright Liberal, martedì 2 giugno 2009]