domenica, gennaio 24, 2010

Gran Rabbi nato /13

Il 21 gennaio 2009 il filosofo Jean-Luc Marion prendendo posto del Seggio 4 tra gli "immortali" membri della Accademia di Francia, principava con il solenne panegirico del proprio predecessore tra "Grandi di Francia", ovvero: l'Eminentissimo Jean-Marie Lustiger deceduto il 5 Agosto 2007 ( Arcivescovo di Parigi dal 1981 al 2005).

L'Osservatore Romano nell'edizione 23 gennaio 2010 pubblica la traduzione della parte finale del lungo discorso titolando: "EBREO E CARDINALE. Jean-Marie Lustiger e il «caso serio» della Francia".
A seguire si ripropone la fine della fine, in cui il filosofo propone una autentica "fenomenologia" di quel bambino ebreo di nome Aaron che divenne il Lustiger sommo sacedote dei francesi:

«“Non sia fatta la mia, ma la tua volontà” (Luca, 22, 42).
Nella crisi della Chiesa, Jean-Marie Lustiger vedeva il centro della crisi universale della razionalità, una crisi talmente profonda che il nichilismo rendeva ineluttabile. Vi rispondeva con una sola rivendicazione, per i cristiani naturalmente, ma anche per tutti gli uomini, “il diritto di ricercare la verità e di obbedirle” (Devenez dignes de la condition humaine, p. 66).

Forse il suo destino fu di vivere e di morire come Péguy. Scoprendo un racconto del maresciallo Juin, non ho potuto evitare di associarli. Nel 1953, nel suo elogio di Jean Tharaud, l’amico e collaboratore di Péguy, ricordava la morte del poeta cristiano e socialista, avvenuta il 5 settembre 1914 fra Peuchard e Montyon, “a qualche passo da me”. E raccontava “il miracolo di un nemico, che credevamo vittorioso, che si ferma nel punto preciso in cui egli (Péguy) era caduto, per poi retrocedere nella notte”. L’avanzata tedesca si sarebbe così letteralmente bloccata sulla morte di Péguy, persino a causa di essa. E se, oserei dire, Jean-Marie Lustiger, morto e vivo, segnasse per noi il punto di avanzata ultima del nichilismo, dunque il segno della sua ritirata?
Cosa suggeriva d’altro canto nel ripetere che “siamo all’inizio dell’era cristiana” (Dieu merci, les droits de l’homme, p. 451)?
Corriamo qui nuovamente il ragionevole rischio di credergli.

Noi abbiamo seguito la storia di Jean-Marie Lustiger sulla scia della scelta, ossia della risposta alla parola, essa stessa intesa come una chiamata. Ma, nel suo caso più che in qualsiasi altro, questa parola diceva la parola per eccellenza, poiché si diceva come il Verbo – e questo “Verbo era Dio”. E dunque la scelta si deve qui intendere come la Promessa, fatta dal Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di scegliere un popolo e, attraverso di esso, adottare l’umanità lasciata a se stessa e smarrita. Nessun caso quindi qui, in risposta al colloquio intitolato Le Choix de Dieu (1987), La Promesse designa un libro pubblicato il più tardi possibile (nel 2002), ma divenuto inevitabile dal 1982 e l’intervista concessa al quotidiano israeliano “Yedot Haharonot”, con il titolo di Puisque’il faut… (ripreso in Osez croire, 1985). Era necessario, in effetti, cardinale Lustiger! Se lei constatava che la sua “nomina era una provocazione; che metteva il dito nella piaga; che obbligava la gente a riflettere e a sapere la verità” (Le Choix de Dieu, p. 401), era perché essa mostrava pubblicamente quello che lei aveva scoperto dal 1936, quando Aron non si chiamava ancora Jean-Marie: “Divenendo cristiano, non ho voluto smettere di essere l’ebreo che ero allora. Non ho voluto sfuggire alla condizione di ebreo”, perché al contrario “l’ebraismo non aveva per me allora altro contenuto di quello che ho scoperto nel cristianesimo” (Osez croire, pp. 56 e 60). Una simile evidenza non solo di una continuità, ma persino di un’identità, anche altri, come Bergson, l’hanno vista; ma essa può, in seno a una lunga storia di conflitti fra le due religioni, sorprendere, anzi scioccare. E, da una parte e dall’altra, non è mancato lo stupore, persino l’indignazione. Testimoniano quanto meno la serietà di un dibattito essenziale fra i due interlocutori, poiché di fatto questi imparano a confrontarsi, ognuno per sé e l’uno in rapporto con l’altro, con la scelta e la promessa che li definiscono e che essi rischiano sempre, sebbene in modi diversi, di disconoscere, e dunque di alterare. Cerchiamo dunque di comprendere quello che Aron Jean-Marie Lustiger voleva far intendere.

Innanzitutto voleva dire che (cosa che non può che provocare i cristiani) per un ebreo senza un’educazione religiosa precisa, in altre parole senza una pratica talmudica né una cultura rabbinica, la lettura dell’Antico e del Nuovo Testamento in continuità fa apparire la Bibbia come un solo blocco. Chiunque conosce la Legge e i profeti, la storia della scelta di Israele e le vicissitudini dell’Alleanza, l’attesa del Messia nella figura del Servo sofferente, può ammettere che il cristianesimo “mi era come già noto. Ero persino sorpreso dal fatto che gli altri non comprendevano quello che io comprendevo” (Le Choix de Dieu, p. 71) . In altre parole, è più utile essere ebreo che non ebreo per comprendere Cristo: “Quando, per la prima volta, mi son trovato veramente dinanzi a dei cristiani, conoscevo meglio di loro quello in cui credevano” (Osez croire, p. 59). Entrare nel secondo testamento non implicava alcuna rottura con il primo né con l’identità ebraica, poiché si trattava della stessa promessa.

“Per me, non si è mai trattato di rinnegare la mia identità ebraica. Al contrario, percepivo Cristo Messia d’Israele e vedevo cristiani che non nutrivano stima per l’ebraismo” (Le Choix de Dieu, p. 51). Questa continuità si può ammettere solo se i cristiani rinunciano, anch’essi e per primi, alla rottura, in altre parole se rinunciano a una perversa teologia del verus Israël, all’eresia di Marcione, sempre viva, che mormora all’orecchio che la Chiesa sostituisce Israele e lo annulla. No! Essa vi s’innesta come l’oleastro s’innesta sull’olivo buono secondo un’orticultura ribaltata che l’Apostolo dice “contronatura” (Romani, 11, 24) intendendo per pura grazia. Un cristiano non può accedere al rango di discepolo di Cristo, ebreo, se non con l’inquieta consapevolezza che la “Chiesa non è un altro Israele, essa è il compimento stesso in Israele del disegno di Dio” (La Promesse, pp. 15, 99, 127). “Nel suo Messia, Dio ha compiuto le promesse fatte a Israele” (La Choix de Dieu, p. 76). “Il Cristo, che Dio ha fatto Signore di tutti e Primogenito dei morti, non si sostituisce a Israele; ne è la suprema figura e il frutto perfetto. Non è la negazione d’Israele, è la sua redenzione” (La Choix de Dieu, pp. 359 e 446). La redenzione d’Israele si è compiuta nella redenzione di tutti gli uomini che Cristo integra in se stesso. Poiché tutti i popoli saliranno a Gerusalemme, purché sia la Gerusalemme che discende dal cielo.

Ne consegue che la Chiesa nasce ebrea e che il primo dibattito ha luogo fra gli ebrei che riconoscevano Gesù di Nazaret come Cristo, il Messia, che ha sofferto ed è stato risuscitato da Dio, e gli ebrei che non lo riconoscevano come tale. La prima divisione, dopo la distruzione del secondo Tempio, separò quelli che riconoscevano il corpo di Cristo come l’unico sacrificio che si potesse rendere a Dio e quelli che ormai senza tempio e senza sacrificio, instauravano il culto sinagogale e la lettura talmudica. Cristo ha provocato innanzitutto l’elezione degli ebrei e la Chiesa si definisce innanzitutto fra gli ebrei, che tutti restano però legati all’unica elezione, destinati all’unica promessa. Poiché mai un ebreo può smettere di restare tale nella sua carne, e questo è uno dei suoi privilegi rispetto al cristiano. In poche parole, come si vanta Paolo di Tarso: “I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Romani, 11, 29). Se condivisione ci doveva essere, non ci fu tra gli ebrei e i cristiani, ma essenzialmente e prima di tutto fra gli ebrei restati fedeli alla loro elezione e che, per questo, hanno creduto di dover rifiutare a Gesù la dignità di Cristo e gli ebrei che, per restare fedeli all’unica elezione, si sono decisi a riconoscere Gesù come il Messia.

Così si percepiscono la grandezza e la debolezza della Chiesa dei cristiani che la visione di Aron Jean-Marie Lustiger provoca qui fino in fondo. Una volta associati di diritto i pagani alla salvezza venuta attraverso gli ebrei, certamente, la “Chiesa è allo stesso tempo quella degli ebrei e quella dei pagani” (La Promesse, p. 17). Di conseguenza, però, occorre, perché questi pagani diventino anch’essi autentici cristiani, che smettano di comportarsi come pagani e dunque accettino il loro innesto sull’olivo buono, sulla radice ebraica. Rimettere in discussione questo innesto, dunque qualsiasi forma di antisemitismo, equivale a rinnegare Cristo in loro. “Si può dire che l’atteggiamento concreto dei pagano-cristiani nei confronti del popolo d’Israele è il sintomo della loro infedeltà reale a Cristo o della loro menzogna nella loro pseudo-fedeltà a Cristo. È la confessione involontaria del loro paganesimo e del loro peccato” (La Promesse, pp. 74, 80, 162). Oppure: “Al centro della storia, il rapporto con l’ebraismo è un test della fedeltà cristiana” (Le Choix de Dieu, p. 82). E ancora: “Quello che le nazioni fanno degli ebrei verifica quello che esse fanno di Cristo” (ivi, p. 84).

Come non pensare qui alle riflessioni critiche di Lévinas a proposito di Montherlant, che vedeva “alleato di un cristianesimo che è soprattutto il cristianesimo dei pagani e non il cristianesimo degli ebrei” (Carnets de captivité, p. 183)? Come non pensare alle tentazioni e ai tentativi di fabbricare un cristianesimo esplicitamente degiudaizzato, un Gesù “dolce galileo”, persino provenzale o francamente ariano? Se dunque l’antisemitismo diviene “veramente il test assoluto” (ivi, p. 156) dell’apostasia cristiana, allora un cristiano antisemita semplicemente non è più cristiano: “Ai miei occhi, gli antisemiti non erano fedeli al cristianesimo” (Le Choix de Dieu, p. 51). Non si deve dunque confondere l’antiebraismo, disputa fra eredi per sapere chi resta più fedele e merita meglio l’elezione – disputa falsata d’altronde da entrambi i lati, in quanto ogni eletto non può giudicare la propria risposta a un’elezione che gli viene da un altro – confondere, dicevamo, l’antiebraismo con l’antisemitismo, che vuole niente di meno che rifiutare categoricamente quella stessa eredità, e che per riuscire a farlo nega agli ebrei la loro elezione, al punto di annientarli perché incarnano irrimediabilmente la promessa di Dio. La Shoah non costituì solo la più grande violazione dei diritti dell’uomo, essa rappresentò anche la più grande blasfemia contro la legge di Dio, poiché si abbatté sul popolo da Lui scelto, sugli ebrei e, permettetemi di aggiungere, in definitiva anche sui cristiani, sul popolo immenso della promessa universale. L’ateismo moderno, per lo meno nelle sue figure totalitarie compiute, si è voluto non solo anticristiano, ma alla fine anche antisemita, perché “non (poteva) sopportare la presenza “particolare” dell’Assoluto nella storia” (Le Choix de Dieu, p. 84). Non pretese solo di annullare Dio, ma anche di cancellare qualsiasi traccia dell’elezione attraverso la quale Dio si rivela nel mondo.

“Dio è morto”. Certo, ma quale Dio? Nietzsche ha constatato il primo fatto, ma poneva anche la seconda domanda. Per un ebreo “e dunque” un cristiano, la risposta viene da sé: “Il dio rifiutato non è che il dio dei pagani mascherato da Dio dei cristiani” (La Promesse, p. 101), “l’idolo dei pagano-cristiani” (ivi, p. 134), la folla degli “dei degradati, idoli degradanti” (Devenez dignes de la condition humaine, p. 23).
Così meditata da Aron Jean-Marie Lustiger, ebreo e cardinale della Chiesa cattolica, l’elezione non è più un incidente della storia, ma ne fissa il senso e ne schiude le ultime dimensioni.
Certo, si può temere, come il suo predecessore su questo stesso seggio, Pierre Emmanuel, che l’elezione resti spesso incerta: “Il cielo/ È sempre così lontano dalle sue due braccia che tendono/ tutto il peso del dolore dell’uomo verso l’alto/ In una invettiva o in una invocazione, chi può dirlo?”.
Ma, nel profondo di ognuno di noi, sappiamo bene che, persino per noi nelle nostre povere blasfemie, risuona sempre una chiamata, eco persistente dell’elezione di Aron Jean-Marie Lustiger.

Mentre vorrei cercare di esprimervi, signore e signori dell’Accademia, la mia gratitudine per l’onore che mi avete fatto ricevendomi fra di voi, un timore più grande mi fa tacere: voi mi avete eletto al seggio che occupava e che occuperà sempre questa figura troppo alta. E, nella sua luce, tutto ci appare più grande e dunque più difficile. Ma anche di questa difficoltà vi sono grato. Che esista dunque, utinam».

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